25 aprile, festa della Liberazione!

25 aprile, festa della Liberazione!
Oggi, 25 aprile, ricorre in Italia l’ottantesimo anniversario della Liberazione.
L’anniversario della liberazione d’Italia, noto anche come festa della Liberazione (o semplicemente il 25 aprile), è una festa nazionale della Repubblica Italiana, che si celebra ogni 25 aprile per commemorare la liberazione dell’Italia dall’ occupazione nazista e dal fascismo, a coronamento della resistenza italiana. È un giorno fondamentale per la storia d’Italia, come simbolo della lotta condotta dai partigiani e dall’esercito a partire dall’8 settembre 1943 (giorno in cui gli Italiani seppero dell’armistizio di Cassibile, appena firmato con gli Alleati, anglo-americani).
In verità, non si è trattato di un armistizio bensì di una “resa incondizionata”, come risulta dagli atti formali sottoscritti a Cassibile (una frazione di Siracusa).
Molti giovani, ma non soltanto loro, fanno confusione tra le due date, ed anche sui fatti e sugli eventi avvenuti si accavallano narrazioni di svariato genere che finiscono con lo stravolgere completamente la storia, quella vera, quella tragica storia che racconta di una “guerra civile” avvenuta in Italia in quel periodo, in cui gli italiani combatterono (e si ammazzarono) tra di loro, spinti da opposte posizioni politiche, gli uni contro gli altri armati.
Benito Mussolini, quindi il Fascismo, aveva stretto con Adolf Hitler, quindi con il Nazismo, il cosiddetto Patto d’Acciaio (in tedesco: Stahlpakt), formalmente noto come Patto di amicizia e di alleanza fra l’Italia e la Germania (in tedesco: Freundschafts und Bündnispakt zwischen Deutschland und Italien); un accordo tra i governi del Regno d’Italia e della Germania nazista, firmato il 22 maggio 1939.
E furono tanti i militari italiani che immolarono la loro vita in guerre ed occupazioni naziste sotto l’egida del Führer, che aveva come obiettivo l’espansione territoriale della Germania e la creazione del “Terzo Reich” che dominasse l’Europa e il mondo. L’ideologia nazista, fondata sul razzismo e il nazionalismo aggressivo, giustificava l’uso della forza per raggiungere questi scopi.
E Mussolini, in cuor suo, immaginava di potersi alla fine sedere al “tavolo dei vincitori” per accaparrarsi qualche pezzo di territorio conquistato.
Allo sbarco delle forze anglo-americane in Europa, alle quali si erano nel frattempo aggregate anche altre nazioni, tra cui la Russia, l’Italia cominciò ad essere duramente bersagliata (le città maggiormente colpite furono Torino, Milano e Genova, “il triangolo industriale”, ma anche tanti altri obiettivi strategici, come Montecassino, Foggia, ecc.), fintanto che – messa con le spalle al muro – fu costretta di “arrendersi”, voltando di fatto le spalle all’alleato tedesco e mettersi sotto la protezione dei “nuovi alleati”.
Tutto ciò creò due ordini di problemi: il primo riguardò le inevitabili ritorsioni tedesche contro gli italiani ed il secondo provocò l’inizio di una vera e propria guerra civile tra gli italiani (filo americani e filo russi) e quelli cosiddetti “repubblichini” (pro Repubblica di Salò – e dunque filo tedeschi – costituitasi a seguito della liberazione per mano tedesca di Benito Mussolini, arrestato, per ordine del Re d’Italia, dopo la sua destituzione da parte del Gran Consiglio, con la nomina del generale Pietro Badoglio come nuovo capo del Governo, in sua vece).
Nel mentre vari movimenti partigiani operavano alla macchia, mettendo a repentaglio le loro vite per liberare l’Italia dal nazi-fascismo, collaborando a spianare così la strada alle nuove forze alleate.
E il nazi-fascismo venne dunque sconfitto, anche grazie a queste formazioni, di diversa natura ed estrazione, ma unite dal medesimo obiettivo di libertà.
Terminò pure la guerra civile, anche se qualche strascico si è protratto nel tempo, trasformandosi nondimeno da lotta armata a lotta verbale in cui ciascuno rivendica ancora l’atavico posizionamento di appartenenza.
Ecco, oggi, 25 aprile, è la festa della Liberazione, la festa di tutti noi italiani!
Dopo ottant’anni, sarebbe ora di stendere un velo pietoso sui torti e le ragioni di ciascuna delle “posizioni”, stringersi la mano, abbracciarsi fraternamente ed evitare sterili ed inutili polemiche.
Viva l’Italia, viva la Libertà.

Papa Francesco è tornato alla casa del Padre!

Papa Francesco è tornato alla casa del Padre!
Papa Francesco si è spento oggi alle 7:35. L’annuncio, di poche righe, è arrivato tramite un bollettino della sala stampa della Santa Sede.
Con la morte di Papa Francesco, la Chiesa Cattolica entra in una fase di transizione.
È nota come Sede Vacante, il periodo in cui il trono di San Pietro resta in attesa dell’elezione di un nuovo Pontefice.
Questo momento è regolato da precise norme e tradizioni, stabilite dalla Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis promulgata da Giovanni Paolo II nel 1996 e aggiornate da Benedetto XVI.
Il 266esimo Papa della Chiesa cattolica, al secolo Jorge Mario Bergoglio, aveva 88 anni ed era nato il 17 dicembre 1936 a Buenos Aires, in Argentina, da genitori provenienti dall’Italia.
Dopo essersi diplomato come tecnico chimico, scelse la strada del sacerdozio e, nel 1958, entrò nella Compagnia di Gesù. Nel 1963 si laureò in filosofia al collegio San Giuseppe a San Miguel, in Argentina, e mentre insegnava letteratura e psicologia in un collegio di Buenos Aires si laureò anche in Teologia. L’ordinazione a sacerdote arrivò nel 1969, poi venne nominato vescovo di Auca da Giovanni Paolo II. Nel 1998 diventò arcivescovo di Buenos Aires e il 21 febbraio 2001 Giovanni Paolo II lo creò cardinale. Dopo la rinuncia di Papa Benedetto XVI, nel marzo del 2013, Jorge Mario Bergoglio partecipò al conclave nel quale, dopo cinque scrutini, venne eletto Sommo Pontefice.
Bergoglio è stato il primo gesuita a diventare Papa e il primo Pontefice proveniente dal continente americano. La scelta del nome di Francesco, da Pontefice, è legata alla speranza di seguire le orme del santo di Assisi
La morte del Santo Padre è stata annunciata dal cardinale Kevin Farrell con queste parole: “Carissimi fratelli e sorelle, con profondo dolore devo annunciare la morte di nostro Santo Padre Francesco. Alle ore 7:35 di questa mattina il Vescovo di Roma, Francesco, è tornato alla casa del Padre. La sua vita tutta intera è stata dedicata al servizio del Signore e della Sua chiesa. Ci ha insegnato a vivere i valori del Vangelo con fedeltà, coraggio ed amore universale, in modo particolare a favore dei più poveri e emarginati. Con immensa gratitudine per il suo esempio di vero discepolo del Signore Gesù, raccomandiamo l’anima di Papa Francesco all’infinito amore misericordioso di Dio Uno e Trino”.
Ogni morte di papa.
L’espressione “ogni morte di papa” significa che un evento si verifica molto raramente o a intervalli molto lunghi. Questa frase deriva dal fatto che la morte di un papa è considerata un evento eccezionale e poco frequente nella storia, dato che i pontificati tendono a durare a lungo. In sostanza, si usa per indicare qualcosa che accade sporadicamente.
Personalmente, ho avuto la fortuna di conoscere ben sette Papi – il cui elenco viene qui sotto riportato con la durata di ciascun pontificato – e mi accingo ad assistere ora all’elezione dell’ottavo.
Pio XII: 19 anni, dal 2 marzo 1939 al 9 ottobre 1958;
Giovanni XXIII: 4 anni e sette mesi, dal 28 ottobre 1958 al 3 giugno 1963;
Paolo VI: 15 anni, dal 21 giugno 1963 al 6 agosto 1978;
Giovanni Paolo I: 33 giorni, dal 26 agosto al 28 settembre 1978;
Giovanni Paolo II: 26 anni e cinque mesi, dal 16 ottobre 1978 al 2 aprile 2005;
Benedetto XVI: 7 anni e 10 mesi, dal 19 aprile 2005 al 28 febbraio 2013;
Francesco: 12 anni e un mese, dal 13 marzo 2013 al 21 aprile 2025.
Addio a Papa Francesco, il Pontefice “venuto dalla fine del mondo”, come egli stesso disse il giorno della sua elezione affacciandosi in piazza san Pietro a Roma per salutare la folla di fedeli osannanti.

Piove, governo ladro!

“Piove, governo ladro” è un modo di dire che rappresenta il governo come fautore di ogni male possibile, capace anche di far piovere in una giornata d’estate.
L’espressione “Piove, governo ladro” ha origini storiche che risalgono al Regno Lombardo-Veneto durante l’occupazione austriaca, dove i contadini si lamentavano delle tasse elevate sui raccolti. La frase è stata documentata per la prima volta nel 1861 in una vignetta del caricaturista Casimiro Teja e potrebbe avere radici satiriche risalenti al Medioevo o all’antica Roma. Essa riflette il malcontento della popolazione nei confronti del governo, specialmente in relazione a tasse come quella sul sale, nota come “gabelle”. In sintesi, il detto esprime una critica alla gestione pubblica quando le cose vanno male, evidenziando la tendenza a dare la colpa al governo per le difficoltà quotidiane. (Cfr. Wikipedia)
Ma non è di questo che intendo parlare.
Piove, diluvia di nuovo su buona parte della nostra bella Italia e la Pasqua 2025 si annuncia ancora una volta bagnata, ma soprattutto accompagnata da notevoli disagi per chi deve viaggiare, approfittando dei favorevoli ponti con le festività del 25 aprile e del primo maggio.
Ponti (riferiti ai manufatti che servono per assicurare la continuità del corpo stradale o ferroviario nell’attraversamento di un corso d’acqua, di un braccio di mare, o di un profondo avvallamento del terreno) divelti dalla furia dell’acqua dei fiumi, allagamenti, frane e quant’altro di più catastrofico ci si possa aspettare.
E ci risiamo, com’è giusto che sia, con gli interventi alle popolazioni colpite e con gli interventi di messa in sicurezza delle infrastrutture e, laddove necessario con gli interventi di ripristino.
E questo fa il paio con i terremoti che non di meno fanno da corollario al nostro territorio di natura piuttosto ballerino.
Quanto spendiamo ogni anno e quanto abbiamo speso negli anni per queste situazioni che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono caratterizzate dalla ripetitività, sia in termini di casistiche e sia riguardo alle specifiche localizzazioni?
Sicuramente abbiamo speso tanti bei soldini dei contribuenti, limitandoci però a mettere pezze e pannicelli caldi sulle ferite, anziché progettare e realizzare le necessarie ed adeguate opere atte a prevenire o per lo meno mitigare i suddetti nefasti fenomeni.
Gli investimenti (costi), quelli giusti, hanno peraltro un ritorno (benefici) per quanto attiene alla sicurezza delle popolazioni frequentemente colpite, oltre che per le economie che ne conseguono rispetto agli attuali interventi ripetitivi, non più necessari (salvo casi eccezionali).
E tali investimenti, programmabili per periodi temporali medio lunghi, comporterebbero un considerevole impiego di manodopera, dalla progettazione all’esecuzione delle opere (ingegneri, geometri, periti, avvocati, commercialisti, ragionieri, tecnici, muratori, carpentieri, fabbri, idraulici, manovratori di attrezzature meccaniche e tanti, tanti altri), con utilizzo di ferro, cemento, laterizi, e materiali più svariati, riattivando così diversi comparti ed indotti produttivi, al momento in crisi.
E il PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) poteva e doveva rappresentare l’occasione propizia e favorevole per dare una raddrizzata al territorio italiano così fragile nella sua intrinseca “ossatura”.
Invece no, abbiamo preferito – fatte le debite eccezioni per le infrastrutture stradali e soprattutto ferroviarie, per le quali già da qualche anno c’è stata una certa inversione di tendenza: Autostrade e Linee ad Alta Velocità) – spendere il denaro per cose futili e di interesse elettorale.
O forse c’è uno specifico interesse a mantenere lo status quo, confidando nella cattiva sorte (alluvioni, frane, smottamenti e terremoti) per dispensare agli amici degli amici, con affidamenti diretti, dettati dai consueti motivi di indifferibilità ed urgenza, ogni genere di appalti e commesse, in barba all’indizione di gare formali per le progettazioni (fattibilità, definitive ed esecutive) e l’esecuzione dei lavori?
Al mio paese, si narra che tanti, tanti anni fa c’era un tizio che, accortosi di una perdita di acqua piovana dal soffitto della propria abitazione, chiamò un muratore per la riparazione del tetto, coperto con coppi in cotto (una tipologia di tegole).
Il muratore eseguì la riparazione per la quale venne ricompensato con una coppia di caciocavalli*.
Dopo qualche tempo, alla prima pioggia, la perdita ricomparve e venne nuovamente chiamato il muratore che eseguì la riparazione e venne ricompensato ancora con una coppia di caciocavalli.
E così, per anni: pioggia, infiltrazione, riparazione, caciocavalli!
Il muratore aveva un figlio, ormai divenuto grandicello, che cominciava a seguire il padre per apprendere il mestiere; e un giorno lo accompagnò sul solito tetto per la consueta riparazione, scoprendo all’istante che uno dei coppi della copertura era vistosamente bucato. “Padre” – esclamò – “Ho individuato il motivo dell’infiltrazione, c’è un coppo bucato da sostituire con un nuovo coppo integro”. E il padre, con voce pacata e tono suadente, gli rispose: “Figlio mio, evidentemente tu non vuoi più mangiare caciocavalli”.
A mio modesto parere, i detti, i proverbi, i modi di dire rappresentano la quintessenza della saggezza popolare ed in essi risiede la filosofia della vita stessa degli esseri umani.

*Il caciocavallo è un formaggio tipico del Mezzogiorno d’Italia (Regno di Napoli in particolare) e, secondo alcune fonti, trae la sua origine dall’uso di appendere ad asciugare i formaggi, legati in coppia, a cavallo di una trave.
U scijore de prezzecocche

Lorenzo Bove
U scijore de prezecocche
Dal manoscritto di Antonietta Chiaromonte
Un nuovo libro di Lorenzo Bove sui detti, proverbi e modi di dire del dialetto Tarnuèse (degli abitanti di Tarranòve), Poggio Imperiale in provincia di Foggia, perché “Lasciare che il tempo e l’incuria della gente permetta che le opere del passato, le gesta dei popoli antichi, gli usi e i costumi, le usanze e le tradizioni finiscano con l’essere a poco a poco coperti dalla polvere dell’oblio, fino a svanire inesorabilmente dalla mappa delle umane conoscenze, rappresenta davvero un crudele destino” (Cfr. Lorenzo Bove, ‘Ddummànne a l’acquarùle se l’acqu’è fréscijche’. Detti, motti, proverbi e modi di dire tarnuése. Edizioni del Poggio, 2008, Seconda Edizione, ristampa 2010)
Dalla quarta di copertina:
«Detti, motti, proverbi e modi di dire, nonché filastrocche, di Tarranòve, un piccolo Borgo dell’Alto Tavoliere, in terra di Capitanata, sorto verso la metà del 1700, annotati nel tempo e con molta pazienza da Antonietta Chiaromonte, giorno dopo giorno su di un quadernetto a quadretti, onde evitare che alcuni termini potessero svanire dalla memoria, e gelosamente custoditi.
E, poi, la scintilla del sacro fuoco delle emozioni, che ti porta a credere nelle cose che stai facendo, ritenendole giuste ed utili non per fini meramente personali, o per pura autoreferenzialità, bensì come contributo di conoscenza per le future generazioni, ritenendo che proprio quella della conoscenza sia la strada migliore per potere affrontare con cognizione di causa le situazioni presenti e future.
Le emozioni sono alla base di tutti i sentimenti e sono universali per tutti gli esseri umani.
Il sentimento è un’emozione pensata, ragionata; è la presa di coscienza dell’emozione che lo genera.
L’arte è un linguaggio potente che permette di esprimere e comunicare emozioni in modo unico ed evocativo.
Il dialetto, i detti, i motti, i proverbi e modi di dire, nonché le filastrocche, fanno parte, a pieno titolo, del patrimonio immateriale dell’umanità.
E così, con percepibile trepidazione da parte dell’interessata, quello ‘scrigno’ segreto è stato infine aperto, per condividerne il contenuto e consentire la sua rielaborazione in un testo organico ed ampiamente commentato, onde rendere maggiormente decifrabili, leggibili e comprensibili i termini dialettali tarnuìse riportati, e scoprire allo stesso tempo il loro significato e la loro possibile origine, sullo sfondo degli usi e costumi e delle tradizioni di questa piccola comunità».

Questo libro è autoprodotto e stampato per conto esclusivo dell’autore ‘in limited edition’ (in edizione limitata) ed è dedicato prevalentemente alla ristretta cerchia delle persone più care nonché agli appassionati di tradizioni e storia locale interessati.
È vietata la copia e la riproduzione in qualsiasi forma dei contenuti e delle immagini, nonché la loro pubblicazione se non autorizzata espressamente dall’autore medesimo.
Copyright © 2025 Lorenzo Bove
Tutti i diritti riservati.
Stampato nel mese di marzo 2025 presso GR SERVICE Via Veneto, 21/23 35020 Due Carrare (PD) +39 049629967 info@gr-service.it
Inoltre, di questo libro è stato autoprodotto anche un eBook in formato digitale, che viene offerto gratuitamente in lettura su questo stesso Sito/Blog www.paginedipoggio.com alla Pagina:
EBOOK (scarica,sfoglia e leggi)

Il grande bluff

(Il grande imbroglio)
Il “Liberation day” del 3 aprile scorso di Donald Trump, il nuovo (rinnovato) Presidente degli Stati Uniti d’America, che ha comportato una colossale “sparata” di dazi, a più non posso, dà l’idea di un vero e proprio “assalto alla diligenza”, nel ricordo dei vecchi film di cow boy di un tempo passato.
Una follia!
Vogliono negoziare la sostenibilità del debito pubblico americano e la svalutazione del dollaro per accaparrare risparmi stranieri (europei compresi) e attrarre negli Usa investimenti finalizzati alla reindustrializzazione generale.
“La paura sbarca a Wall Street, ma Lui gioca a golf”.
“Le Borse bruciano miliardi”.
“Un tonfo sui mercati con rari precedenti, con i listini europei che bruciano 890 miliardi e Wall Street che ne perde 2.000”.
Questi i titoli dei giornali di tutto il mondo.
Ma le Borse bruciano davvero i miliardi?
Come funzionano davvero i mercati finanziari?
L’espressione è spesso usata dai “media”, ma non è tecnicamente corretta; questo non significa però che non ci siano stati danni per gli investitori e per i risparmiatori.
Si tratta di un’espressione diffusa nel linguaggio dei “media” che evoca nella nostra mente una montagna di banconote ridotte in cenere senza la possibilità di essere più recuperate. In realtà non è così, dal punto di vista economico, infatti, si tratta di un’espressione che non ha un vero senso. I miliardi dei titoli, infatti, non sono “bruciati”, cioè non sono scomparsi: sono in realtà passati di mano perché nei mercati finanziari generalmente se qualcuno perde c’è sempre qualcuno che ci guadagna.
E qui casca l’asino!
Facciamo prima un necessario distinguo:
Il crollo delle Borse può dipendere da un caso fortuito o di forza maggiore, a seguito cioè di eventi imprevisti ed imprevedibili (guerre, pandemie, disastri, attentati del tipo di quello alle Torri gemelle, etc.), ovvero da situazioni di altra natura, anch’esse imprevedibili, ma non impossibili, ed a volte volutamente provocate ad arte!
Sicuramente la seconda casistica delle ipotesi enunciate risulterebbe assai più complicata per la sua realizzazione, nel solo immaginare la possibilità di elusione di tutti i sistemi di sicurezza e controllo esistenti al riguardo.
Tuttavia nulla è impossibile, soprattutto quando si hanno in mano le “leve del potere” e si attivano arbitrariamente prevaricazioni in barba all’ordine costituito delle cose, in nome di un presunto mandato popolare illimitato e senza confini.
Fantasia, si dirà; si è vero, semplicemente fantasia!
Tuttavia una spiegazione deve pur esserci in questi frangenti: il passaggio di mano dei miliardi “bruciati” c’è stato ed è tutt’ora in atto.
Nelle mai di chi sono finiti?
E chi ne è l’artefice?
Il “Liberation day” è stato voluto e non si tratta certamente di un caso fortuito o di forza maggiore; e chi ne aveva previsto gli effetti ha avuto anche tutto il tempo per mettere in salvo i propri investimenti, pronto poi a reinvestire sui titoli a ribasso.
Ai posteri l’ardua sentenza.

L’inizio del Terzo Millennio non ci offre nulla di nuovo!

È vero!
Non si finisce mai di stupirsi.
Pensavamo, dopo l’ultima epidemia dell’inizio del secolo scorso, la cosiddetta Spagnola, che aveva mietuto vittime a più non posso, che mai più ci saremmo fatti prendere alla sprovvista e che con i progressi della scienza e la “tecnologia che avanzava”, saremmo stati in grado di prevenire, per tempo, qualunque situazione di rischio epidemico per l’umanità intera.
E soprattutto dopo che l’uomo aveva messo piede sulla Luna.
Eravamo alla fine del secondo millennio.
Ad un secolo di distanza, all’inizio del terzo millennio, puntualmente, è tutto come prima, alla lettera: il Covid, la recente nuova epidemia, ci ha spiazzati completamente e ancora una volta ha spazzato via tante vite umane, come se nulla fosse.
Dopo le disastrose due ultime Guerre Mondiali, della fine del secondo millennio, avevamo giurato che mai più gli esseri umani sarebbero scaduti a carne da macello per l’avidità e la bramosia di conquiste da parte “degli uni contro gli altri armati”, attraverso occupazioni, deportazioni, genocidi, campi di concentramento et similia.
E l’Onu, la Nato e le tante organizzazioni di pace hanno contribuito a mitigare “i bollenti spiriti” che ogni tanto si accendevano qua e là.
Era prevalsa la ragione sulla forza. O, per lo meno, così sembrava.
Nuove Costituzioni illuminate, Repubbliche parlamentari ed ancora alcune Monarchie, anch’esse comunque costituzionali – parlamentari, sovranità popolari, libere elezioni, bilanciamento dei poteri con pesi e contrappesi, tripartizione dei Poteri della Stato (Legislativo, Esecutivo e Giudiziario).
In altre parole: Democrazia.
La democrazia (dal greco antico: démos, “popolo” e, krátos, “potere”) etimologicamente significa “governo del popolo”, ovvero forma di governo e valori sociali in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente, dal popolo, che generalmente è identificato come l’insieme dei cittadini.
Ma l’inizio del terzo millennio sembra aver risvegliato gli uomini (ed è il caso di dirlo: anche le donne!) da una sorta di torpore. E, quindi, piano piano, in sordina, come il fuoco delle braci, che improvvisamente riprende vigore dopo aver covato, silente, sotto la cenere, ecco che i vecchi istinti, mai del tutto sopiti, ricominciano a riprendere vigore.
Alcuni sentori in Turchia con il Presidente Erdogan e, in piena Europa con il Presidente Orban in Ungheria; ma è soprattutto la Russia del Presidente Putin che ha completamente rotto gli argini del rispetto reciproco delle regole del gioco, invadendo territori “sovrani”, sulle tracce di un passato ormai perduto e all’insegna di una pretesa restaurazione del potere “degli Zar di tutte le Russie”, risorti dalle loro vestigia e reincarnati nel nuovo Zar Vladimir Putin. E l’ultima sua invasione, in ordine di tempo, riguarda l’Ucraina, con una guerra che va avanti ormai da oltre tre anni, nel mentre il fuoco della belligeranza continua a divampare anche nella Striscia di Gaza, tra Israele e Palestina; altra diatriba mai risolta!
E, negli Stati Uniti d’America, ritorna il Presidente Trump, per il suo secondo mandato, intervallato dai quattro anni di presidenza Biden, minacciando occupazioni: Canada, Groenlandia, Messico, Canale di Panama ed altro; dazi dal 25 al 200 per cento; abbandono dei tavoli delle Alleanze, facendo carta straccia dei trattati e delle convenzioni internazionali, con deportazioni in massa dei migranti.
Riguardo ai dazi e alla guerra ai prodotti stranieri (Europa compresa), in economia l’autarchia è l’autosufficienza (o presunta tale) economica di una nazione, raggiunta tramite l’indipendenza assoluta o relativa dell’economia nazionale e la riduzione degli scambi con altri paesi. Una condizione che molto spesso si rivela un vero e proprio boomerang per chi la pratica.
Inoltre, Trump rinnega le leggi federali approvate in Congresso e le stesse sentenze della Corte Suprema circa gli obiettivi di equità fissati dalla Costituzione in alcuni emendamenti. È il trionfo del pregiudizio della superiorità dell’uomo bianco a cui spetta (!) per diritto divino il comando.
Oggi Tramp e Putin mostrano un certo riavvicinamento prendendo spunto dal conflitto in Ucraina, che – secondo il Presidente americano – potrà cessare solo ad opera sua, con il beneplacito di quello russo.
Cosa si sono detti veramente fra di loro, nel privato, non è dato sapere, ma il tutto lascia trasparire che ci sia in ballo la spartizione di beni preziosi (terre rare, gas e altro), oltre all’appetibile ricostruzione dei territori devastati dalla guerra. E, molto più in generale, è in ballo un nuovo equilibrio mondiale, tant’è che anche la Cina comincia a dare i suoi primi segnali di irrequietezza.
Che fra il Presidente americano Donald Trump e quello russo Vladimir Putin, vi sia una certa intesa, una sorta di “affinità elettiva”, è innegabile, dal momento che lo dichiarano a chiare lettere i diretti interessati. Ma quali sono le ragioni di questa intesa? Quali fattori la rendono possibile? Dal punto di vista degli studiosi di psicopolitica, riportato dalla stampa internazionale, Trump e Putin sono due figure politiche che, nonostante le differenze culturali e biografiche, mostrano alcune significative somiglianze nel loro approccio alla leadership e alla gestione del potere. Somiglianze che possono spiegare il motivo per cui i due leader hanno spesso trovato un terreno comune nella loro reciprocità, e probabilmente ancora di più lo troveranno in futuro.
Ad esempio, entrambi dimostrano una spiccata tendenza verso un approccio autoritario nella gestione del potere, neutralizzando gli oppositori politici, con un accentramento del potere stesso, sfidando apertamente le istituzioni e i media che criticano il loro operato.
Putin, in particolare, ha consolidato il suo controllo sulla Russia attraverso la centralizzazione del potere.
Entrambi utilizzano i media come strumento di propaganda, per rafforzare la loro immagine e influenzare l’opinione pubblica. Un certo tratto di narcisismo mediatico li accomuna, facendo leva sul nazionalismo e sul populismo per consolidare il loro potere.
Putin ha promosso un forte senso di orgoglio nazionale e ha utilizzato la retorica anti-occidentale per unire il popolo russo sotto la sua leadership; Trump ha adottato a sua volta una retorica populista, promettendo di “rendere l’America grande di nuovo” e di proteggere gli interessi dei cittadini comuni americani contro le élite politiche ed economiche.
E, purtroppo, questi due modi di essere fanno tendenza e molti sono i loro sostenitori, supporter, ammiratori, fanatici, soprattutto tra i personaggi politici che tendenzialmente, in giro per il mondo (Italia compresa), cominciano ad emularli.
L’inizio del Terzo Millennio non ci offre, quindi, nulla di nuovo!
Sembra essere ripiombati nel passato, in un tremendo “déjà vu”, quel fenomeno psichico rientrante nelle forme d’alterazione dei ricordi (paramnesie), che provoca la sensazione di un’esperienza precedentemente vista.
Stiamo attraversando davvero un brutto momento e dobbiamo cercare di tener duro, senza lasciarci prendere dallo sconforto, ma nemmeno da facili entusiasmi, cercando soprattutto di tenere la barra dritta sui valori fondanti della democrazia.
In Europa qualcosa si sta muovendo nel verso giusto, soprattutto ad iniziativa del Presidente francese Emmanuel Macron e del Cancelliere tedesco (in pectore) Friedrich Merz, con l’appoggio (esterno) del Premier inglese Keir Starmer, e l’Italia deve dar voce a quella forza propulsiva che ispirò Spinelli e De Gasperi, tra i padri fondatori, verso la concreta realizzazione di un’Europa unita, basata su ideali condivisi e con un comune “idem sentire”, ove ciascuno degli Stati membri sia disposto a cedere una parte della propria sovranità nazionale per costituirne un’altra più estesa, quella dell’intero popolo europeo, ove ogni cittadino della comunità possa veramente riconoscersi.
La speranza è sempre l’ultima a morire!

Foto di repertorio da Internet
Le Foibe imbrattate con scritte vandaliche

Non solo per le vittime dell’Olocausto per mano nazifascista, che commemoriamo nella ricorrenza del “Giorno della Memoria” del 27 gennaio, ma anche per quelle massacrate e gettate nelle cavità carsiche per mano comunista, ricorre domani il loro “Giorno del Ricordo”.
Il 10 febbraio di ogni anno si celebra infatti il “Giorno del Ricordo”, ricorrenza istituita con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 per conservare e rinnovare la memoria delle Vittime delle Foibe e dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati di origine italiana all’indomani della seconda guerra mondiale.
La data prescelta del 10 febbraio si riferisce al giorno in cui, nel 1947, furono firmati i trattati di pace di Parigi, che assegnarono alla Jugoslavia l’Istria, il Quarnaro, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della Venezia Giulia, che in precedenza facevano parte dell’Italia.
Purtroppo, nella giornata di ieri, sabato 8 febbraio 2025, atti vandalici a Trieste hanno infangato la memoria delle vittime e fomentato un clima d’odio. Tre scritte in lingua slava sono comparse alla Foiba di Basovizza dove era in programma una cerimonia, a poche ore dal “Giorno del Ricordo”.
Una ferma condanna si è levata da ogni parte per l’atto di vandalismo che oltre ad oltraggiare la memoria delle vittime delle Foibe, mira a giustificare chi ha brutalmente ucciso uomini, donne e bambini solo perché italiani. Un gesto inaccettabile, che tenta di minare il dialogo tra popoli che vogliono costruire un futuro di pace.
Le tre scritte in slavo tradotte in italiano:
“Trieste è nostra”; “Trieste è un pozzo”; “Morte al fascismo libertà al popolo”; segue anche un numero: “161”.
Per comprendere il significato del numero 161, “è necessario immergersi nel sottobosco dei gruppi antagonisti presenti in Europa. Il numero “161” infatti è usato come codice numerico corrispondente alle parole ‘azione antifascista’. Intendendo per ogni lettera il corrispondente numero rispetto all’ordine dell’alfabeto (A=1, F=6). Tale “acronimo numerico” vien a volte usato in contrapposizione al numero 88, codice utilizzato tra i neonazisti per intendere il saluto Heil Hitler, con H=8 secondo la stessa procedura numerica (161>88). Si tratta di un codice non ancora molto diffuso in Italia rispetto ad altre zone d’Europa, dove molto spesso viene utilizzato assieme a un altro acronimo numerico: il 1312, cifra che sta a significare All Cops Are Bastards (A=1, C=3, A=1 e B=2) [Tutti i poliziotti sono bastardi]” (Cfr. Triestenews https://www.triesteallnews.it/2025/02/cosa-significa-161-la-firma-trovata-in-calce-alle-scritte-sulla-foiba-di-basovizza/ ).
Ieri 8 febbraio 2025 il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, accolto a Villa Pilpolze dalla Presidente della Repubblica di Slovenia Natasa Pirc Musa, ha colto un’occasione molto speciale (antivigilia del “Giorno del Ricordo” a Nova Gorica) per mandare un messaggio all’Europa: “In un mondo caratterizzato da crescenti tensioni e conflitti, dall’abbandono della cooperazione come elemento fondante della vita internazionale, Slovenia e Italia hanno saputo dimostrare che è possibile scegliere la via della cooperazione. Nella tragedia della Seconda guerra mondiale, un sopravvissuto ad Auschwitz, Roman Kent, ha osservato: ‘Non vogliamo che il nostro passato sia il futuro dei nostri figli’. Con questo spirito abbiamo affrontato le pagine del Dopoguerra, per scriverne una nuova e nulla può far tornare indietro la storia che abbiamo scritto e scriviamo insieme”.
Nova Gorica – Gorizia: Capitale della Cultura Europea 2025; un esempio di cooperazione.
“La città slovena (Nova Gorica) ha voluto lanciare con la gemella Gorizia una sfida: proporsi come esperienza di cultura attraverso la frontiera. Se la cultura, per definizione, non conosce confini, essa nasce pur sempre come espressione di una comunità ma aperta alla conoscenza, alla ricerca comune, ai reciproci arricchimenti“. Così il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo intervento all’inaugurazione di Nova Gorica-Gorizia.

Scritte vandaliche
Foto di repertorio da Internet
Per una più approfondita visione del fenomeno delle foibe, riporto qui di seguito un mio articolo scritto e pubblicato il 10 febbraio 2019 sul Sito/Blog
https://www.paginedipoggio.com/?p=4843
10 febbraio, il “Giorno del Ricordo” delle vittime delle foibe
In occasione dell’anniversario del Giorno del Ricordo di quest’anno, il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha ricordato che, mentre il mondo si avviava al “graduale ritorno alla libertà e alla democrazia, un destino di ulteriore sofferenza attendeva gli italiani” nelle zone occupate dalle truppe jugoslave: “Non si trattò di una ritorsione. Non erano fascisti in fuga, erano semplicemente italiani”. E poi ha parlato dell’Unione Europea: “Nacque per dire mai più fanatismi”.
Il Giorno del Ricordo è una solennità civile nazionale italiana, istituita con la legge 30 marzo 2004 n. 92, che viene celebrata il 10 febbraio di ogni anno con l’intento di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e dell’esodo durante la Seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra (1943-1945), con particolare riguardo alle persone soppresse e infoibate in Istria, a Fiume, in Dalmazia o nelle province dell’attuale confine orientale, dall’8 settembre 1943 (data dell’annuncio dell’entrata in vigore dell’armistizio di Cassibile), al 10 febbraio 1947 (giorno della firma dei trattati di pace). La data prescelta è il giorno in cui, nel 1947, furono firmati i trattati di pace di Parigi, che assegnavano alla Jugoslavia, l’Istria, il Quarnaro e la maggior parte della Venezia Giulia, in precedenza facenti parte dell’Italia.
Le foibe (e da esse infoibare) sono delle profonde cavità naturali carsiche nelle quali furono gettati molti dei corpi delle vittime; un termine proveniente dal dialetto giuliano e che trova origine nel latino fovea, ovvero fossa o cava.
I massacri delle foibe sono stati degli eccidi ai danni della popolazione della Venezia Giulia e della Dalmazia, avvenuti da parte dei partigiani jugoslavi e dell’OZNA (letteralmente “Dipartimento per la protezione del popolo” dei servizi segreti militari jugoslavi).
Al massacro delle foibe seguì l’esodo giuliano dalmata, ovvero l’emigrazione forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia, territori del Regno d’Italia prima occupati dall’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia del maresciallo Josip Broz Tito e successivamente annessi dalla Jugoslavia. Si stima che i giuliani, i fiumani e i dalmati italiani che emigrarono dalle loro terre di origine ammontino a un numero compreso tra le 250.000 e le 350.000 persone.
Per estensione i termini “foibe” e il neologismo “infoibare” sono diventati sinonimi di uccisioni che in realtà furono in massima parte perpetrate in modo diverso: la maggioranza delle vittime morì nei campi di prigionia jugoslavi o durante la deportazione verso di essi. Si stima che le vittime in Venezia Giulia e nella Dalmazia siano state circa 11.000, comprese le salme recuperate e quelle stimate, più i morti nei campi di concentramento jugoslavi.
Io e mia moglie abbiamo avuto modo di visitare la foiba di Basovizza in occasione di alcuni nostri soggiorni a Trieste e dintorni; si tratta di un inghiottitoio che si trova nella zona nord-est dell’altopiano del Carso a 377 metri di altitudine.
Nel periodo dell’occupazione jugoslava di Trieste in quella foiba fu gettato dai partigiani jugoslavi un numero imprecisato di persone e, a ricordo di tutte le vittime degli eccidi, sul luogo è stato edificato un monumento. Il presidente della Repubblica Italiana Oscar Luigi Scalfaro, nel 1992, ha dichiarato monumento nazionale il pozzo che, in origine, era un pozzo minerario: esso divenne però nel maggio del 1945 un luogo di esecuzioni sommarie per prigionieri, militari, poliziotti e civili, da parte dei partigiani comunisti di Tito, dapprima destinati ai campi d’internamento allestiti in Slovenia e successivamente giustiziati a Basovizza.
Il ritorno (o riunificazione) di Trieste all’Italia avvenne in seguito agli accordi sottoscritti il 5 ottobre 1954 fra i governi d’Italia, del Regno Unito, degli Stati Uniti d’America e della Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia con il Memorandum di Londra, concernente lo status del Territorio Libero di Trieste; in particolare si stabiliva il passaggio di amministrazione della Zona A dall’amministrazione militare alleata all’amministrazione civile italiana e quindi passavano all’Italia i seguenti comuni della zona A: Duino, Aurisina, Sgonico, Monrupino, Trieste, Muggia, San Dorlingo della Valle.
Nella zona A erano presenti 5.000 soldati americani della TRUST (Trieste United States Troops) e 5.000 soldati britannici della BETFOR (British Element Trieste FORce). La presa di possesso della zona A avvenne il 26 ottobre 1954 e gli alleati si ritirarono tra il 25 e il 27 ottobre 1954.
Il Friuli Venezia Giulia è stata una delle zone più militarizzate d’Europa, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla caduta del Muro di Berlino: si calcola che circa tre milioni di persone abbiano svolto il servizio militare in quella regione e che ben 428 fossero i siti militari dislocati su 102 chilometri quadrati di territorio. Oggigiorno molte di quelle caserme sono in dismissione, dopo oltre mezzo secolo di presenza militare che ha segnato la vita di tanti italiani, anche civili, che hanno vissuto gomito a gomito con l’Esercito, come ristoratori delle trattorie nei pressi delle caserme, i fornai che ricordano come le caserme fossero a volte il pilastro dell’economia di un intero paese, i tabaccai, i postini a portar quintali di lettere. Ma anche la formazione di giovani coppie di innamorati (lui militare meridionale, lei friulana).
Anch’io conservo dei ricordi della mia permanenza a Trieste per servire la patria, come veniva denominato un tempo il servizio militare di leva obbligatorio e, in particolare, ricordo le esercitazioni militari e di tiro che svolgevamo sulle alture di Monrupino, nella zona montuosa di confine con la ex Jugoslavia. Ero dislocato alla Caserma di Polizia “Duca D’Aosta” in via Damiano Chiesa di Trieste, in zona San Giovanni.
E, da quello che è dato sapere, la Seconda guerra mondiale è passata anche dalla Caserma Duca d’Aosta, una ex caserma dell’Esercito divenuta successivamente Scuola di Polizia, lasciando una scia di sangue finita nel dimenticatoio. Ma, dall’ottobre 2012, l’area (di oltre 40.000 mq.) è stata decretata bene culturale particolarmente importante, ”esemplare testimone di un lungo periodo della storia particolare della nostra città e specialmente di momenti tragicamente drammatici e del dolore di tanti uomini e donne che vi sono transitati o vi hanno perso la vita in modo atroce”, condizione che rende molto difficile, se non addirittura impossibile, dismissioni o altre forme di speculazione edilizia.
Alla fine del XVII secolo, il sito risultava di proprietà della famiglia patrizia dei de Bonomo, mentre all’inizio del Novecento vi trovarono sviluppo diverse attività industriali come il pastificio Fratelli Girardelli Società Anonima in Trieste, la Fonderia Osvaldella e il colorificio Astra Società per Industria e Commercio a.g.l. con annessa fabbrica del ghiaccio.
Verso la fine del 1928 lo Stato acquistò l’intera area e dopo un intervento edilizio importante inaugurò la caserma intitolandola a Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, quale sede del glorioso 34° Reggimento Artiglieria da Campagna, di cui rimane ancora oggi il prezioso monumento commemorativo che si trova ai bordi del piazzale della caserma.
Nel 1931 il comando venne assunto dal Principe Amedeo di Savoia Duca delle Puglie, figlio di Emanuele Filiberto di Savoia.
A maggio del 1939 il Reggimento assunse la denominazione di 23° Reggimento Artiglieria Sassari e tornò ad essere dal 1940 ancora 34° Reggimento Artiglieria Sassari.
L’8 settembre vide il dissolvimento di tutti gli assetti dello Stato italiano compreso il suo esercito e il 34° ”Sassari”, posto a difesa di Roma, venne sciolto e la caserma immediatamente occupata dalle SS tedesche, che la trasformano in un centro di arruolamento al Lavoro coatto della Todt (1).
Con la resa delle truppe tedesche, il 1° maggio del 1945, l’Armata Jugoslava occupò Trieste e il sito venne subito utilizzato dall’OZNA, la polizia segreta jugoslava, come luogo di prima detenzione, di interrogatorio e di tortura.
Molti civili e militari arrestati vennero portati alla Duca d’Aosta; tanti non fecero più ritorno alle loro case per essere stati avviati ai campi di concentramento prontamente realizzati in territorio sloveno o per essere destinati, attraverso sommarie esecuzioni, alle foibe.
Nel giro di poco tempo si alternarono dunque nazisti prima e armata titina dopo. E dentro sempre triestini vittime ora di uno e ora dell’altro.
Con l’arrivo delle truppe anglo americane la Caserma Duca d’Aosta venne occupata dal 351° Infantry Regiment con i Blu Devils, gli eroici diavoli blu americani e dal Genio Inglese con il 55° e il 66° Royal Engineers.
Quando il 25 ottobre del 1954 le truppe anglo-americane lasciarono Trieste, riconsegnandola definitivamente all’Italia, gli edifici della Duca d’Aosta vennero destinati al Corpo Guardie di Pubblica Sicurezza.
L’intera struttura dal 10 aprile del 1962, con decreto dell’allora Ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani, si trasformò definitivamente in Scuola Allievi Guardie di Pubblica Sicurezza, prezioso centro formativo nazionale tutt’ora utilizzata per la formazione degli Allievi Agenti della Polizia di Stato.
Nota (1)
Fritz Todt quale Ministro degli armamenti ed approvvigionamenti dell’esercito nazista concepì una organizzazione – chiamata appunto Todt – di lavoro coatto impiegando prigionieri di guerra al fine di realizzare strade e ponti di interesse militare, ma anche opere squisitamente militari. Un esempio di lavoro eseguito fu la famosa linea gotica, ma tantissimo questa impresa fece in Germania e nei paesi occupati impiegando una manovalanza a costo zero che arrivò fino al milione e mezzo di uomini. A Trieste la Todt aveva sede nel palazzo del Museo del Risorgimento che fu del tutto svuotato per fare posto a questa organizzazione tra i cui lavori troviamo anche parte della rete di gallerie nella zona del Tribunale e Scorcola nota come Kleine Berlin
Le notizie sulla caserma Duca D’Aosta, sopra riportate, sono desunte dalle ricerche storiche di Federica Verin, dipendente dell’Istituto di Polizia di Trieste, riportate in “La mia Trieste” https://www.lamiatrieste.com/2016/07/20/scuola-di-polizia-san-giovanni/
Il giorno della Memoria, ottant’anni dopo

Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale, celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata per commemorare le vittime dell’Olocausto. È stato così designato dalla risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1° novembre 2005 durante la 42^ riunione plenaria. La risoluzione fu preceduta da una sessione speciale tenuta il 24 gennaio 2005 durante la quale l’Assemblea generale delle Nazioni Unite celebrò il sessantesimo anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti e la fine della Shoah.
Si è stabilito di celebrare il Giorno della Memoria ogni 27 gennaio perché in quel giorno del 1945 (ottant’anni fa) le truppe dell’Armata Rossa, impegnate nell’operazione Vistola-Oder in direzione della Germania, liberarono il campo di concentramento di Auschwitz.
I Lager nazisti, i campi di concentramento e le deportazioni rappresentano quanto di più deleterio – e funesto al tempo stesso – possa l’uomo aver perpetrato nei riguardi del genere umano al quale egli stesso appartiene.
E il giorno della Memoria, che ricorre nella giornata odierna, deve farci riflettere sempre e comunque, ogni volta che si accenna ad un qualche conflitto, soprattutto in questo particolare e delicato momento storico in cui due grandi focolai bellici (quello russo-ucraino da un lato e quello israelo-palestinese dall’altro) sono all’attenzione di tutto il mondo, per gli effetti e le conseguenze che ne potrebbero derivare, se non mitigati dalla logica ed il buon senso, non solo da parte dei soggetti in campo, ma di tutti gli uomini di buona volontà.
Ho personalmente avuto l’opportunità di visitare nella primavera del 2007 lo Yad Vashem (1), il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, durante il mio viaggio in Terra Santa con mia moglie.
Una visita che meritava proprio quel pomeriggio di riflessione.
Tante foto, documenti, lettere, indumenti di ogni tipo, ricostruzione fedele di campi di concentramento e di tradotte (treni) militari, libri, oggetti personali dei deportati, ecc.
Lo Yad Vashem è il memoriale dei sei milioni di ebrei deportati e uccisi dai nazisti.
Una cosa davvero toccante, che ti lascia dentro un senso di pietà e di impotenza al tempo stesso, ma che ti scatena anche sentimenti di rabbia per tutto quanto è potuto accadere.
Ogni anno allo Yad Vashem viene celebrata una cerimonia ufficiale nella quale lo Stato di Israele e il popolo ebraico si uniscono nella memoria delle vittime dell’Olocausto.
Un luogo sacro da visitare in silenzio e senza alcuna fretta per prendere consapevolezza di un dramma di immane portata.
Anche Poggio Imperiale annovera tra i suoi caduti nel Secondo Conflitto Mondiale i concittadini Ernesto Braccia, Nicola Verzino e Giuseppe Zangardi, morti nei LAGER nazisti e, più precisamente, nei campi di concentramento e di prigionia di Dachau, Gross Lubars e Kaiserslauter, in Germania (2).
“Nei campi di concentramento nazisti sono stati commessi crimini di incredibile efferatezza. Tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e gli altri popoli e categorie oppressi, ma contro tutta l’umanità, segnando una sorta di punto di non ritorno nella Storia. L’umanità esige che ciò che è avvenuto non accada più, in nessun luogo e in nessun tempo. E’ di enorme importanza che le nuove e future generazioni facciano proprio questo insegnamento nel modo più vivo e partecipato possibile, stimolando il dibattito, le domande, i “perché” indispensabili per la comprensione di quei tragici eventi. Favorendo noi una riflessione vivace nei ragazzi, renderemo forse il servizio migliore a questo Giorno che, per essere vissuto nel modo più autentico, necessita di un pensiero non statico, non nozionistico. Occorre fornire alle nuove generazione gli strumenti, anche empirici, per riflettere su cosa l’umanità è stata in grado di fare, perché non accada mai più. Questo, forse, è il senso più vero del Giorno della Memoria, ed è un bene prezioso per tutti” (3).

Foto di repertorio da Internet
(1) Il 21 ottobre 2008 ho pubblicato su questo mio stesso Sito https://www.paginedipoggio.com/?p=3131 un articolo dal titolo: “Yad Vashem il Museo dell’Olocausto: la didascalia contestata”.
(2) Il 7 febbraio 2010 ho pubblicato su questo mio stesso Sito https://www.paginedipoggio.com/?p=3088 l’articolo “Tre le vittime di Poggio Imperiale nei LAGER nazisti!”.
(3) Da “Il senso del Giorno della Memoria” di Renzo Gattegna, Presidente Unione Comunità Ebraiche Italiane, Sito internet: htpp://www.ucei.it/giornodella memoria.
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Giovanni Saitto, ancora due libri inediti sulla Famiglia Imperiale a Poggio Imperiale e in Capitanata.

Quando anche una buona lettura
può offrire elementi di distensione e di speranza
Il nuovo anno, il duemilaventicinque, si apre sotto gli auspici della ‘speranza’, in primis perché questo è il messaggio che ci arriva da Papa Francesco per l’ultimo Giubileo ‘ordinario’ della storia corrente, appena aperto, ed in secondo luogo, perché essa (la speranza), sebbene la più piccola delle tre virtù teologali (fede, speranza e carità), è ritenuta la più forte.
Papa Francesco è tornato più volte in questo periodo a parlare di speranza, ‘spronandoci a guardare con occhi nuovi la nostra esistenza, soprattutto ora che è sottoposta a dura prova, e guardarla attraverso gli occhi di Gesù, “l’autore della speranza”, affinché ci aiuti a superare questi giorni difficili, nella certezza che il buio si trasformi in luce’.
E bisogna essere davvero forti per non temere che qualcosa di veramente grave possa accadere nel Mondo, a fronte dei focolai di guerra in atto, in massima parte sul fronte ucraino e su quello mediorientale, oltre all’infinità di tensioni, più o meno preoccupanti, diffuse a macchia di leopardo, un po’ dovunque.
Anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso di fine anno alla Nazione, ha parlato di ‘speranza’, coniugandola con la ‘pace’ e il ‘rispetto’.
Ha dell’assurdo quello che sta succedendo in giro, nonostante le buone intenzioni sbandierate ai quattro venti, da più parti, già a partire dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale, ottant’anni fa.
E’ come se avessimo dimenticato tutto o, addirittura, come se nulla fosse successo, nonostante pagine e pagine di storia, filmati, documentari, convegni, dibattiti e quant’altro, stiano lì a dimostrare che la guerra è sempre e comunque una sconfitta per l’umanità, anche in caso di vittoria.
Ma non bisogna mai arrendersi e continuare caparbiamente a credere che per tutto c’è sempre una soluzione, un rimedio: l’essenziale è crederci.
E sono tante, fortunatamente, le persone che ci credono e si impegnano, anche senza bisogno di clamore, a scavare, approfondire, ricercare, collegare fatti e circostanze, per mettere in luce situazioni storiche del passato, al fine di conoscere, comprendere le motivazioni e le strategie che hanno indotto, di volta in volta, i popoli ad operare le loro scelte, soprattutto per portarle a conoscenza dei più, ritenendo che proprio quella della conoscenza, sia la strada migliore per avere una visione più aperta per affrontare le situazioni presenti e future.
E, questo, anche nel piccolo di una comunità, ove per una serie di prevedibili o imprevedibili circostanze, la storia si intreccia con quella di altre realtà, consentendo così di allargare la visuale di osservazione su di una dimensione più complessa ed articolata.
E, qui, con molto piacere, voglio volgere lo sguardo al mio paesello di nascita, Poggio Imperiale, un Borgo dell’Alto Tavoliere, in terra di Capitanata, sorto verso la metà del 1700 ad opera del Principe Placido Imperiale, ove confluirono persone provenienti da varie località, compresa una Colonia Albanese, spinte anche delle allettanti proposte offerte dal Principe medesimo.
E l’amico Gianni, Giovanni Saitto, cultore della Storia legata alla Capitanata, continua la sua opera di ricercatore e divulgatore di storia e tradizioni locali, aggiungendo alla sua Bibliografia due nuove pubblicazioni dedicate alla Famiglia genovese degli Imperiale, possessori dei feudi pugliesi di San Paolo, Lesina e Poggio Imperiale:

- Giovanni Saitto, “Sub Umbra Alarum Tuarum”. La Famiglia Imperiale di Genova, SUSIL edizioni.
‘Sotto l’ombra delle tue ali’, è un versetto biblico del Salmo 56 che campeggia nel blasone della famiglia genovese degli Imperiale.
Un libro che, per la sua valenza dinastico – genealogica, suscita vivo interesse e curiosità nel lettore avvezzo a questo tipo di filone storico.

- Giovanni Saitto, “Genovesi del ‘700 in Capitanata”. La Famiglia Imperiale, Feudataria di San Paolo, Lesina e Poggio Imperiale, SUSIL edizioni.
Un libro che, prendendo le mosse dal ‘Settecento in Capitanata’, regala al lettore un escursus attento e particolareggiato sui Feudi di San Paolo e di Lesina (nella cui giurisdizione nacque poi Tarranòve, il futuro Borgo di Poggio Imperiale), soffermandosi sulla loro acquisizione, amministrazione e gestione da parte del Principe Placido Imperiale, per passare successivamente alla trattazione del tema della Riforma Agraria, con i suoi aspetti sociali, demografici ed economici, fino all’apprezzo dei beni ereditari di Giulio II Imperiale.
L’autore, mi ha confidenzialmente informato che ‘bolle in pentola’ un altro lavoro, frutto di laboriose ricerche, alcune delle quali appena terminate presso l’Archivio di Napoli, altre da approfondire presso l’Archivio di Venezia, che riguarda uno studio sulla Colonia Albanese di Poggio Imperiale, già peraltro oggetto di analisi dell’autore stesso in altre circostanze.
Buona lettura dunque agli appassionati di questo genere letterario e a tutti coloro che animati dalla ‘speranza’, confidano in un clima di distensione, pace e rispetto reciproco.
Siamo nel 2025

Felice Anno Nuovo
Avviso
Con il nuovo Anno riprendono le pubblicazioni.
Buona lettura!