I tradizionali falò dell’Immacolata a Poggio Imperiale.
Continua ancora oggi, a Poggio Imperiale, la tradizione dei falò accesi in occasione della ricorrenza dell’Immacolata, la cui origine si perde nella notte dei tempi.
L’usanza di accendere la sera della vigilia dell’Immacolata grandi falò in onore della Madonna è legata alle tradizioni popolari di un tempo quando, nei vari rioni del paese in competizione tra loro per fare il fuoco più grande, già dal pomeriggio si accumulavano e accatastavano frasche e ceppi da ardere, raccolti appositamente per l’occasione, per formarne cumuli sempre più alti, che dopo la cerimonia religiosa in chiesa venivano incendiati.
Una sorta di gara che si traduceva in uno spettacolo scintillante di luci che illuminavano l’incantevole e festosa serata che vedeva radunati intorno ai fuochi tutti gli abitanti dei vari rioni.
Prima di rincasare qualcuno ne approfittava per riempire di brace il proprio braciere da portare a casa per scaldarsi o semplicemente in segno di devozione.
I fuochi dell’Immacolata simboleggiavano, secondo alcuni, la distruzione del peccato originale ed il simbolico consumarsi del vecchio anno, con tutto il male che vi si era accumulato, ma voleva forse rappresentare anche un rito propiziatorio legato all’abbondanza della terra.
In diverse zone d’Italia la festa più importante dell’Avvento, l’Immacolata Concezione, è ricordata con l’accensione di fuochi, accompagnata in molti casi da degustazioni gastronomiche.
In Umbria, la sera dell’8 dicembre le campagne si illuminano della luce dei “focaracci”, covoni di legna ed arbusti, dati alle fiamme verso sera, per celebrare la traslazione della Casa della Vergine Maria da Nazareth a Loreto. Per questa ragione i fuochi dell’Immacolata sono detti anche “fuochi della Venuta”.
Nella tradizione popolare pugliese, invece, i falò dell’Immacolata avrebbero la funzione di asciugare i panni del Bambin Gesù. Nel barese e nel leccese, la gente assiepata intorno ai fuochi usa mangiare delle frittelle devozionali, le “pettole”, preparate con pasta di pane fritta e intinta nel miele.
A Maglie, in provincia di Lecce, l’8 di dicembre è tradizione osservare il digiuno e l’unico cibo ammesso è la “puccia”, piccola forma di pane condito con formaggio, pomodoro e olive nere, importato dai coloni greci.
Ancora il fuoco è protagonista della processione che va in scena nella notte tra il 7 e l’8 dicembre ad Atri nel teramano. I fedeli, muniti di grosse torce di canne, i cosiddetti “faugni”, raggiungono in processione la cattedrale, dove si celebra la santa messa in onore dell’Immacolata Concezione.
Il termine “faugni” è una chiara volgarizzazione di quel “fauni ignis” che ci riconduce al cuore più oscuro del paganesimo.
E, a proposito del Caravaggio, c’è la prova che Michelangelo Merisi era milanese!
Per chi avrà l’opportunità di ammirare fino al prossimo 14 dicembre a Milano la «Conversione di Saulo», l’opera del Caravaggio prestata dalla principessa Odescalchi ai milanesi ed esposta nella splendida Sala Alessi di Palazzo Marino, c’è un’interessante sorpresa: la prova che Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio è di Milano e non di Caravaggio in provincia di Bergamo.
È infatti esposto accanto al quadro (nella parte retrostante, per essere più precisi) il certificato di battesimo datato 30 settembre 1571, trovato per caso nell’Archivio Storico Diocesano di Milano da Vittorio Pirami, ex manager della Fininvest, attualmente pensionato ed appassionato di archivistica.
La scoperta risalirebbe al febbraio scorso quando, nel mentre il Pirami era intento a ricercare documenti sulla pittura fiamminga, la sua attenzione cadde su quel “Merixio”, ossia Merisi.
E, quello che gli storici hanno cercato invano per secoli, è balzato immediatamente agli occhi del Pirami, proprio come il fulmine del dipinto che ha “folgorato” Saulo (San Paolo) sulla via di Damasco.
Il battesimo sarebbe avvenuto nella parrocchia milanese di Santo Stefano in Brolo, come si evince dall’antico registro esposto, sul quale risulta annotato che «oggi 30 fu battezzato Michel Angelo, figlio del signor Fermo Merisi e della signora Lucia Aratori».
Che il Caravaggio fosse nato a Milano e non nella cittadina bergamasca, lo si sospettava già da decenni basandosi sul fatto che il padre, Fermo, era maestro di casa e architetto del marchese di Caravaggio, che abitava, per l’appunto, a Milano.
Peraltro, nel registro dei battesimi della parrocchia di Caravaggio non figura tra il 1569 e il 1585 alcun Michelangelo Merisi.
Tuttavia, una certa prudenza è naturalmente d’obbligo.
E, dunque, da parte dell’ Archivio Storico Diocesano di Milano il “documento” sarà comunque sottoposto allo studio di esperti per gli opportuni accertamenti e le verifiche necessarie. E solo a conclusione di tale verifica verranno resi noti i risultati.
Ma, nel caso in cui fosse confermata la nuova versione sul suo luogo di nascita, come si spiegherebbe il nome “Caravaggio” con cui egli è universalmente noto?
Forse, molto semplicemente con l’identificazione del luogo originario di provenienza della sua famiglia, per indicare, tra i tanti Merisi (o Morigi) lombardi, un particolare e specifico ramo.
A Milano “folgorati” dalla “Conversione di Saulo” del Caravaggio.
In mostra a Milano in questi giorni, nella Sala Alessi di Palazzo Marino, la “Conversione di Saulo” (San Paolo) di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio della Collezione Odescalchi; un evento straordinario e di sicuro interesse culturale per la portata storica che esso rappresenta.
Ho avuto ieri mattina l’opportunità di ammirare, nello splendore dei magnifici affreschi della storica Sala Alessi di Palazzo Marino (sede del Comune di Milano dal 1861), l’opera del Caravaggio protetta da una particolare capsula di cristallo che ne garantisce l’«habitat» ideale e la perfetta illuminazione.
Una vera “folgorazione” trovarsi faccia a faccia con il capolavoro, unico esempio rilevante di pittura su tavola del grande maestro, che è approdata per un mese – dal 16 novembre e fino al prossimo 14 dicembre – a Milano.
E’possibile poter osservare ed ammirare da vicino non solo tutti i particolari del prezioso dipinto, tornati alla luce dopo il recente restauro di Valeria Merlini e Daniela Storti, ma vedere anche il retro della tavola in cipresso.
L’opera, di proprietà della famiglia Odescalchi, grazie al Comune di Milano e a Eni, fa così la sua seconda uscita ufficiale; la prima, nel 2006, fu a Roma in Santa Maria del Popolo, il luogo di originaria destinazione sin dalla sua nascita, ma dove non arrivò mai.
L’avventura di questo capolavoro comincia l’8 luglio 1600 quando il cardinale Tiberio Cerasi, Tesoriere Generale della Camera Apostolica, chiede a Michelangelo Merisi, arrivato da Milano a Roma otto anni prima e già artista riconosciuto, di decorare la cappella di famiglia appena acquistata in Santa Maria del Popolo. La cappella è dedicata a San Pietro e San Paolo e, su esplicita richiesta del committente, Caravaggio realizza due dipinti su tavole di cipresso che riprendono i temi dei due santi: «La Conversione di Saulo» (San Paolo ) e «La Crocifissione di Pietro».
Pochi mesi dopo, nel maggio del 1601, il cardinale Cerasi muore ed il Caravaggio completa il lavoro tenendo tuttavia i dipinti nel suo studio in attesa della fine della ristrutturazione architettonica della cappella.
Nel maggio 1605 un dipinto di San Pietro ed uno di San Paolo firmati dal Caravaggio appaiono in Santa Maria del Popolo, ma non sono quelli commissionati e neanche più dipinti su tavola, bensì su tela.
Cos’era mai successo?
Probabilmente – secondo alcuni – ci fu un ripensamento dell’artista, che dopo aver visto la cappella e l’«Assunzione» del Carracci posta sopra l’altare, decide di realizzare due opere diverse, più consone allo spazio ridotto e più in relazione con la Vergine.
Secondo altri, invece, la “Conversione di Saulo” (San Paolo) della collezione Odescalchi è stata, per anni, letta come iconografia rifiutata perché contraria agli Atti degli Apostoli che parlano di grande luce e non di apparizione di Cristo a Saulo (San Paolo).
Ebbene, nel mentre la tavola di Pietro finisce dispersa (qualcuno ha ipotizzato che una sua copia sarebbe quella del Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo), la «Conversione di Saulo» (San Paolo) comincia una lunga peregrinazione che, attraverso acquisizioni e assi ereditari, la porta in Spagna, a Genova e infine nuovamente a Roma.
Se il dipinto conteneva già elementi di grande interesse formale (dalla composizione non perfettamente in linea con gli Atti degli Apostoli, agli espliciti riferimenti all’epilessia di cui Saulo (San Paolo) soffriva, la bava del cavallo, le piante medicinali), è col restauro che questo capolavoro ha svelato tutta la sua forza.
La ripulitura del dipinto ha portato alla luce l’intensità dei chiaro – scuri e soprattutto la ricchezza dei colori. L’infinita varietà dei verdi della vegetazione, dello scudo, della cintura, le piume di struzzo rosa e arancio sull’elmo del soldato, la manica di Cristo che svela riflessi violacei, l’oro nello scudo. E poi la luce quasi apocalittica che dall’alto inonda il dipinto rimbalzando sull’occhio del cavallo, sul dente appena accennato dell’angelo, sul naso del Cristo, sulla manica del soldato. Sono tornati alla luce i muscoli del braccio che impugna la lancia, i particolari del soldato in secondo piano, e il corpo di Saulo (San Paolo) che traspare perfettamente sotto la maglia.
E’ quanto ho potuto ammirare di persona in questo straordinario “incontro ravvicinato”.
L’opera, attualmente di proprietà della famiglia Odescalchi, è poco conosciuta perché è sempre stata conservata in diverse collezioni private. Si conosce di più la seconda opera, “La Conversione di San Paolo”, dipinta come si è detto dal Caravaggio nello stesso periodo e visibile a Roma nella chiesa di Santa Maria del Popolo.
La tavola non fu mai esposta perché era, con molta probabilità, considerata un’opera imbarazzante ai tempi dell’Inquisizione; Saulo (San Paolo) rappresentato a terra, coperto da una corazza aderente e trasparente da farlo sembrare nudo, sopra di lui il cavallo imbizzarrito trattenuto a fatica dal vecchio soldato. Ha la barba lunga e si copre gli occhi con le mani, per difendersi dalla luce emanata da Dio e, in alto, un angelo sembra che trattenga a fatica l’impeto del Cristo.
Saulo di Tarso (San Paolo), prima della conversione, era un delatore dei Romani, ma poi redento (folgorato) sulla via di Damasco, diventa personaggio chiave del Cristianesimo e pertanto è illuminato da Dio. Il gesto di coprirsi gli occhi era interpretato come un rifiuto. Per questi motivi, forse, i committenti censurarono il quadro.
E al Caravaggio non restò che ridipingere una seconda versione completamente diversa dalla prima.
Ma vi è anche una via Francigena del Sud?
La via Francigena è un itinerario che appartiene alla storia, una via maestra percorsa in passato da migliaia di pellegrini in viaggio per Roma.
Si sviluppa su di un percorso di 1.600 chilometri e a partire dal 1994 è stata dichiarata “Itinerario Culturale del Consiglio d’Europa” assumendo, alla pari del “Camino de Santiago”, una dignità sovranazionale.
La storia narra che fu Sigerico, Arcivescovo di Canterbury, recandosi a Roma in visita al Papa Giovanni XV, a segnare l’inizio del cammino, noto come Via Francigena, determinando la nascita di uno dei più importanti itinerari di pellegrinaggio.
Il pellegrinaggio a Roma, in visita alla tomba dell’apostolo Pietro, era nel Medioevo una delle tre “peregrinationes maiores” insieme a Gerusalemme in Terra Santa e a Santiago di Compostela in Spagna, al sepolcro dell’Apostolo Santiago (San Giacomo Maggiore).
I pellegrini provenienti soprattutto dalla Francia cominciarono ad entrare in Italia dal passo del Monginevro, dando così alla strada che conduceva a Roma il nome di Francigena, cioè dei francesi.
All’inizio del secondo millenio l’Europa fu particolarmente percorsa da una moltitudine di pellegrini diretti ai Luoghi Santi della religione cristiana per motivi devozionali.
Il pellegrinaggio in epoca medioevale doveva compiersi, a scopo penitenziale, prevalentemente a piedi con un tragitto di 20-25 chilometri al giorno e gli ultimi tratti venivano solitamente percorsi in ginocchio; in taluni particolari casi con il fardello di un macigno sulle spalle.
Riguardo alla via Francigena, la relazione di viaggio più antica risale al 990 ed è compiuta, come si è detto, da Sigerico – arcivescovo di Canterbury – di ritorno da Roma dove aveva ricevuto il “Pallio” dalle mani del Papa (“Pallio” derivato dal latino “pallium”, mantello di lana, è un paramento liturgico usato nella Chiesa cattolica, originariamente riservato al Papa, ma per molti secoli concesso da lui agli arcivescovi metropoliti e ai primati come simbolo della giurisdizione loro delegata dalla Santa Sede).
L’arcivescovo inglese descrisse le 79 tappe del suo itinerario verso Canterbury, annotandole in un diario dal quale si evince che la Francigena non era propriamente una via ma piuttosto un sistema viario con molte alternative.
La via Francigena rappresentava dunque la strada o meglio il fascio dei percorsi che dai paesi d’oltrelpe portava i pellegrini a Roma.
Ma sicuramente delle tre grandi direttrici del pellegrinaggio medioevale, il “pasagium ultramarinum” per raggiungere la Terra Santa rappresentava il viaggio più avventuroso e pericoloso, forse anche rispetto al “Camino de Santiago” che dai Pirenei conduceva alla punta più avanzata della penisola Iberica.
Per andare in Terra Santa bisognava percorrere in senso trasversale l’Italia a sud di Roma fino ai porti pugliesi di Brindisi e di Otranto, ma anche a quelli di Manfredonia e di Bari, che consentivano l’imbarco per il Libano e per la Palestina.
I pellegrini, usciti da Roma, si incamminavano quindi lungo percorsi che conducevano verso la Puglia ed il Gargano in particolare.
Di queste strade ci parla il libro “Roma-Gerusalemme. Lungo le Vie Francigene del Sud” recentemente pubblicato dall’Associazione “Civita”.
La pubblicazione è stata realizzata nell’ambito dell’omonimo progetto promosso dalla medesima Associazione “Civita” e reso possibile grazie alla collaborazione e al sostegno finanziario di Banco di Napoli e Finmeccanica.
L’opera, presentata in occasione di uno specifico convegno svoltosi a Napoli il 4 luglio 2008, offre una ricostruzione storica, artistica e religiosa degli itinerari di pellegrinaggio nel Meridione che conducevano nel Medioevo i pellegrini verso i porti pugliesi di imbarco per la Terra Santa.
Capua era per tutti il punto di raccolta e da qui ci si immetteva nella via Appia Traiana, la grande strada imperiale che portava a Benevento.
Dopo Benevento la direttrice si divideva in tre direzioni.
Sono le cosiddette vie dell’Angelo, i percorsi che, attraverso i valichi dell’Appennino, conducono tutti al Santuario di San Michele Arcangelo.
Oggi si va nel Gargano per pregare sulla tomba di San Pio da Pietrelcina, mentre nel Medioevo ci si andava per sostare nel luogo dell’Arcangelo.
Tanto i Crociati prima di salire sulle navi che da Manfredonia e da Bari, da Brindisi e da Otranto li avrebbero portati in Terra Santa, quanto i pellegrini che si preparavano al “pasagium ultramarinum”, si fermavano in vetta al Gargano.
Fin quassù salivano in preghiera, prima della guerra, i duchi lombardi, gli strateghi bizantini, i conti franchi ed i baroni tedeschi. Perché tutta la Cristianità sapeva che al termine dell’Italia, in cima a una montagna alta sul mare come la prua di una nave gigantesca, c’era il tempio dell’Angelo Guerriero.
Il Santuario di San Michele Arcangelo di fondazione antichissima (fra V e VI secolo) esiste ancora ed è la principale attrattiva della cittadina che da lui prende il nome (Monte Sant’Angelo in provincia di Foggia).
Entrando in chiesa, una porta in bronzo divisa in dodici pannelli intarsiati e decorati d’argento e di rame lascia il visitatore stupito e ammirato. Detta porta, commissionata nel 1076 a una bottega di Costantinopoli, è uno dei capolavori assoluti dell’arte bizantina nel suo momento più alto.
Qualcosa di emozionante prova il turista di oggi quando scende nella grotta dell’Arcangelo che si trova nel cuore della basilica.
Fuori dal Santuario, in cima al promontorio roccioso del Gargano, con il verde Adriatico di fronte e tutto intorno un deserto aspro e bellissimo di rocce, di pascoli, di boschi, il viaggiatore di oggi come il viandante di un tempo capisce che questo è veramente “finis terrae”, l’ultimo avamposto dell’Europa cristiana.
Questa è la via Francigena del sud: la strada dei pellegrini, la via della fede e della speranza.
Note:
– Le foto (l.b.) riguardano due vedute di Monte Sant’Angelo scattate lo scorso mese di ottobre;
– Alcuni spunti sono tratti dall’articolo di Antonio Paolucci pubblicato su “Il Sole 24 Ore” del 31 agosto 2008, Arte/Itinerari d’arte “Via Francigena del Sud”.
Rassegna della MicroEditoria Italiana
Nello splendido scenario della Villa Mazzotti di Chiari in provincia di Brescia, si è svolta nei giorni 7, 8 e 9 novembre 2008 la sesta edizione della Rassegna della “MicroEditoria Italiana”.
100 gli editori presenti con i loro “stand” alla manifestazione, tra cui le EDIZIONI DEL POGGIO www.edizionidelpoggio.it del Dott. Giuseppe Tozzi di Poggio Imperiale (Foggia), già presente anche al PISA BOOK FESTIVAL di Pisa ed all’ESPONILIBRO di Reggio Calabria dello scorso mese di ottobre.
Tanti i libri esposti e numerosa la partecipazione del pubblico nelle tre giornate dense di convegni, dibattiti ed eventi culturali connessi alla manifestazione, alla presenza di editori, autori e vari distributori.
L’associazione culturale "L’Impronta" e il Comune di Chiari, con il patrocinio della Provincia di Brescia e della Regione Lombardia e del Senato della Repubblica, hanno voluto promuovere la rassegna per valorizzare la produzione della piccola editoria italiana e perche’ il pubblico abbia l’opportunita’ di conoscere questa realta’ attraverso i volti dei suoi protagonisti.
Per gli organizzatori della rassegna, giunta alla sua sesta edizione, “MicroEditoria Italiana” identifica quel mondo vivace e stimolante di chi fa l’editore per passione, dedicando ad ogni edizione impegno e tempo senza misura. Editori micro, ovvero piccoli, per l’entita’ della loro produzione, ma grandi per la qualita’ dei loro prodotti e per l’entusiasmo del loro lavoro.
MASADA, la fortezza erodiana: il mistero del suicidio collettivo
Masada è una delle più emozionanti riscoperte storico-archeologiche del ventesimo secolo.
Un viaggio a Masada rappresenta un’esperienza indimenticabile in una terra infausta, attraversando i territori di Israele e Cisgiordania, dove il pericolo di attentati, agguati e atti dimostrativi di forza sono all’ordine del giorno.
Bisogna fermarsi ai vari “ceck-point” e sottoporsi con molta pazienza ai continui controlli dei militari, ma ne vale veramente la pena.
L’esperienza della mia visita a Masada risale alla primavera dello scorso anno, in occasione del viaggio in Terra Santa con mia moglie.
Masada (o Massada o, in ebraico, Metzada) era un’antica fortezza israeliana che sorgeva su un altopiano di circa sei km² situato su una rocca a 400 metri di altitudine rispetto al Mar Morto, nella Giudea sud-orientale, l’attuale Palestina.
Mura alte cinque metri – lungo un perimetro di un chilometro e mezzo, con una quarantina di torri alte più di venti metri – la racchiudevano, rendendola pressoché inespugnabile.
La fortezza divenne nota per l’assedio dell’esercito romano durante la prima guerra giudaica e per la sua tragica conclusione: il suicidio collettivo dei suoi difensori.
Provenivamo dalla fertile e lussureggiante Galilea, ove avevamo soggiornato dopo essere giunti in aereo dall’Italia ed atterrati all’aeroporto di Tel Aviv.
Ora, in pullman, ci stavamo avventurando nel deserto giudaico costeggiando, sulla sinistra, il Mar Morto che giace in una depressione di circa 390 metri sotto il livello del mare e, sulla destra, montagne aride e spettrali: quasi un paesaggio lunare.
Ecco apparire finalmente questo grande sperone roccioso culminante in un ampio pianoro a forma di nave, che si innalza sulla costa nord ovest del Mar Morto, in uno scenario arido e selvaggio.
Ai suoi piedi è attrezzata un’ampia area di parcheggio con locali di ristoro e negozietti di souvenir ed un unico sentiero si inerpica lungo la parete rocciosa che costeggia la fortezza sul lato ovest.
Dal basso non si riesce davvero a capire come quel sentiero così ripido possa superare la parete.
Ma c’è un modernissimo impianto di Funivia che risolve ogni problema, lasciando agli impavidi scalatori il gusto di farsela a piedi.
Prima di accedere alla Funivia i visitatori vengono fatti accomodare in una sala attrezzata ove vengono proiettati filmati che ripercorrono la storia e gli eventi che hanno caratterizzato la storia di Masada.
Con la Funivia si raggiunge una buona quota dello sperone roccioso, mentre l’ultimo tratto bisogna farlo a piedi. Ma il percorso è comodo ed agevole poiché è servito da comode passerelle in metallo.
Masada servì da roccaforte militare fin dal secondo secolo a.C., ma fu Erode il Grande – quello che perseguitò a morte Gesù alla sua nascita – a fare di Masada una fortezza militare di prim’ordine.
La superficie pianeggiante di Masada, ampia una decina di ettari, in tutto il suo perimetro fu munita di un muro a casamatta e nei 6,5 metri che correvano tra i due muri della casamatta furono ricavati circa un centinaio tra depositi, arsenali e abitazioni: tra l’altro, lungo il lato occidentale dello stesso muro trovò posto anche una sinagoga, una delle più antiche della Palestina.
Sulla spianata, che all’occorenza poteva essere anche coltivata per procurare prodotti freschi, furono costruiti grandi magazzini in duplice serie: 6 erano lunghi 20 metri e 11 erano lunghi 27 metri. Essi circondavano da tre lati un grande stabilimento termale, inimmaginabile in pieno deserto, con muri affrescati a finto marmo e con ambienti riscaldati a diversa temperatura.
E poi furono costruiti laboratori, edifici a “colombaia”, una piscina all’aperto, numerose cisterne per la raccolta delle acque piovane (12 solo sul lato nord-ovest dalla capacità media di 3.500 m3 di acqua) ecc., e due palazzi.
Il primo palazzo sorse a occidente: serviva probabilmente per l’amministrazione del regno e per la rappresentanza, come dicono i grandi spazi e i raffinati mosaici pavimentali. Il secondo palazzo – più villa privata di Erode che palazzo pubblico – fu ricavato su tre terrazze a diversa altezza nella punta settentrionale della “nave” di Masada (l’aspetto che l’osservatore percepisce è in effetti quello di un’enorme nave).
Ed è proprio questa villa a tre gradini, sospesa sul deserto, con mosaici, intonaci a finto marmo e stucchi, con colonne scanalate e capitelli dorati, con un piccolo impianto balneare, con due scale scavate nella roccia che congiungevano i tre piani, che sorprende e stupisce il turista moderno, nello scenario già di per sé unico di Masada.
Ma cosa ha reso celebre Masada nella storia?
Nel 76 d.C. era scoppiata la rivolta generale in Palestina contro il dominio Romano. Gerusalemme fu presa e completamente distrutta, fin dalle fondamenta, dall’esercito romano guidato da Tito.
Solo la fortezza di Masada resistette ancora a lungo e fu espugnata solamente dopo 4 anni dalla presa di Gerusalemme.
Vi erano due vie di accesso: una detta “il serpente”, stretta e a strapiombo e dunque pressoché impraticabile, l’altra più agevole ma sbarrata da una grande torre.
In questa fortezza si rifugiarono un gruppo di Giudei irriducibili, detti Zeloti (fondamentalisti) con le rispettive famiglie, in tutto poco più di un migliaio di persone, guidati da un capo deciso e intrepido di nome Eleazar Ben Yair.
Contro di essa mosse un esercito romano di circa 7.000 uomini guidato da Flavio Silva; l’assedio durò oltre due anni.
I Romani insediarono il campo ai piedi del colle e cominciarono a costruire un grosso terrapieno (”vallo”) sul quale venne poi costruita una piattaforma di grossi blocchi di pietra sulla quale fu realizzata una torre con rivestimenti di ferro in modo da pareggiare e superare l’altezza delle mura della fortezza.
Su di essa furono piazzate le catapulte con le quali lanciarono proiettili di ogni tipo in modo da impedire agli Zeloti di restare sulle mura a difesa. Nel contempo, con un potente ariete, sferrarono l’attacco alle mura che cominciarono a sgretolarsi.
I difensori Zeloti avevano però eretto dietro di esse un altro muro, costituito da un terrapieno tenuto in piedi da un sistema di grossi pali, che riusciva ad assorbire i colpi d’ariete senza grossi danni.
Ma i Romani, esperti di ogni astuzia nell’arte degli assedi, gettarono spezzoni incendiari contro le impalcature di legno che tenevano insieme il terrapieno e le fiamme presero a divampare alte e vigorose.
Ad un tratto, dal deserto si alzò il vento che diresse le fiamme verso il fronte romano con il pericolo che venissero incendiate le macchine da guerra dei Romani.
Per un attimo le speranze degli entusiasti difensori, che avevano interpretato la circostanza favorevole come un intervento divino, cominciarono a prendere consistenza.
Vana fu tuttavia la loro speranza, poiché di li a poco il vento cambiò direzione, così che le fiamme si rivolsero verso il muro disgregandolo definitivamente.
Calò la notte e i Romani si limitarono ad impedire ogni eventuale fuga degli Zeloti, rimandando l’attacco decisivo all’alba del giorno seguente, per evitare interventi al buio in luoghi sconosciuti.
E fu proprio nella notte che i difensori presero una tragica decisione, alla quale si erano preparati da tempo, trascinati da un appassionato discorso del loro comandante Eleazar Ben Year nella Sinagoga.
Per evitare di cadere vivi nelle mani dei propri nemici ed essere uccisi fra tormenti e umiliazioni e che i propri familiari subissero l’onta della schiavitù decisero, come atto estremo, di incendiare le loro postazioni e togliersi la vita in massa.
Dunque, un suicidio collettivo.
Ciascun uomo doveva uccidere di suo pugno i propri familiari, ritenendo la morte mille volte preferibile alla schiavitù.
Ognuno di essi allora strinse la sua sposa fra le braccia e la trafisse con la spada, poi alzò i figli in alto fra le braccia e trafisse anche loro.
In seguito, ciascuno si distese al fianco dei propri cari e dieci uomini estratti a sorte passarono e tagliarono loro la gola.
Dei dieci ultimi superstiti ne venne estratto uno a sorte, che ebbe il compito di tagliare la gola agli altri nove che si erano, a loro volta, distesi volta a terra.
Alla fine, l’ultimo superstite incendiò tutte le loro cose e si gettò sulla propria spada.
Solo due donne anziane e cinque bambini che si erano nascosti nei cunicoli scamparono alla morte.
All’alba i Romani andarono all’assalto aspettandosi un’ultima disperata resistenza degli Zeloti, ma trovarono solo morte e silenzio e fiamme dovunque.
Appresero dalle donne superstiti quello che era avvenuto: la loro esultanza per la vittoria lasciò il posto alla commiserazione e all’ammirazione per un tale e disperato proposito.
Lasciarono un piccolo presidio nella fortezza e si ritirarono.
Dopo quasi duemila anni l’episodio di Masada è tornato di attualità quando, dopo la fondazione dello Stato di Israele, negli anni 50 del secolo sorso gli archeologi ritrovarono le rovine di Masada.
Esso ha peraltro assunto un particolare significato per gli israeliani; un valore patriottico che è divenuto un mito nazionale.
Le giovani reclute giurano infatti “MAI PIU’ MASADA CADRA’” come il proponimento di non lasciarsi più massacrare dai nemici e Eleazar Ben Year è divenuto un eroe nazionale.
Ma è proprio americana la festa di “Halloween”?
Ogni anno, da qualche tempo, con l’avvicinarsi delle festività di novembre di “ Ognissanti” e della “Commemorazione dei Defunti”, che si celebrano rispettivamente l’uno e il due di novembre, si accendono dibattiti e soprattutto sorgono polemiche sulla festa di “Halloween” che ha ormai, a quanto pare, contagiato anche le nostre giovani generazioni sull’intero territorio nazionale.
La più recente tradizione vuole che i bambini, travestiti da streghe, zombie, fantasmi e vampiri, la sera (o anche la notte) del 31 ottobre bussino alle porte urlando con tono minaccioso: "Dolcetto o scherzetto” ?
Le vetrine dei negozi si riempiono di costumi per ogni tipo di travestimento e dolciumi vari oltre che di zucche svuotate e intagliate con volti minacciosi, pronte per porvi una candela accesa all’interno.
Tanti scherzi, tanta allegria.
“Proprio come negli Stati Uniti d’America”, dice la gente, criticando l’affare commerciale che si è venuto ad insidiare anche qui da noi, a maggior ragione in un contesto religioso di massimo rilievo per la Chiesa Cattolica, che dedica per l’appunto i primi due giorni di novembre a tutti i santi e a tutti i morti.
Ma è veramente tutta americana la festa di “Halloween”?
Personalmente nutro al riguardo seri dubbi, tant’è che già nel mio libro “Ddummànne a l’acquarùle se l’acqu’è fréscijche – Detti, motti, proverbi e modi di dire Tarnùise” – Edizioni del Poggio, ho avuto modo di affrontare lo specifico tema, riportando fedelmente alcune usanze paesane di un tempo in occasione della ricorrenza della Commemorazione dei Defunti, di cui trascrivo uno stralcio.
“Un’altra usanza tarnuése, che interessava per lo più i bambini, prendeva corso in occasione della ricorrenza dei Morti quando, con lunghe calze di cotone pesante sulle spalle, essi facevano il giro delle case dei parenti e conoscenti per raccogliere doni propiziatori rappresentati da melecotogne, melagrane, fichi secchi, mandorle, ecc. Anch’essi avevano un ritornello che caratterizzava il loro giro di questua, che faceva così:
Ceciòtte, ceciòtte
A l’aneme d’i mòrte
Ceciuttèlle, ceciuttèlle
A l’àneme d’i murtecèlle
(Lacrime, lacrime per le anime dei morti…lacrimucce, lacrimucce per le anime dei morticini)”.
Ma vi è di più; la sera precedente i bambini appendevano la calza alla porta della loro casa affinchè i “cari defunti” potessero durante la notte riempirla di doni (che erano poi sempre melecotogne, melagrane, fichi secchi, mandorle, ecc. per quelli bravi e carbone per i più cattivi).
Dunque, anche all’epoca a Poggio Imperiale l’evento veniva accolto in allegria e con i defunti si stabiliva, in un certo senso, un contatto quasi fisico, amplificando i toni della festa e sdrammatizzando il concetto della morte.
La festa di “Halloween” rappresenta un’usanza tipicamente statunitense, ma probabilmente deriva da tradizioni importate da immigrati europei.
La presenza nella cultura contadina di zucche svuotate o, più spesso in Europa, di fantocci rappresentanti streghe e di rape vuote illuminate, è documentato anche in alcune località del Piemonte, della Campania, del Friuli, dell’Emilia-Romagna, dell’alto Lazio e della Toscana.
Anche in varie località della Sardegna la notte della Commemorazione dei Defunti si svolgono riti che hanno strette similitudini con la tipica festa di “Halloween” d’ oltreoceano. A Pattada si incidono le zucche e all’ interno viene accesa una candela, mentre in altri paesi si svolge il rito delle "Is Animeddas" (Le Streghe), del "Su bene ‘e is animas", o del “su mortu mortu”, dove i bambini travestiti bussano alle porte chiedendo doni.
Con riguardo quindi alle origini americane della festa di “Halloween”, è forse vero l’esatto contrario, nel senso che negli Stati Uniti inizialmente si trattava di festeggiamenti legati alle diverse tradizioni riferite alla ricorrenza di “Ognissanti”, le cui caratteristiche discendevano dalle culture degli immigrati e alla fede religiosa personale, fino ad arrivare alle moderne celebrazioni che sono poi rimbalzate (forse con caratteristiche un tantino più consumistiche) in Europa ed anche in Italia.
P.S. I bambini statunitensi, durante la festa di “Halloween”, travestiti da streghe, zombie, fantasmi e vampiri, bussano alle porte urlando con tono minaccioso: “Trick or treat" (trick = scherzo; treat = piacere, godimento). Per allontanare la sfortuna è necessario bussare a 13 porte diverse. “Trick or treat “ riporta alla mente i famosi “tric trac” (o trikke trakke), una sorta di mortaretti che un tempo venivano incendiati e fatti esplodere in occasioni festose.
Chissà se la denominazione dei “tric trac” è da farsi risalire proprio al detto “trick or treat “.
YAD VASHEM IL MUSEO DELL’OLOCAUSTO DI GERUSALEMME: la didascalia contestata.
Si parla ancora in questi giorni dei “silenzi” di Papa Pacelli e della ormai famosa didascalia contestata presso il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme.
Ho personalmente avuto l’opportunità di visitare in primavera dello scorso anno lo Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, durante il mio viaggio in Terra Santa con mia moglie.
Una visita che meritava proprio quel pomeriggio di riflessione.
Tante foto, documenti, lettere, indumenti di ogni tipo, ricostruzione fedele di campi di concentramento e di tradotte (treni) militari, libri, oggetti personali dei deportati, ecc.
Lo Yad Vashem è il memoriale dei sei milioni di ebrei deportati e uccisi dai nazisti.
Una cosa davvero toccante, che ti lascia dentro un senso di pietà e di impotenza al tempo stesso, ma che ti scatena anche sentimenti di rabbia per tutto quanto è potuto accadere.
Ogni anno allo Yad Vashem viene celebrata una cerimonia ufficiale nella quale lo Stato di Israele e il popolo ebraico si uniscono nella memoria delle vittime dell’Olocausto.
Un luogo sacro da visitare in silenzio e senza alcuna fretta per prendere consapevolezza di un dramma di immane portata.
Tuttavia, dal magnifico componimento di ricostruzione storico – politica degli eventi, echeggia una lieve stonatura che ha peraltro da tempo generato un certo attrito diplomatico tra Israele e Vaticano.
Si tratta di una didascalia in lingua inglese, a corredo della fotografia di papa Pio XII esposta in una delle sezioni del Museo, dalla quale traspare una personalità controversa in relazione al comportamento di Papa Pacelli dinanzi al genocidio nazista degli ebrei.
In particolare, nella didascalia contestata, su Pio XII si legge, tra l’altro, che “eletto Papa nel 1939, mise da parte una lettera contro l’antisemitismo e il razzismo preparata dal suo predecessore” e che “anche quando i resoconti sulle stragi raggiunsero il Vaticano, non reagì con proteste scritte e verbali”.
In effetti, andare allo Yad Vashem e vedere Pio XII così presentato non è proprio una bella cosa.
La foto di Pio XII è stata esposta per la prima volta con l’apertura del nuovo museo Yad Vashem nel 2005 e già allora il Nunzio Apostolico della Santa Sede aveva chiesto che la didascalia venisse opportunamente modificata.
Lo Yad Vashem aveva risposto che sarebbe stato lieto di esaminare il comportamento di Pio XII durante l’Olocausto se il Vaticano avesse acconsentito ad aprire i suoi archivi segreti, relativamente al periodo della seconda guerra mondiale, ai ricercatori del museo.
Nathan Ben Horin, ex commissario allo Yad Vashem per la nomina dei “giusti” italiani, alla veneranda età di 88 anni sostiene sul Corriere della Sera del 20 ottobre 2008 che “non è il momento di giudicare Pio XII. Non ancora…Pio XII è stato Papa in una situazione estremamente dolorosa e delicata. Dire cosa fosse giusto fare è prematuro. Ci vuole equilibrio”. E, con riferimento alla didascalia, lo stesso ex commissario è del parere che si potrebbero usare toni meno netti poiché “i silenzi di Pio XII sono storia. Ma è storia anche che molti ebrei sfuggirono ai nazisti nascosti nei conventi e all’interno del Vaticano, certamente non all’insaputa del Papa”.
A questo punto dobbiamo augurarci solamente che la polemica venga quanto prima smorzata.
A proposito di San Placido Martire
La Chiesa Matrice di Poggio Imperiale è dedicata a San Placido in omaggio al Principe Placido Imperiale fondatore del paese.
E fu lo stesso Principe Placido Imperiale, persona molto influente alla Corte di Napoli, a commissionare e donare, nella seconda metà del settecento, una tela rappresentante San Placido, per testimoniare la sua devozione al Santo e trasmettere il culto ai suoi coloni.
L’opera venne commissionata personalmente a Francesco De Mura che già lavorava all’Annunziatella a Napoli. La tela, di inestimabile valore, è stata recentemente restaurata e raffigura San Placido in ginocchio che prega la Madonna con Gesù Bambino in braccio mentre, dal basso, un putto gli offre un ostensorio.
Nella Chiesa Matrice di Poggio Imperiale vi è dunque una delle più belle tele di arte barocca della Capitanata di notevole importanza artistica ed economica.
Per maggiori dettagli si rimanda alla lettura del recente libro di Alfonso Chiaromonte “San Placido Martire” Patrono di Poggio Imperiale – Edizioni del Poggio, 2008.
Un’atmosfera d’altri tempi!
In un magnifico scenario di luci scintillanti e di fuochi d’artificio, nelle giornate di domenica 5 e lunedi 6 ottobre si sono svolti a Poggio Imperiale i festeggiamenti del Santo Patrono San Placido Martire.
Grande la partecipazione popolare alle funzioni religiose, che hanno raggiunto il loro apice con la celebrazione della messa solenne celebrata dal Parroco Don Luca De Rosa alle ore 10,30 di domenica nella Chiesa Matrice, che porta il nome del Santo Patrono e per l’occasione addobbata a festa, alla quale è poi seguita la processione dei simulacri di San Placido Martire e di San Michele Arcangelo per le vie del paese, accompagnata dalla Banda musicale e dalle autorità civili, militari e religiose, tra canti sacri e preghiere, in un incalzare di fuochi di artificio in onore dei due Santi lungo tutto il percorso, nei vari rioni del paese, con le coperte più belle esposte ai balconi delle case, fra nastri bianchi e rossi ed icone del santo Patrono.
Un’atmosfera davvero magica tra il fumo dei mortaretti e l’odore acre dei fuochi, fino al ritorno dei Santi in Chiesa dopo circa tre ore di processione.
In serata, Concerto Bandistico “Città di Manfredonia” in piazza Imperiale con brani di opera lirica brillantemente interpretati da cantanti di musica classica sotto le luci delle luminarie e della “Cassa Armonica” appositamente allestita.
La serata di lunedi è stata invece dedicata alla musica leggera con un Concerto dei, sempre bravi, “Nuovi Angeli”.
I festeggiamenti si sono conclusi con un entusiasmante spettacolo di fuochi pirotecnici all’interno dello Stadio comunale.
Sensazioni?
Davvero un’atmosfera d’altri tempi! Una dimostrazione di forte attaccamento alle radici e alle tradizioni della propria terra.
Ma quello che più colpisce e che, per certi versi, lascia ben sperare per il futuro, è la folta presenza di giovani e di giovani coppie con relativi bambini.
In un’epoca di diffuso relativismo in cui ci si lascia portare qua e là da qualsiasi vento, vivere la propria cultura significa riscoprire la tradizione che trasmette valori su cui costruire la propria identità.
E, nel mondo moderno, ne abbiamo veramente bisogno!