MASADA, la fortezza erodiana: il mistero del suicidio collettivo
Masada è una delle più emozionanti riscoperte storico-archeologiche del ventesimo secolo.
Un viaggio a Masada rappresenta un’esperienza indimenticabile in una terra infausta, attraversando i territori di Israele e Cisgiordania, dove il pericolo di attentati, agguati e atti dimostrativi di forza sono all’ordine del giorno.
Bisogna fermarsi ai vari “ceck-point” e sottoporsi con molta pazienza ai continui controlli dei militari, ma ne vale veramente la pena.
L’esperienza della mia visita a Masada risale alla primavera dello scorso anno, in occasione del viaggio in Terra Santa con mia moglie.
Masada (o Massada o, in ebraico, Metzada) era un’antica fortezza israeliana che sorgeva su un altopiano di circa sei km² situato su una rocca a 400 metri di altitudine rispetto al Mar Morto, nella Giudea sud-orientale, l’attuale Palestina.
Mura alte cinque metri – lungo un perimetro di un chilometro e mezzo, con una quarantina di torri alte più di venti metri – la racchiudevano, rendendola pressoché inespugnabile.
La fortezza divenne nota per l’assedio dell’esercito romano durante la prima guerra giudaica e per la sua tragica conclusione: il suicidio collettivo dei suoi difensori.
Provenivamo dalla fertile e lussureggiante Galilea, ove avevamo soggiornato dopo essere giunti in aereo dall’Italia ed atterrati all’aeroporto di Tel Aviv.
Ora, in pullman, ci stavamo avventurando nel deserto giudaico costeggiando, sulla sinistra, il Mar Morto che giace in una depressione di circa 390 metri sotto il livello del mare e, sulla destra, montagne aride e spettrali: quasi un paesaggio lunare.
Ecco apparire finalmente questo grande sperone roccioso culminante in un ampio pianoro a forma di nave, che si innalza sulla costa nord ovest del Mar Morto, in uno scenario arido e selvaggio.
Ai suoi piedi è attrezzata un’ampia area di parcheggio con locali di ristoro e negozietti di souvenir ed un unico sentiero si inerpica lungo la parete rocciosa che costeggia la fortezza sul lato ovest.
Dal basso non si riesce davvero a capire come quel sentiero così ripido possa superare la parete.
Ma c’è un modernissimo impianto di Funivia che risolve ogni problema, lasciando agli impavidi scalatori il gusto di farsela a piedi.
Prima di accedere alla Funivia i visitatori vengono fatti accomodare in una sala attrezzata ove vengono proiettati filmati che ripercorrono la storia e gli eventi che hanno caratterizzato la storia di Masada.
Con la Funivia si raggiunge una buona quota dello sperone roccioso, mentre l’ultimo tratto bisogna farlo a piedi. Ma il percorso è comodo ed agevole poiché è servito da comode passerelle in metallo.
Masada servì da roccaforte militare fin dal secondo secolo a.C., ma fu Erode il Grande – quello che perseguitò a morte Gesù alla sua nascita – a fare di Masada una fortezza militare di prim’ordine.
La superficie pianeggiante di Masada, ampia una decina di ettari, in tutto il suo perimetro fu munita di un muro a casamatta e nei 6,5 metri che correvano tra i due muri della casamatta furono ricavati circa un centinaio tra depositi, arsenali e abitazioni: tra l’altro, lungo il lato occidentale dello stesso muro trovò posto anche una sinagoga, una delle più antiche della Palestina.
Sulla spianata, che all’occorenza poteva essere anche coltivata per procurare prodotti freschi, furono costruiti grandi magazzini in duplice serie: 6 erano lunghi 20 metri e 11 erano lunghi 27 metri. Essi circondavano da tre lati un grande stabilimento termale, inimmaginabile in pieno deserto, con muri affrescati a finto marmo e con ambienti riscaldati a diversa temperatura.
E poi furono costruiti laboratori, edifici a “colombaia”, una piscina all’aperto, numerose cisterne per la raccolta delle acque piovane (12 solo sul lato nord-ovest dalla capacità media di 3.500 m3 di acqua) ecc., e due palazzi.
Il primo palazzo sorse a occidente: serviva probabilmente per l’amministrazione del regno e per la rappresentanza, come dicono i grandi spazi e i raffinati mosaici pavimentali. Il secondo palazzo – più villa privata di Erode che palazzo pubblico – fu ricavato su tre terrazze a diversa altezza nella punta settentrionale della “nave” di Masada (l’aspetto che l’osservatore percepisce è in effetti quello di un’enorme nave).
Ed è proprio questa villa a tre gradini, sospesa sul deserto, con mosaici, intonaci a finto marmo e stucchi, con colonne scanalate e capitelli dorati, con un piccolo impianto balneare, con due scale scavate nella roccia che congiungevano i tre piani, che sorprende e stupisce il turista moderno, nello scenario già di per sé unico di Masada.
Ma cosa ha reso celebre Masada nella storia?
Nel 76 d.C. era scoppiata la rivolta generale in Palestina contro il dominio Romano. Gerusalemme fu presa e completamente distrutta, fin dalle fondamenta, dall’esercito romano guidato da Tito.
Solo la fortezza di Masada resistette ancora a lungo e fu espugnata solamente dopo 4 anni dalla presa di Gerusalemme.
Vi erano due vie di accesso: una detta “il serpente”, stretta e a strapiombo e dunque pressoché impraticabile, l’altra più agevole ma sbarrata da una grande torre.
In questa fortezza si rifugiarono un gruppo di Giudei irriducibili, detti Zeloti (fondamentalisti) con le rispettive famiglie, in tutto poco più di un migliaio di persone, guidati da un capo deciso e intrepido di nome Eleazar Ben Yair.
Contro di essa mosse un esercito romano di circa 7.000 uomini guidato da Flavio Silva; l’assedio durò oltre due anni.
I Romani insediarono il campo ai piedi del colle e cominciarono a costruire un grosso terrapieno (”vallo”) sul quale venne poi costruita una piattaforma di grossi blocchi di pietra sulla quale fu realizzata una torre con rivestimenti di ferro in modo da pareggiare e superare l’altezza delle mura della fortezza.
Su di essa furono piazzate le catapulte con le quali lanciarono proiettili di ogni tipo in modo da impedire agli Zeloti di restare sulle mura a difesa. Nel contempo, con un potente ariete, sferrarono l’attacco alle mura che cominciarono a sgretolarsi.
I difensori Zeloti avevano però eretto dietro di esse un altro muro, costituito da un terrapieno tenuto in piedi da un sistema di grossi pali, che riusciva ad assorbire i colpi d’ariete senza grossi danni.
Ma i Romani, esperti di ogni astuzia nell’arte degli assedi, gettarono spezzoni incendiari contro le impalcature di legno che tenevano insieme il terrapieno e le fiamme presero a divampare alte e vigorose.
Ad un tratto, dal deserto si alzò il vento che diresse le fiamme verso il fronte romano con il pericolo che venissero incendiate le macchine da guerra dei Romani.
Per un attimo le speranze degli entusiasti difensori, che avevano interpretato la circostanza favorevole come un intervento divino, cominciarono a prendere consistenza.
Vana fu tuttavia la loro speranza, poiché di li a poco il vento cambiò direzione, così che le fiamme si rivolsero verso il muro disgregandolo definitivamente.
Calò la notte e i Romani si limitarono ad impedire ogni eventuale fuga degli Zeloti, rimandando l’attacco decisivo all’alba del giorno seguente, per evitare interventi al buio in luoghi sconosciuti.
E fu proprio nella notte che i difensori presero una tragica decisione, alla quale si erano preparati da tempo, trascinati da un appassionato discorso del loro comandante Eleazar Ben Year nella Sinagoga.
Per evitare di cadere vivi nelle mani dei propri nemici ed essere uccisi fra tormenti e umiliazioni e che i propri familiari subissero l’onta della schiavitù decisero, come atto estremo, di incendiare le loro postazioni e togliersi la vita in massa.
Dunque, un suicidio collettivo.
Ciascun uomo doveva uccidere di suo pugno i propri familiari, ritenendo la morte mille volte preferibile alla schiavitù.
Ognuno di essi allora strinse la sua sposa fra le braccia e la trafisse con la spada, poi alzò i figli in alto fra le braccia e trafisse anche loro.
In seguito, ciascuno si distese al fianco dei propri cari e dieci uomini estratti a sorte passarono e tagliarono loro la gola.
Dei dieci ultimi superstiti ne venne estratto uno a sorte, che ebbe il compito di tagliare la gola agli altri nove che si erano, a loro volta, distesi volta a terra.
Alla fine, l’ultimo superstite incendiò tutte le loro cose e si gettò sulla propria spada.
Solo due donne anziane e cinque bambini che si erano nascosti nei cunicoli scamparono alla morte.
All’alba i Romani andarono all’assalto aspettandosi un’ultima disperata resistenza degli Zeloti, ma trovarono solo morte e silenzio e fiamme dovunque.
Appresero dalle donne superstiti quello che era avvenuto: la loro esultanza per la vittoria lasciò il posto alla commiserazione e all’ammirazione per un tale e disperato proposito.
Lasciarono un piccolo presidio nella fortezza e si ritirarono.
Dopo quasi duemila anni l’episodio di Masada è tornato di attualità quando, dopo la fondazione dello Stato di Israele, negli anni 50 del secolo sorso gli archeologi ritrovarono le rovine di Masada.
Esso ha peraltro assunto un particolare significato per gli israeliani; un valore patriottico che è divenuto un mito nazionale.
Le giovani reclute giurano infatti “MAI PIU’ MASADA CADRA’” come il proponimento di non lasciarsi più massacrare dai nemici e Eleazar Ben Year è divenuto un eroe nazionale.
Ma è proprio americana la festa di “Halloween”?
Ogni anno, da qualche tempo, con l’avvicinarsi delle festività di novembre di “ Ognissanti” e della “Commemorazione dei Defunti”, che si celebrano rispettivamente l’uno e il due di novembre, si accendono dibattiti e soprattutto sorgono polemiche sulla festa di “Halloween” che ha ormai, a quanto pare, contagiato anche le nostre giovani generazioni sull’intero territorio nazionale.
La più recente tradizione vuole che i bambini, travestiti da streghe, zombie, fantasmi e vampiri, la sera (o anche la notte) del 31 ottobre bussino alle porte urlando con tono minaccioso: "Dolcetto o scherzetto” ?
Le vetrine dei negozi si riempiono di costumi per ogni tipo di travestimento e dolciumi vari oltre che di zucche svuotate e intagliate con volti minacciosi, pronte per porvi una candela accesa all’interno.
Tanti scherzi, tanta allegria.
“Proprio come negli Stati Uniti d’America”, dice la gente, criticando l’affare commerciale che si è venuto ad insidiare anche qui da noi, a maggior ragione in un contesto religioso di massimo rilievo per la Chiesa Cattolica, che dedica per l’appunto i primi due giorni di novembre a tutti i santi e a tutti i morti.
Ma è veramente tutta americana la festa di “Halloween”?
Personalmente nutro al riguardo seri dubbi, tant’è che già nel mio libro “Ddummànne a l’acquarùle se l’acqu’è fréscijche – Detti, motti, proverbi e modi di dire Tarnùise” – Edizioni del Poggio, ho avuto modo di affrontare lo specifico tema, riportando fedelmente alcune usanze paesane di un tempo in occasione della ricorrenza della Commemorazione dei Defunti, di cui trascrivo uno stralcio.
“Un’altra usanza tarnuése, che interessava per lo più i bambini, prendeva corso in occasione della ricorrenza dei Morti quando, con lunghe calze di cotone pesante sulle spalle, essi facevano il giro delle case dei parenti e conoscenti per raccogliere doni propiziatori rappresentati da melecotogne, melagrane, fichi secchi, mandorle, ecc. Anch’essi avevano un ritornello che caratterizzava il loro giro di questua, che faceva così:
Ceciòtte, ceciòtte
A l’aneme d’i mòrte
Ceciuttèlle, ceciuttèlle
A l’àneme d’i murtecèlle
(Lacrime, lacrime per le anime dei morti…lacrimucce, lacrimucce per le anime dei morticini)”.
Ma vi è di più; la sera precedente i bambini appendevano la calza alla porta della loro casa affinchè i “cari defunti” potessero durante la notte riempirla di doni (che erano poi sempre melecotogne, melagrane, fichi secchi, mandorle, ecc. per quelli bravi e carbone per i più cattivi).
Dunque, anche all’epoca a Poggio Imperiale l’evento veniva accolto in allegria e con i defunti si stabiliva, in un certo senso, un contatto quasi fisico, amplificando i toni della festa e sdrammatizzando il concetto della morte.
La festa di “Halloween” rappresenta un’usanza tipicamente statunitense, ma probabilmente deriva da tradizioni importate da immigrati europei.
La presenza nella cultura contadina di zucche svuotate o, più spesso in Europa, di fantocci rappresentanti streghe e di rape vuote illuminate, è documentato anche in alcune località del Piemonte, della Campania, del Friuli, dell’Emilia-Romagna, dell’alto Lazio e della Toscana.
Anche in varie località della Sardegna la notte della Commemorazione dei Defunti si svolgono riti che hanno strette similitudini con la tipica festa di “Halloween” d’ oltreoceano. A Pattada si incidono le zucche e all’ interno viene accesa una candela, mentre in altri paesi si svolge il rito delle "Is Animeddas" (Le Streghe), del "Su bene ‘e is animas", o del “su mortu mortu”, dove i bambini travestiti bussano alle porte chiedendo doni.
Con riguardo quindi alle origini americane della festa di “Halloween”, è forse vero l’esatto contrario, nel senso che negli Stati Uniti inizialmente si trattava di festeggiamenti legati alle diverse tradizioni riferite alla ricorrenza di “Ognissanti”, le cui caratteristiche discendevano dalle culture degli immigrati e alla fede religiosa personale, fino ad arrivare alle moderne celebrazioni che sono poi rimbalzate (forse con caratteristiche un tantino più consumistiche) in Europa ed anche in Italia.
P.S. I bambini statunitensi, durante la festa di “Halloween”, travestiti da streghe, zombie, fantasmi e vampiri, bussano alle porte urlando con tono minaccioso: “Trick or treat" (trick = scherzo; treat = piacere, godimento). Per allontanare la sfortuna è necessario bussare a 13 porte diverse. “Trick or treat “ riporta alla mente i famosi “tric trac” (o trikke trakke), una sorta di mortaretti che un tempo venivano incendiati e fatti esplodere in occasioni festose.
Chissà se la denominazione dei “tric trac” è da farsi risalire proprio al detto “trick or treat “.
YAD VASHEM IL MUSEO DELL’OLOCAUSTO DI GERUSALEMME: la didascalia contestata.
Si parla ancora in questi giorni dei “silenzi” di Papa Pacelli e della ormai famosa didascalia contestata presso il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme.
Ho personalmente avuto l’opportunità di visitare in primavera dello scorso anno lo Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, durante il mio viaggio in Terra Santa con mia moglie.
Una visita che meritava proprio quel pomeriggio di riflessione.
Tante foto, documenti, lettere, indumenti di ogni tipo, ricostruzione fedele di campi di concentramento e di tradotte (treni) militari, libri, oggetti personali dei deportati, ecc.
Lo Yad Vashem è il memoriale dei sei milioni di ebrei deportati e uccisi dai nazisti.
Una cosa davvero toccante, che ti lascia dentro un senso di pietà e di impotenza al tempo stesso, ma che ti scatena anche sentimenti di rabbia per tutto quanto è potuto accadere.
Ogni anno allo Yad Vashem viene celebrata una cerimonia ufficiale nella quale lo Stato di Israele e il popolo ebraico si uniscono nella memoria delle vittime dell’Olocausto.
Un luogo sacro da visitare in silenzio e senza alcuna fretta per prendere consapevolezza di un dramma di immane portata.
Tuttavia, dal magnifico componimento di ricostruzione storico – politica degli eventi, echeggia una lieve stonatura che ha peraltro da tempo generato un certo attrito diplomatico tra Israele e Vaticano.
Si tratta di una didascalia in lingua inglese, a corredo della fotografia di papa Pio XII esposta in una delle sezioni del Museo, dalla quale traspare una personalità controversa in relazione al comportamento di Papa Pacelli dinanzi al genocidio nazista degli ebrei.
In particolare, nella didascalia contestata, su Pio XII si legge, tra l’altro, che “eletto Papa nel 1939, mise da parte una lettera contro l’antisemitismo e il razzismo preparata dal suo predecessore” e che “anche quando i resoconti sulle stragi raggiunsero il Vaticano, non reagì con proteste scritte e verbali”.
In effetti, andare allo Yad Vashem e vedere Pio XII così presentato non è proprio una bella cosa.
La foto di Pio XII è stata esposta per la prima volta con l’apertura del nuovo museo Yad Vashem nel 2005 e già allora il Nunzio Apostolico della Santa Sede aveva chiesto che la didascalia venisse opportunamente modificata.
Lo Yad Vashem aveva risposto che sarebbe stato lieto di esaminare il comportamento di Pio XII durante l’Olocausto se il Vaticano avesse acconsentito ad aprire i suoi archivi segreti, relativamente al periodo della seconda guerra mondiale, ai ricercatori del museo.
Nathan Ben Horin, ex commissario allo Yad Vashem per la nomina dei “giusti” italiani, alla veneranda età di 88 anni sostiene sul Corriere della Sera del 20 ottobre 2008 che “non è il momento di giudicare Pio XII. Non ancora…Pio XII è stato Papa in una situazione estremamente dolorosa e delicata. Dire cosa fosse giusto fare è prematuro. Ci vuole equilibrio”. E, con riferimento alla didascalia, lo stesso ex commissario è del parere che si potrebbero usare toni meno netti poiché “i silenzi di Pio XII sono storia. Ma è storia anche che molti ebrei sfuggirono ai nazisti nascosti nei conventi e all’interno del Vaticano, certamente non all’insaputa del Papa”.
A questo punto dobbiamo augurarci solamente che la polemica venga quanto prima smorzata.
A proposito di San Placido Martire
La Chiesa Matrice di Poggio Imperiale è dedicata a San Placido in omaggio al Principe Placido Imperiale fondatore del paese.
E fu lo stesso Principe Placido Imperiale, persona molto influente alla Corte di Napoli, a commissionare e donare, nella seconda metà del settecento, una tela rappresentante San Placido, per testimoniare la sua devozione al Santo e trasmettere il culto ai suoi coloni.
L’opera venne commissionata personalmente a Francesco De Mura che già lavorava all’Annunziatella a Napoli. La tela, di inestimabile valore, è stata recentemente restaurata e raffigura San Placido in ginocchio che prega la Madonna con Gesù Bambino in braccio mentre, dal basso, un putto gli offre un ostensorio.
Nella Chiesa Matrice di Poggio Imperiale vi è dunque una delle più belle tele di arte barocca della Capitanata di notevole importanza artistica ed economica.
Per maggiori dettagli si rimanda alla lettura del recente libro di Alfonso Chiaromonte “San Placido Martire” Patrono di Poggio Imperiale – Edizioni del Poggio, 2008.
Un’atmosfera d’altri tempi!
In un magnifico scenario di luci scintillanti e di fuochi d’artificio, nelle giornate di domenica 5 e lunedi 6 ottobre si sono svolti a Poggio Imperiale i festeggiamenti del Santo Patrono San Placido Martire.
Grande la partecipazione popolare alle funzioni religiose, che hanno raggiunto il loro apice con la celebrazione della messa solenne celebrata dal Parroco Don Luca De Rosa alle ore 10,30 di domenica nella Chiesa Matrice, che porta il nome del Santo Patrono e per l’occasione addobbata a festa, alla quale è poi seguita la processione dei simulacri di San Placido Martire e di San Michele Arcangelo per le vie del paese, accompagnata dalla Banda musicale e dalle autorità civili, militari e religiose, tra canti sacri e preghiere, in un incalzare di fuochi di artificio in onore dei due Santi lungo tutto il percorso, nei vari rioni del paese, con le coperte più belle esposte ai balconi delle case, fra nastri bianchi e rossi ed icone del santo Patrono.
Un’atmosfera davvero magica tra il fumo dei mortaretti e l’odore acre dei fuochi, fino al ritorno dei Santi in Chiesa dopo circa tre ore di processione.
In serata, Concerto Bandistico “Città di Manfredonia” in piazza Imperiale con brani di opera lirica brillantemente interpretati da cantanti di musica classica sotto le luci delle luminarie e della “Cassa Armonica” appositamente allestita.
La serata di lunedi è stata invece dedicata alla musica leggera con un Concerto dei, sempre bravi, “Nuovi Angeli”.
I festeggiamenti si sono conclusi con un entusiasmante spettacolo di fuochi pirotecnici all’interno dello Stadio comunale.
Sensazioni?
Davvero un’atmosfera d’altri tempi! Una dimostrazione di forte attaccamento alle radici e alle tradizioni della propria terra.
Ma quello che più colpisce e che, per certi versi, lascia ben sperare per il futuro, è la folta presenza di giovani e di giovani coppie con relativi bambini.
In un’epoca di diffuso relativismo in cui ci si lascia portare qua e là da qualsiasi vento, vivere la propria cultura significa riscoprire la tradizione che trasmette valori su cui costruire la propria identità.
E, nel mondo moderno, ne abbiamo veramente bisogno!
Radici e tradizioni nell’era della globalizzazione
“Tutti sono convinti che la globalizzazione aumenti la cultura, la conoscenza, la creatività, ma non è detto che sia vero, perché essa distrugge anche le culture, le tradizioni, le lingue, le letterature locali. Ancora nel secolo scorso in Italia c’erano scrittori, poeti e cantanti milanesi, genovesi, romani, napoletani amati e ammirati nel loro ambiente. E c’erano migliaia di laboratori artigianali, boutiques in cui trovavi degli stupendi prodotti artigianali. Oggi dovunque tu vada – a Milano, a Firenze, a Saint-Tropez, a Tokio, a Manila, a New York – trovi gli stessi vestiti, lo stesso gusto. Nelle librerie gli stessi libri, nei cinema gli stessi film, nelle televisioni gli stessi format, e senti discutere le stesse idee…".
Così scrive Francesco Alberoni lunedi 8 settembre 2008, in prima pagina, sul Corriere della Sera, concludendo, poi, che “Per tener viva la diversità culturale e conservare accesa la creatività bisogna che ciascuno partecipi e competa nel sistema di comunicazione globale, ma nello stesso tempo ogni nazione, ogni popolo, ogni città deve conservare le sue radici, la sua lingua, la sua tradizione e farle fiorire. Non dobbiamo aver paura di essere diversi, di rifiutare il tipo di arte, di cinema, di libri, di spettacoli televisivi ammirati da tutti. Dobbiamo imparare a giudicare e a scegliere con la nostra testa, e sforzarci di realizzare solo cose che consideriamo veramente belle e di valore. Certo, agire così richiede uno sforzo individuale molto più grande, ma è l’unico modo per tenerci fuori dal gregge e poter dare anche noi un contributo utile”.
Ebbene, il mio libro dal titolo insolito “Ddummànne a l’acquarùle se l’acqu’è fréscijche” – Detti, motti, proverbi e modi di dire “Tarnuìse” (poggioimperialesi) – Edizioni del Poggio, intende offrire, nel suo piccolo, l’opportunità di fermare il tempo sulle origini di una piccola comunità (Poggio Imperiale in provincia di Foggia) e immortalare in modo indelebile le sue immagini.
Un lavoro che si prefigge lo scopo di lasciare traccia del linguaggio e delle espressioni di un tempo che non c’è più, ma che rappresenta un prezioso patrimonio da non disperdere, per fornire soprattutto alle giovani generazioni testimonianza di una tradizione che deve necessariamente sopravvivere, poiché non ci può essere futuro senza memoria.
I detti, motti, proverbi e modi di dire rappresentano una sorta di banca dati ove poter attingere informazioni e ricercare le fondamenta di una civiltà, di un popolo, di una comunità.
Non costa nulla chiedersi che cosa le tradizioni ci hanno insegnato e quindi in questo lavoro vengono analizzati, in particolare, i detti, motti, proverbi e modi di dire dei tarnùise, che rappresentano uno spaccato della vita degli abitanti di Poggio Imperiale di un tempo.
I nostri detti, motti, proverbi e modi di dire rivelano un linguaggio semplice, che si traduce in quelle mille forme che rappresentano la vita nel suo molteplice manifestarsi.
Una rappresentazione della saggezza della nostra terra che si alimenta alla fonte dei ricordi e tiene sempre viva la fiamma del sentimento che sorregge il culto del passato.
La locuzione “Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche”, che è anche il titolo del libro, vuole pertanto essere semplicemente un pretesto per introdurre il lettore in un’atmosfera di ricordi di un mondo che non c’è più:
– un mondo magico fatto di cunde (racconti), di storie infinite che affascinavano adulti e bambini au frìiscijche ‘nnanz’i porte (al fresco fuori dalle proprie case), nelle calde serate d’estate illuminate dal chiaro di luna, o intorno ai camini scoppiettanti o ai vrascére (bracieri) nelle fredde serate invernali, quando le strade erano appena illuminate dalla flebile luce notturna e ai ragazzi veniva proibito di uscire di casa perché (sulla base di una fantastica diceria popolare) circolava minaccioso u pumpenàre (il lupo mannaro);
– un mondo magico fatto di giochi di gruppo all’aperto “attingolò”, “a cavalle lónghe”, “a nnammùcciùne”, “a mazzapívete”, “a gnàgnele…ticte, tacte e palùmme”, riservati per lo più ai soli ragazzi, mentre le ragazze giocavano a “zanchètte” od altro; ma anche di giochi collettivi, tipo “sèggija ferrìzze, sèggija ferrìzze, chi c’jàveze e chi ce ‘mbìzze”, improvvisati in occasione di feste come “Carnuàle” (Carnevale), “parendàte” (feste di fidanzamento), “spusalìzije” (feste di matrimonio), ecc.;
– un mondo magico fatto di profumi della nostra terra e di sapori dei nostri cibi;
– un mondo magico fatto di cummèdije (acquiloni) che si libravano nell’aria sospinti dalla leggera brezza primaverile che spazzava via le nuvole e accendeva di azzurro il cielo tarnuése, nell’incantesimo degli sguardi dei ragazzi che correvano srotolando il loro gliòmmere (gomitolo) di vammàce (cotone grezzo usato solitamente per confezionare calzettoni pesanti dei contadini).
“Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche” è un modo di dire che rappresenta, forse più di tutti gli altri, la quintessenza del modo di essere e dell’indole di noialtri poggimperialesi (tarnuíse), poiché raccoglie in poche parole il senso della più intima natura del temperamento di una comunità unica, se vogliamo, nel suo genere.
Una comunità semplice ma determinata nel raggiungimento degli obiettivi che si è prefissata di conseguire.
Una comunità che, per le note vicissitudini, ha dovuto lottare per la propria affermazione, scontrandosi con posizioni e realtà precostituite e dunque ostili al cambiamento, ma con quell’innata lealtà ed onestà intellettuale che ha sempre contraddistinto la sua azione.
Tutto questo potrebbe aver creato nel tarnuése un certo senso di diffidenza, che si manifesta attraverso quel caratteristico atteggiamento dubbioso, di sospetto, classico di chi non si fida ciecamente a prima vista e che ha bisogno di sfidare l’interlocutore per metterlo alla prova.
Ma lo fa comunque con estrema ironia e senza malizia o cattiveria. Per un tarnuése, ad esempio, è del tutto scontato che l’ortolano dirà sempre che i suoi prodotti ortofrutticoli sono freschi e che lo stesso farà il pescivendolo, anche quando i rispettivi prodotti messi in vendita non dovessero risultare propriamente tali.
E allora egli cercherà di prevenire l’eventuale fregatura ponendosi in una condizione di difesa preventiva, almeno sul piano psicologico, per evitare di passare da stupido, pronunciando battute dal sapore ironico – sarcastico nei riguardi del venditore, del tipo:“Acquarú(le)…jè fréscijche l’acque ?”, che rappresenta, per l’appunto, una vera e propria sfida ovvero una provocazione finalizzata a stimolare la reazione dell’interlocutore, che si spera sia sempre positiva.
Ma non sempre è così: a volte infatti l’interlocutore reagisce negativamente fornendo risposte a tono, anche se nella stragrande maggioranza dei casi, però, gli effetti si dimostrano invece sufficientemente apprezzabili, attraverso una maggiore attenzione e cortesia che in seguito, solitamente, viene riservata al tarnuése.
Questo è dovuto probabilmente anche al fatto che molti dei venditori ambulanti gravitanti nell’ambito del paese sono forestieri ed è un po’ come prendere le distanze per chiarire, da subito, che non ci si trova di fronte ad un allocco o ad uno sprovveduto.
“Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche”, alla lettera, significa: “ Chiedi al venditore di acqua se l’acqua è fresca”, tuttavia si tratta di un modo per rappresentare una “cosa ovvia e scontata”, come per dire che è del tutto pacifico che la risposta del “venditore di acqua” sarà positiva, nel senso che egli non dirà mai che la sua acqua non è fresca, anche di fronte all’evidenza.
Il detto è da farsi risalire al tempo in cui Poggio Imperiale era sfornito di rete idrica (e fognaria) cittadina e l’acqua potabile veniva approvvigionata direttamente presso il Pozzo comunale (da qui, via del Pozzo) ovvero acquistata da un venditore, chiamato acquarùle, che la portava in paese in barili caricati a dorso d’asino (successivamente anche con una grande botte allestita su di un carretto trainato da cavallo).
Ogni asino, attrezzato con idonea bardatura (‘a vàrde) portava quattro barili (due per parte), accompagnato a piedi da Lazzàre ‘u cecàte (Nazario Iadarola) nel percorso che conduceva dal Pozzo comunale fino all’altezza del Palazzo De Cicco, in prossimità di una delle due torrette posteriori del palazzo, in particolare di quella ubicata lato Comune, dopo aver superato il tratto della mulattiera in salita e non affatto agevole.
Presso il predetto “punto di ritrovo” i tarnuìse facevano la fila in attesa dell’acquarúle e non di rado sorgevano tra di loro liti e risse (facévane a sciàrre e ce frecàvene de botte) per la disputa delle rispettive posizioni nella fila.
Il primo della fila prendeva in mano le briglie dell’asino (‘a capézze) e “faceva strada”, precedendo l’animale da soma verso la propria abitazione per il “servizio a domicilio”, seguito da Lazzàre ‘u cecàte.
Qui i barili contenenti l’acqua potabile venivano svuotati direttamente nelle saròle, consistenti in grossi recipienti di terracotta (tipo giare con larga apertura nella parte superiore sulla quale veniva collocato un coperchio di legno). La saròle piena costituiva la provvista idrica di ogni casa e l’acqua veniva attinta con un’ apposita brocchetta in alluminio ( u secchijettélle).
La quantità di acqua richiesta all’acquarúle veniva espressa con una misura definita salma che rappresentava la capacità di acqua contenuta nei barili.
Solitamente si diceva: “Pùrteme ‘na salma d’acque”, per indicare un intero carico di quattro barili caricati a dorso dell’asino, che era sufficiente per riempire una saròle.
Si usava inoltre dire “trovare l’acqua” e più precisamente “v’a trùve l’acque” (alla lettera: vai a cercare l’acqua), indifferentemente, sia quando ci si doveva recare al Pozzo comunale, sia quando si doveva andare a far la fila dietro al Palazzo De Cicco.
Ebbene, come si è visto, da un semplice modo di dire, come “Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche”, si possono aprire scenari fantastici che consentono di immergersi con l’immaginazione in un mondo ormai trascorso, ma che ci consente di poter cogliere aspetti interessanti e sicuramente utili per il nostro futuro e quello delle future generazioni.
Il tarnuése che giovane più non è avrà l’opportunità di rinfrescare i ricordi sopiti e i giovani l’occasione per scoprire aspetti del patrimonio del passato della loro comunità poco noti.
Eccomi!
Tra qualche giorno lascerò l’Azienda nella quale e per la quale ho fornito in questi anni il mio contributo professionale, con l’orgoglio di aver avuto l’opportunità di far parte di una grande ed importante Impresa proiettata verso un futuro di grande espansione nel mercato interno ed internazionale.
Avrò ora innanzitutto più tempo da dedicare alla mia famiglia, ma anche più spazio per i miei interessi personali…in verità un po’ trascurati.
E mi piace ripartire “virtualmente” dalle origini del mio percorso di vita; da Poggio Imperiale, un ridente paese in provincia di Foggia, nel quale sono nato, pur abitando da lungo tempo a Sesto San Giovanni in provincia di Milano.
E’ stato infatti pubblicato nello scorso mese di luglio dalle Edizioni del Poggio un mio libro dal titolo:
<< Ddummànne a l’acquarùle se l’acqu’è fréscijche >>
Detti, motti, proverbi e modi di dire “Tarnuìse” (poggioimperialesi)
Ed il Sito www.paginedipoggio.com “Pagine di Poggio Imperiale” vuole rappresentare il mio strumento operativo di comunicazione.
Un poggio, un’altura,
un dolce declivio.
Un luogo privilegiato di osservazione
sul passato, presente e futuro.
Sul mondo intero
(l.b.)
Il Blog “come la penso io” è invece una finestra aperta sugli eventi, itinerari, viaggi e su quant’altro avrò voglia e tempo di soffermare la mia osservazione.