A Poggio Imperiale … la passione per le “antiche cose”!
Singolare iniziativa di un “poggioimperialese” che ha pazientemente ricercato e raccolto, negli anni, antichi attrezzi agricoli ed artigianali, ma anche macchinari un po’più sofisticati di un tempo; strumenti di arti e mestieri oltre che per il diletto, il gioco e lo sport; arredi ed attrezzature domestiche per la cucina, l’illuminazione, il riscaldamento e l’igiene personale; stampe, quadri, libri, fotografie; mezzi di trasporto (biciclette, moto, ecc.), oggetti di culto e tanto altro materiale.
Attrezzature agricole varie
In molti casi gli oggetti raccolti sono stati sottoposti ad un attento restauro, riportandoli alla loro originaria funzionalità.
Tutto questo ad opera di un “pimpante” sessantenne “poggioimperialese”.
Si tratta di Leonardo Iadarola, classe 1948”, per gli amici “Nardino”; uno dei figli del più noto Nazario Iadarola: “Lazzàr(e) u bidéll(e)”, un riferimento storico per diverse generazioni – me compreso – nei ricordi delle “elementari” frequentate a Poggio Imperiale.
Macchinario agricolo
Giovanissimo, nel 1961, “Nardino” si è trasferito in Lombardia, a Milano, ove ha avuto l’opportunità e la perseveranza di specializzarsi, acquisendo la qualifica di “tubista industriale”.
Nel 1977 ha fatto ritorno in paese per mettere a frutto la propria capacità professionale, raggiungendo livelli di tutto rispetto.
Ed è proprio qui, a Poggio Imperiale, che ha “scoperto” la sua passione per le cose antiche, cominciando pian piano a raccoglierle e a conservarle in alcuni angoli dei suoi “capannoni industriali”, allestendo gradualmente una notevole “esposizione”.
Macchina per la cucitura delle pelli
Oggi, la raccolta di “Nardino” può ben definirsi una “collezione” a pieno titolo, sia per quanto attiene alla quantità degli oggetti, sia con riguardo alla varietà degli articoli disponibili.
Arnesi di vario genere
Ho avuto modo di visitare i capannoni con mia moglie, nei primissimi giorni di gennaio 2010, nel corso della nostra permanenza in paese per le festività di fine anno, e devo dire – ad onor del vero – che siamo rimasti inizialmente stupiti e poi via via affascinati dalla presenza di tanto materiale, che richiama alla mente un tempo che non c’è più.
Utensili domestici
E’ tutto molto interessante, ma forse l’iniziativa di “Nardino” andrebbe valorizzata all’interno del del paese, ma ancor di più all’esterno, onde dare visibilità, attraverso un circuito virtuoso di mostre, visite scolastiche, circuiti turistici, ecc., alla vita, alle tradizioni, alla storia, agli usi e ai costumi dei “poggioimperialesi” che hanno vissuto prima di noi.
Ritengo che la conoscenza delle nostre radici ci consente di meglio sviluppare il nostro futuro.
Ed è bene che i giovani e le nuove generazioni ne prendano atto facendo un “tuffo nel passato” …con una visita alla “raccolta” delle “antiche cose” di “Nardino” … per poi ridestarsi … nell’epoca del benessere (e del “superfluo”) e … magari … provare a fare qualche “raffronto”!
Inoltre, al fine di non disperdere il “patrimonio” raccolto, un passaggio successivo dovrebbe riguardare la catalogazione di tutto il materiale per categoria, con descrizione e numerazione di ogni reperto, supportato da documentazione fotografica.
Tutto questo, eventualmente, nella prefigurazione di una “pubblicazione/catalogo” da mettere a disposizione dei visitatori e di tutti gli estimatori delle belle “cose antiche” di Poggio Imperiale.
Biciclette di vario tipo
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Per prendere contatti con “Nardino”:
“ARTIGIANTUBI snc”
71010 Poggio Imperiale (Foggia)
Tel. 0882 994288
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E … sempre a proposito dell’aurora: Andrea Arnaboldi !
Tra i commenti ricevuti sul mio Blog www.paginedipoggio.com – “Come la penso io!” – corre l’obbligo di segnalarne uno di particolare interesse.
Si tratta di un commento al mio articolo dal titolo:
L’aurora (del 18/11/2009)
Il commento, che riporto integralmente qui di seguito, è dell’autore dell’opera lirica “L’Aurora di Gerusalemme”, da me citata nel predetto articolo.
Commenti
"Buongiorno, Volevo ringraziarla per il commento sull’opera "L’aurora di Gerusalemme". Se può interessare ho scritto un’altra opera "Dante racconta l’Inferno" sulla Divina Commedia. La prima nel suo genere: www.linferno.org Nel ringraziarla ancora invio cordiali saluti Andrea Arnaboldi (inviato il 15/01/2010)".
Avevo riportato nel mio articolo che … a proposito dell’aurora … “C’è anche una splendida opera lirica sulla riconquista del Santo Sepolcro, di Andrea Arnaboldi tratta dalla "Gerusalemme Liberata" di Torquato Tasso, intitolata: " L’Aurora di Gerusalemme ".
L’autore ci fa ora sapere che ne ha composta anche un’altra tratta dalla Divina Commedia di Dante, dal titolo: "Dante racconta l’Inferno".
E, curiosando sul sito www.linferno.org abbiamo acquisito qualche informazione in più sul personaggio e sulle sue opere.
Dal sito www.linferno.org
" Andrea Arnaboldi
Compositore, intraprende in giovane età gli studi di pianoforte e composizione. Diviene membro della Commissione Artistica Regionale dell’Anbima e di giurie presso prestigiosi concorsi corali nazionali. Contemporaneamente si laurea a pieni voti in scienze politiche presso l’Università Cattolica di Milano. Di formazione compositiva classica, si indirizza da sempre alla ricerca della teatralità del comporre musicale, adeguandolo ai generi musicali più disparati: dal melodramma alla musica corale polifonica, dalla canzone d’autore al dramma musicale. Sulla scorta di alcune importanti collaborazioni con Francesco Guccini e Fabrizio De Andrè, arrangia per ensemble corali opere degli stessi, all’interno di un progetto edito dalla EMI Music Italy e trasmesse regolarmente in TV e in radio. Autore eclettico, ha seguito le orme del melodramma italiano, perseguendo in particolar modo i lasciti della Scuola Verista, elaborando uno stile che coniuga l’accento drammatico del testo, nel solco della tradizione verdiana, e l’espressionismo verista, caratterizzato dall’impeto e dall’avvincente gioco timbrico sinfonico. Di grande impatto sono i suoi lavori su testi di poesia colta e a questo riguardo grande successo ha ottenuto uno dei suoi più importanti lavori, L’Aurora di Gerusalemme (2002), su libretto ispirato all’opera La Gerusalemme Liberata del Tasso. Si segnala come ultimo lavoro appunto Dante racconta l’ Inferno, sulla stregua del poema dantesco di cui è autore del libretto, delle musiche e di diverse orchestrazioni " .
Complimenti Maestro !
E tantissimi auguri per un futuro costellato di ulteriori soddisfazioni ed altrettanto successo.
Natale 2009: il Presepe Vivente a Poggio Imperiale
Anche quest’anno l’Azione Cattolica poggioimperialese ha riproposto il Presepe Vivente.
La manifestazione è stata inserita nell’ambito del programma delle festività natalizie e di fine anno ed ha avuto luogo in paese la sera di domenica 3 gennaio 2010.
Dopo la Santa Messa serale celebrata dal parroco Don Luca, anticipata per l’occasione alle ore 18,00, sono entrati in scena i tre Re Magi e due angioletti che, seguiti dalla cittadinanza in processione, hanno raggiunto, partendo dalla Chiesa Parrocchiale di San Placido Martire, la Chiesa del Cuore di Gesù, in prossimità della quale era stato allestito il Palazzo del Re Erode.
E, da qui, hanno poi iniziato il loro cammino verso la Grotta della Natività del Bambino Gesù, soffermandosi nelle diverse tappe ove erano stati ambientati i luoghi e i personaggi del Presepe.
Foto gentilmente resa disponibile da Alfonso Chiaromonte
Ogni tappa è stata accompagnata da letture di approfondimento riferite agli eventi, fino alla Grotta, meta finale del percorso, concluso con la recita di alcune preghiere di rito guidata dallo stesso Don Luca.
Le ambientazioni sono state realizzate all’interno di antiche e vecchie strutture del centro storico di Poggio Imperiale, un tempo adibite a botteghe artigianali, cantine, stalle o anche umili abitazioni , ma anche all’esterno, valorizzando particolari e suggestivi scorci del paesaggio urbano del paese.
Al termine del rito formale della processione, le viuzze del centro storico interessate dal percorso del Presepe Vivente, transennate e cosparse di paglia, hanno d’improvviso iniziato ad animarsi festosamente e persone di ogni età hanno cominciato ad interagire con i vari personaggi del Presepe, i quali offrivano ai visitatori i prodotti che stavano man mano preparando nei diversi luoghi.
Quindi, una vera e propria degustazione di antichi cibi di Poggio Imperiale, sapientemente preparati – al momento – dalle abili mani di concittadine e concittadini in costumi tradizionali ed in ambienti che richiamavano le vecchie tradizioni paesane.
Pan cotto alle verdure, bruschette, scarpelle, tarallucci, ceci e fave abbrustolite; questi i cibi di un tempo offerti insieme a qualche buon bicchiere di vino rosso.
Grande l’affluenza della cittadinanza che ha preso parte all’evento.
Un ringraziamento speciale ad Alfonso Chiaromonte per la foto.
Liquori di agrumi del Gargano: il “LIMOLIVO” e il “LIMONCELLO”.
La delizia dei liquori di agrumi del Gargano può accompagnare, in tutte le stagioni, la fine di un buon pasto, anche con effetto digestivo.
Ma anche fuori pasto, da sorseggiare con squisiti dolcetti secchi, alla frutta, alla crema o al cioccolato, oppure semplicemente sul gelato.
Gli aranceti e i limoneti del Gargano, conferiscono al paesaggio un particolare colore, offerto proprio dai limoni e dalle arance, dando luogo ad un affascinante contrappunto con il verde-argenteo degli olivi ed il blu intenso del mare.
Queste terre hanno dato vita a tradizioni che si tramandano da generazioni. Tra queste, una delle più importanti è sicuramente un’antica ricetta dalla quale si ricava un liquore chiamato “Limolivo” che è il parente stretto del più conosciuto “Limoncello”.
Il Limoncello
Il “Limolivo” è uno squisito liquore amaro di ineguagliabile sapore antico. Racchiude in se l’armonia dei profumi delle arance, dei limoni e delle foglie di olivo, vera ricchezza delle aspre terre del Promontorio del Gargano. E’ lo sposalizio della natura con l’arte di racchiuderla in un liquore unico.
Il Limolivo
Tale prodotto, considerato un amaro dall’aspetto semipastoso, ha colorazione scura tipica di questa categoria di alcolici, seppure perfettamente fluido. E’ nato con l’intento di esaltare la bellissima colorazione che le foglie di olivo cedono all’alcool quando questo viene messo a contatto con esse.
Il “Limolivo” è una specialità del Gargano ed in particolare di Monte Sant’Angelo in provincia di Foggia, la località famosa per la presenza della Grotta di San Michele Arcangelo.
Si tratta di un posto affascinante da un punto di vista paesaggistico giacchè situato in collina con una bella vista sul mare; a pochi chilometri da Monte Sant’Angelo si trova la famosa località balneare di Mattinata.
Il Santuario di San Michele sorge all’incrocio delle strade che conducono a Manfredonia, a San Giovanni Rotondo, ove è sepolto Padre Pio da Pietrelcina, e alla Foresta Umbra. Entrando nel complesso, colpisce immediatamente il maestoso campanile detto anche la “Torre Angioina”, eretto da Carlo I d’Angiò come ringraziamento a San Michele Arcangelo per la conquista dell’Italia meridionale, iniziato nel 1274 durante il Pontificato di Gregorio X (1271-1276), progettato dall’architetto Giordano, originario di Monte Sant’Angelo e completato nel 1282. La Torre era originariamente alta 40 metri, poi fu ridotta agli attuali 27 metri di altezza per motivi sconosciuti, secondo alcuni per effetto di un fulmine o per collocarvi le campane.
Ma lo spettacolo più affascinante, è offerto dalla Grotta di San Michele Arcangelo: la caverna, dall’irregolare volta rocciosa, che nell’arco dei secoli ha accolto milioni di pellegrini; sono presenti varie statue e bassorilievi, ma ciò che colpisce è proprio la conformazione davvero particolare della grotta, ascoltare una messa lì è esperienza emozionante per chiunque, anche per i non credenti.
E, in tale mistico contesto, sopravvivono anche ricette semplici ed antiche; non si tratta di lunghe e difficili distillazioni o di misture dagli ingredienti segreti, cose lontanissime dalla cultura contadina, ma di semplici infusioni in alcool di prodotti della terra del Gargano.
Il “Limolivo” è uno squisito liquore amaro di ineguagliabile sapore antico; racchiude in se l’armonia dei profumi delle arance, dei limoni e delle foglie di olivo, vera ricchezza delle aspre terre del promontorio del Gargano.
Il “Limoncello” è un piacevolissimo liquore prodotto artigianalmente dalla lenta e sapiente macerazione delle profumatissime scorze di limoni del Gargano.
Il Gargano, grazie alla sua composizione calcare, produce allo stato naturale un limone dal profumo inconfondibile.
Di “Limolivo” e di “Limoncello” se ne trova in commercio di ogni tipo e marca, ma quello che si riesce a preparare in casa, con le proprie mani, seguendo le semplici ricette tramandate dalle nostre nonne, è senza dubbio il più gustoso.
Ricetta del LIMOLIVO
Dose ridotta (prova)
Far macerare in 400 ml di alcool etilico le bucce di 2 limoni, 2 arance e 2 mandaranci (eliminare bene la parte bianca) e 5 foglie di olivo, per 10 giorni.
Filtrare bene l’infuso.
Portare ad ebollizione 600 ml di acqua con 300 gr. di zucchero.
Preparare 100 gr. di zucchero caramellato.
Amalgamare bene con un cucchiaio di legno tutti gli ingredienti precedentemente preparati ed imbottigliare il liquore così ottenuto.
Si consiglia di tenere la bottiglia di “Limolivo” in freezer e di servire il liquore ben ghiacciato in bicchierini.
Ricetta del LIMONCELLO
Dose ridotta (prova)
Far macerare in 400 ml di alcool etilico le bucce di 2 limoni, 2 arance e 2 mandaranci e, se disponibile, anche la buccia di un cedro (eliminare bene la parte bianca), per 10 giorni.
Filtrare bene l’infuso.
Portare ad ebollizione 600 ml di acqua con 400 gr. di zucchero.
Amalgamare bene con un cucchiaio di legno tutti gli ingredienti precedentemente preparati ed imbottigliare il liquore così ottenuto.
Si consiglia di tenere la bottiglia di “Limoncello” in freezer e di servire il liquore ben ghiacciato in bicchierini.
Il “San Giovanni ” di Leonardo torna a Milano dopo 70 anni
Sabato 5 dicembre io e mia moglie abbiamo avuto l’opportunità di visitare la mostra “Leonardo a Milano – Dal museo del Louvre a Palazzo Marino – Esposizione straordinaria del San Giovanni Battista di Leonardo”.
Il capolavoro leonardesco è tornato a Milano dopo 70 anni; mancava dal 1939 allorchè venne esposto alla Triennale.
E’ stato riportato nel capoluogo lombardo grazie alla partnership con il museo parigino del Louvre e resterà esposto per un mese, fino al 27 dicembre, nella Sala Alessi di Palazzo Marino.
Proprio Milano è stata la città che adottò Leonardo da Vinci, che però portò il San Giovanni con sè ad Amboise, in Francia, dove trascorse l’ultimo periodo della sua vita.
Oggi il museo del Louvre sceglie Milano per un ritorno atteso e felice del grande genio italiano Leonardo, unico per la sua personalità di grande innovatore.
Realizzato a Firenze fra il 1508 e il 1513 per volere di Giovanni Benci (1), questo dipinto ad olio su una tavola di 69cm x 57cm fu terminato a Milano prima di essere portato in Francia dallo stesso Leonardo, che lo custodiva gelosamente nel suo studio a Cloux.
Nella Sala Alessi, grazie a un perfetto sistema di illuminazione, il visitatore può cogliere uno ad uno i molti frammenti che danno vita a questa immagine: dal sorriso ai lunghi riccioli biondi, per alcuni il segno conclamato dell’ambiguità sessuale di questo giovane, fino a quel dito puntato in alto, verso l’aldilà divino, invisibile al nostro sguardo.
Il San Giovanni è un olio su tavola (legno di noce) considerato uno degli ultimi dipinti di Leonardo. Arriva dal Louvre di Parigi, dove è conservato insieme alla Gioconda e a Sant’Anna, la Vergine e il Bambino.
Il “prestito” è nato dalla collaborazione tra il celebre museo parigino, il Comune di Milano, il Ministero dei Beni Culturali ed ENI (Ente Nazionale Idrocarburi).
L’allestimento della mostra risulta molto sobrio; il capolavoro è stato tolto dalla cornice ed esposto tra quattro pareti (pannelli) nere, senza la presenza di altri quadri.
Questo consente di potersi concentrare solo ed esclusivamente su di esso, potendo così osservare ed apprezzare l’unicità e la preziosità dell’opera del grande maestro.
Si riesce a guardare negli occhi di San Giovanni Battista e restare ammaliati dallo sguardo di questo “giovane” e dal suo sorriso forse un po’ ambiguo, complice quell’indice puntato verso l’alto, verso una dimensione superiore.
In una sala attigua viene invece proiettato un interessante ed originale “filmato”, girato appositamente per illustrare l’evento, integrato con tratti storici di riferimento risultanti di notevole interesse.
(1) Un altro capolavoro di Leonardo da Vinci è la “Ginevra de’ Benci”, esposto negli Stati Uniti d’America presso la prestigiosa “National Gallery of Art” di Washington DC.
Raffigura la fiorentina Lisa Gherardini; Monna Lisa Gherardini moglie dello stesso Giovanni Benci, amico di Leonardo, che ha commissionato al maestro il “San Giovanni Battista” esposto al Louvre di Parigi ed ora “in prestito” per un mese a Milano (dal 27 novembre al 27 dicembre 2009).
Per maggiori dettagli sulla “Ginevra de’ Benci” di Leonardo è possibile “sfogliare” gli articoli di questo Blog e ricercare “Leonardo da Vinci di casa in America con Ginevra Benci” dell’11.5.2009.
La 7^ Edizione della “MicroEditoria” di Chiari 2009 dedicata alla memoria della poetessa scomparsa Alda Merini.
Anche quest’anno, nei giorni 13, 14 e 15 novembre 2009, nella splendida cornice di Villa Mazzotti di Chiari (Brescia), si è tenuta la consueta “Rassegna della MicroEditoria”, giunta alla sua settima edizione.
Più di 100 gli Editori intervenuti, tra i quali le EDIZIONI DEL POGGIO www.edizionidelpoggio.it del Dott. Giuseppe Tozzi di Poggio Imperiale (Foggia), già presente lo scorso anno; 50 gli Eventi programmati oltre ai Laboratori scientifici e letture per bambini.
Stand Edizioni Del Poggio
L’edizione 2009 è stata dedicata alla memoria di Alda Merini, madrina della manifestazione.
Alda Merini, prima ospite importante della Microeditoria durante la prima edizione, è stata colei che ha consentito di far conoscere e far decollare la manifestazione, così come è stata colei che, partecipando alla conferenza stampa dell’anno successivo, ha fatto sì che, dopo il lancio, anche il proseguimento dell’evento si consolidasse, sotto le sue ali, che sapevano volare davvero alto.
In questa edizione è stata ricordata come un “inno alla vita”, con l’affetto e la riconoscenza dovuti per la grande poetessa e soprattutto per la grande donna, da sempre capace di cantare la bellezza e l’afflizione, di camminare su linee sospese tra quelle che la gente chiama ragione e follia, di parlare a piccoli e grandi, indifferentemente.
Tra gli ospiti invitati quest’anno all’evento:
– Margherita HACK astrofisica;
– Vittorio MESSORI autore di “Ipotesi di Gesù”;
– Sergio RIZZO autore de “La Casta”;
– Enzo DE CARO attore;
– Vittorio PRODI eurodeputato, Commissione Ambiente, Sanità Pubblica e Sicurezza Ambientale.
Numeroso il pubblico ed i visitatori affluiti.
Tema dell’anno: “Il desiderio di uscita dalla crisi e la voglia di alzare lo sguardo al cielo, celebrando anche l’Anno internazionale dell’astronomia”.
Ecco allora l’editoria attenta, che si muove con supporti modernissimi, offrendo soluzioni innovative come gli audiobook, da ascoltare, oltre che da leggere e toccare, come l’opera Siddartha di Herman Hesse, letta dall’attore Enzo De Caro.
In omaggio alla madrina Alda Merini, a cui l’associazione «L’impronta» ha dedicato la settima edizione, Enzo De Caro (sala Zodiaco) e Antonella Barina (sala Morcelli) hanno letto poesie della poetessa recentemente scomparsa.
Organizzazione:
L’associazione culturale “L’Impronta” e il Comune di Chiari, con il patrocinio del Consiglio Regionale della Lombardia, della Provincia di Brescia e dell’Universita’ Cattolica di Milano, in collaborazione con il Parlamento Europeo, il Sistema Bibliotecario Sud Ovest Bresciano, la Fondazione Cogeme Onlus e il Centro Giovanile 2000, hanno voluto promuovere questa rassegna per valorizzare la produzione della piccola editoria italiana e perche’ il pubblico avesse l’opportunita’ di conoscere questa realta’ attraverso i volti dei suoi protagonisti.
La “Villa Mazzotti” di Chiari (Brescia)
La Villa Mazzotti Biancinelli sorge in un parco di circa 10 ettari. Fu commissionata dal conte Ludovico Mazzotti Biancinelli all’architetto Antonio Vandone di Torino, che la realizzo’ fra il 1911 ed il 1919 con la collaborazione dell’architetto Citterio.
L’aurora
Nella scorsa primavera, in aereo, nel corso del viaggio di ritorno dagli Stati Uniti d’America, complice l’insonnia che solitamente accompagna me e mia moglie in tutti i trasferimenti, di qualsiasi tipo, abbiamo avuto modo di goderci l’aurora di un nuovo giorno che pian piano cominciava a delinearsi.
Uno spettacolo unico nel suo genere.
La luce dell’aurora assume inizialmente tonalità di colore lilla-lavanda per poi passare ad un più surreale pesca-arancio.
In quota, dal finestrino dell’aereo, dal buio più profondo della notte abbiamo iniziato a scorgere le prime lievi note di luce; un momento affascinante in cui le ombre della notte lentamente si diradano e comincia ad avanzare un chiarore che illumina lentamente e sempre di più il cielo.
L’aurora è stata nei secoli molto amata dai poeti e dai pensatori, e continua ad esserlo tuttora, perché rappresenta un momento magico e misterioso al tempo stesso.
Omero magnifica la dea Aurora, sia nell’Odissea che nell’Iliade, attribuendole “dita di rosa”, circa venti volte nei suoi versi: “ Quando, figlia di luce, brillò l’Aurora dita rosate …”.
A questa dea era attribuito il dono di aprire le porte del Cielo al carro del Sole semplicemente con il tocco delle dita color di rosa.
Quella che i romani chiamavano Aurora era la dea Eos della mitologia greca.
Appartiene alla prima generazione divina, quella dei Titani.
E’, infatti, figlia di Iperione e di Teia e sorella di Elio e di Selene; secondo altre tradizioni, era figlia di Pallante.
Con Astreo, un dio della stessa stirpe, generò i Venti: Zefiro, Borea e Noto, e così la “Fiaccola dell’Aurora” e gli Astri.
La sua leggenda è totalmente costellata dei suoi amori: un tempo, si racconta, si era unita ad Ares, attirandosi così la collera di Afrodite, che l’aveva punita facendone un’eterna innamorata.
Amò e portò con sé numerosi giovani noti per la loro straordinaria bellezza, come Orione, Cefalo e Titone, che divenne suo sposo.
Ovidio la chiama infatti “sposa di Titone”, mentre Dante nomina Aurora nel canto II e nel canto IX del Purgatorio , dove è citata come “la concubina di Titone antico”.
Anche nella musica l’Aurora ha sempre ispirato compositori classici e moderni.
Dell’Aurora ritroviamo “le rosee sue dita” nella “Mattinata” di Ruggero Leoncavallo, scritta per Enrico Caruso nel 1903 e successivamente cantata anche da Luciano Pavarotti e da Al Bano (nella sua versione rivisitata).
L’aurora di bianco vestita
Già l’uscio dischiude al gran sol;
Di già con le rosee sue dita
Carezza de’ fiori lo stuol!
C’è anche una splendida opera lirica sulla riconquista del Santo Sepolcro, di Andrea Arnaboldi tratta dalla “Gerusalemme Liberata” di Torquato Tasso, intitolata: “ L’Aurora di Gerusalemme “.
Ed ancora, Eros Ramazzotti così canta nella sua canzone dal titolo “L’Aurora”:
. … sarà sarà l’aurora
per me sarà cosi
sarà sarà di più
ancora tutto il chiaro che farà…
Il “grano dei morti”.
Le tonde zucche arancioni e i primi freddi autunnali annunciano la prossima festa di “Halloween” che da qualche tempo sta prendendo piede anche nel nostro paese.
Una zucca di Hallowen
Negli Stati Uniti d’America è in uso mettere in giardino, la sera del 31 ottobre, sulla finestra o davanti alla porta di ingresso, grandi zucche arancioni svuotate della polpa in cui sono intagliati occhi accigliati, nasi satanici e bocche senza denti nel cui interno vengono infilate grosse candele accese.
La luce delle candele, penetrando dalle cavita’, crea effetti singolari e sinistri e questa sorta di “teschi” che originariamente avrebbero dovuto allontanare le occulte presenze, oggi acquistano un valore di “festoso” invito.
“Halloween” diventa quasi una gara tra chi possiede piu’ zucche e tra chi riesce a creare le facce piu’ originali, terribili e spiritose.
I giovani, travestiti da fantasmi, scheletri e streghe, si riuniscono in gruppi girando di casa in casa mimando il ritorno dei defunti e ripetendo “Trick or Treat”, che significa “Inganno o Offerta”; “Scherzo o Dolce”.
Pure da noi è ormai un classico, tra bambini, ragazzi e giovani, ripetere il motto: “Scherzetto o Dolcetto?”, “omologandosi” di fatto ai loro coetanei statunitensi.
E, questo, pare che si registri non solo in Italia, ma via via in ogni parte del mondo!
Le nuove usanze vanno così a sostituire le vecchie e consuete tradizioni che, in ogni paese, caratterizzavano un tempo la “festività dei morti”.
Nella tradizione “foggiana”, ad esempio, il “grano” faceva parte delle celebrazioni rituali “dei morti”.
Si usava mangiarlo in novembre in suffragio dei morti e rappresentava uno dei cibi rituali che scandivano il tempo della festa e del lavoro nella civiltà contadina.
E tale tradizione continua ancora oggi.
Una ciotola di “grano dei morti”
Il grano viene cotto ed amalgamato al mosto cotto, arricchito con chicchi di melograno e cioccolato fondente spezzettato, e quindi servito in ciotole individuali per essere gustato a fine pasto come dolce al cucchiaio, in abbinamento a un vino da dessert.
La tradizione del “grano dei morti” è presente, oltre che in Puglia, anche in altre regioni meridionali come la Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia.
E sono tante le varietà degli ingredienti che in ogni località vengono aggiunti al grano cotto; si va dalla cannella alle noci o mandorle sgusciate, zucchero, cedro candito, uva passa ed altro.
E’ una specialità che si tramanda da generazioni nel “foggiano” per la ricorrenza dei morti.
Ingredienti per la preparazione del “grano dei morti” nel foggiano
Nell’area salentina questo dolce è detto “colva” o “coliba”, termine preso in prestito dal bizantino “kolba” che, a sua volta, deriva dal greco “koliva”; in altre parti della Puglia e’ conosciuto col termine dialettale di “cicc cuott”.
Nell’antica Grecia gli ingredienti di questo particolare dolce, grano e melograno combinati insieme, erano offerti a Demetra, dea dell’agricoltura e alla figlia Kore che, rapita da Fiutone, nell’Ade aveva assaporato i chicchi rossi.
Ancora oggi, in qualche parte della Grecia, fino a quaranta giorni dopo un decesso, si consuma grano cotto sulla tomba del defunto.
A partire dal neolitico, in area egea, il culto dei morti appare in tutta evidenza collegato con i riti stagionali della fertilità, e del ciclo del grano in particolare, nei quali il rifiorire della vita in primavera era messo in relazione con la resurrezione dalla tomba.
La dimensione magico-religiosa che accompagnava il lavoro agricolo era parte di un più complesso universo mitico-rituale.
Con le feste della “mietitura” si conclude il ciclo della spiga. Un ciclo che ha avuto inizio 7/8 mesi prima, al momento della semina, quando i chicchi sono stati introdotti nel seno della terra e affidati alle sue forze sotterranee.
La spiga, dal momento in cui si è alzata e irrobustita sullo stelo (aprile-maggio), si è tratta fuori dall’influenza delle potenze sotterranee. Anche esse però vanno ringraziate per quanto hanno fatto.
Se infatti la Commemorazione dei defunti apre il mese di novembre e la semina, i riti della rinascita primaverile, del periodo marzo-aprile, sono le ultime feste dei morti. In esse si saluta la vita nuova mentre si esprime gratitudine alle entità che hanno sostenuto il processo generativo.
Questo passaggio è nel Cristianesimo riassunto ed esplicitato dalla stessa vicenda del Cristo.
Il Risorto, non a caso, reca in mano un mazzo di spighe: egli è il Signore delle spighe.
La Settimana Santa è pertanto il luogo e il tempo del ritorno e del passaggio; è l’ultima festa della Terra e dei Morti.
La semina è dunque indissolubilmente correlata al culto delle divinità sotterranee e dei morti.
La coltivazione del grano risale a 5000 anni fa e sin dall’antichità ha rappresentato un alimento principale, semplice e nutriente.
Il grano è un cereale che si distingue in “grano duro” a frattura vitrea idoneo per la trasformazione in semola e pasta e “grano tenero” a frattura farinosa per la farina, per farne pane e dolci.
Tra prodotti tipici pugliesi più famosi figura il pane di Altamura, l’unico pane in Italia in grado di fregiarsi del marchio DOP.
Dal grano duro coltivato in Puglia non si produce solo pane, ma anche pasta fresca, come le orecchiette, il cui formato si erge a simbolo della Regione nel mondo intero.
Il “tartufo”… questo prezioso tubero!
Si svolge ad Alba in questi giorni la consueta fiera del tartufo.
La “Fiera del Tartufo” di Alba nacque nel 1929 con il nome di “Fiera-Mostra campionaria a premi dei rinomati tartufi delle “Langhe”, come prosecuzione dell’Esposizione agricola e industriale che si svolgeva ad Alba fin dall’inizio del secolo. Si era intuito che il tartufo, se opportunamente promosso, poteva diventare trainante per tutta la produzione agricola e artigianale locale.
E migliaia furono negli anni i visitatori che si recavano ad Alba per assistere alla sfilata dei carri allegorici e per assaggiare il tartufo.
Negli anni la Fiera ha cambiato il proprio volto, allungando i tempi di svolgimento e arricchendosi di aspetti culturali, come mostre d’arte, e di appuntamenti come il Palio degli asini e la Giostra delle Cento Torri.
La “Fiera del Tartufo” di Alba è la principale manifestazione che riguarda il prezioso tubero, a livello mondiale. Ogni anno sono veramente tante le persone che, da ogni parte del mondo, invadono letteralmente Alba per degustarlo nei ristoranti del posto, accompagnandolo con un buon bicchiere di Barolo. Ma anche per acquistarlo, scegliendo fra le varie ed infinite pezzature proposte, e portarlo a casa propria per consumarlo in famiglia con tutta calma, su un buon risotto alla parmigiana o anche su dei tagliolini fumanti (tajarin).
In cucina il tartufo è un mito prezioso.
Tartufo bianco in esposizione ad Alba
Il mondo del tartufo, per letteratura e per tradizione, è sempre stato avvolto da un alone di mistero, che ne ha creato il mito. I protagonisti, i semplici cercatori e coloro che lo hanno commercializzato ne hanno dato un’interpretazione soggettiva, legata alle lune, alle astuzie e agli accorgimenti del “mestiere di trifolao”, allo scenario delle colline, delle valli e delle brume ottobrine.
Il tartufo è una delle massime espressioni della cucina italiana e non solo. Profumatissimo, inebriante, coinvolgente, per molti addirittura afrodisiaco, il Tartufo Bianco d’Alba dà un tocco di nobiltà a ogni portata, conferendo un tono a piatti semplici (anche ad un semplice uovo all’occhio di bue) e originalità alle ricette più sfiziose.
Il suo impiego è ormai universale. Entrato quasi defilato nella cucina piemontese, grazie ai cuochi savoiardi cresciuti nelle cucine nobili parigine, il tartufo ha fatto il giro del mondo conquistando le tavole che fanno tendenza nei quattro angoli del pianeta. La voluttuosa versatilità, la capacità unica di rendere grande ogni piatto contribuisce in modo determinante a rendere assolutamente speciale il “Tuber magnatum Pico”.
Tartufo bianco in esposozione ad Alba
Come conservarlo?
Il tartufo dopo la raccolta dal terreno può conservarsi allo stato fresco per un tempo assai limitato, variabile in relazione alla specie, al grado di maturazione, alla presenza di larve e al metodo di conservazione impiegato; quando il tartufo accenna a perdere consistenza e si ammorbidisce esso è al limite massimo di conservazione e quindi va consumato subito. I metodi di conservazione domestica dei tartufi possono consentire di mantenerli freschi per qualche settimana in più. Si presuppone l’impiego del frigorifero (con temperatura ottimale da 0°C a 2 °C ed umidità relativa dell’ 80%-85%) o del surgelatore.
Conservazione nella carta : si prendono i tartufi freschi senza lavarli nè pulirli e si avvolgono uno per uno in carta porosa ed assorbente, (carta paglia). Dopo averli messi dentro contenitori di vetro ermetici, avendo cura che non stiano troppo stretti, si ripone il vaso in frigorifero negli scomparti più bassi dove è meno freddo; una volta al giorno va sostituita la carta inumidita con altra asciutta ed anche il contenitore va asciugato interamente dalla condensa. Così facendo si possono mantenere i tartufi freschi anche per una quindicina di giorni.
Un piatto di tajarin al tartufo bianco di Alba
Per saperne di più
Il Tartufo è conosciuto fin dall’antichità nonostante non si possa essere sicuri che gli storici dell’antichità parlassero di questo o di altri funghi ipogei. Si narra che il tartufo comparisse nella dieta di Ebrei e Sumeri intorno al 1700-1600 a.C. Le prime notizie certamente attribuibili al tartufo compaiono nell’opera di Plinio il Vecchio Historia Naturalis (79 d.C). Si racconta che il tubero era molto apprezzato dai Romani. Tra le molte leggende che aleggiano intorno all’Araba Fenice della gastronomia internazionale, il tartufo appunto, c’è quella secondo la quale il tartufo nasce dall’azione combinata dell’acqua, del calore e dei fulmini. Da questa diceria molti poeti trassero ispirazione per alimentare il mito del tartufo fino a Giovenale che spiegò l’origine di questo strano e raro fungo come frutto di un fulmine scagliato da Giove nei pressi di una quercia (albero consacrato al Padre degli Dei). Dal momento che Giove era famoso per la prodiga attività sessuale al tartufo sono state da sempre attribuite qualità afrodisiache. Riguardo al tartufo per molto tempo si è fatta molta confusione anche a proposito della sua classificazione. Alcuni naturisti lo definivano una pianta, altri una escrescenza del terreno alcuni, addirittura, un animale. In Italia la patria del tartufo è sicuramente il Piemonte e in particolare modo un ristretto territorio della Langa Roero e, in parte, del Monferrato. Il tartufo negli anni ha acquistato una fama mondiale essendo particolarmente raro. Sfuggente, misterioso, irraggiungibile il tartufo è capace con il suo profumo di risvegliare i sensi in una sorprendente varietà di toni e di sfumature delle piante con cui il tartufo vive in simbiosi: pioppi, salici, noccioli. Ogni tartufo ha la sua storia e ogni pianta ha il suo tartufo. Se l’ambiente naturale non viene violato il tartufo rimane fedele alla sua pianta crescendo sempre alla sue radici. E’ per questo motivo che il “trifolao” annota gelosamente su un registro le coordinate del luogo per tramandarle, insieme ad altri segreti del mestiere, ai propri figli. Nonostante una storia gastronomica molto antica la consacrazione di questo tubero è avvenuta negli ultimi due secoli alla corte dei nobili nonostante la cucina povera non abbia mai disdegnato una bella insalata con il tartufo. La ricerca del tartufo vede coinvolti, in un binomio inscindibile, l’uomo e il suo cane. L’olfatto di quest’ultimo è reso finissimo da uno speciale addestramento i cui successi sono premiati ogni volta da un tozzo di pane, da una carezza o da un pezzo di tartufo. Il Tartufo bianco di Alba (Tuber magnatum Pico) è giudicato da tutti gli esperti il migliore in assoluto. La specie La determinazione delle diverse specie di tartufi è basata sulla forma, sulla dimensione, sul colore, sulle ornamentazioni del peridio, sull’aspetto della gleba, sul profumo e sul sapore. Qualora queste caratteristiche non siano sufficienti, è necessario l’esame microscopico degli aschi e delle spore che possono essere reticolate, alveolate o spinulate. Attualmente è possibile determinare i tartufi in tutte le fasi del loro sviluppo mediante esami biomolecolari. In Italia si raccolgono una decina di specie di tartufi, tra queste la più pregiata è il: Tuber magnatum Pico (tartufo Bianco d’Alba o d’Acqualagna o Bianco pregiato) che ha sempre mantenuto il primato, oltre che sulla tavola, anche sui prezzi. Seguono il T. melanosporum Vitt. (tartufo nero di Norcia e Spoleto o Nero pregiato) che a tutt’oggi, in Italia, non è stato ancora apprezzato come merita. Il T. borchii Vitt.(Bianchetto o Marzuolo), il T. aestivum Vitt. (Scorzone) con la sua varietà uncinatum Fischer oggi riportata come specie nella legge italiana, il T. brumale Vitt. (tartufo Invernale) con la sua varietà moschatum Ferry e il profumato e saporito T. macrosporum Vitt. (Nero liscio). Di importanza trascurabile sono il T. rufum Pico (Rossetto), il T. mesentericum Vitt.(tartufo di Bagnoli), il T. nitidum Vitt., Il T. ferrugineum Vitt. ed infine il T. excavatum. Altre specie di funghi ipogei comunemente raccolte, ma di nessun pregio gastronomico, appartengono ai generi Terfezia, Delastria, Picoa, Genea, ecc. Merita qui ricordare che non esistono tartufi tossici, ma che alcuni riconoscibili dall’odore nauseante o dalla assoluta mancanza di odore, possono provocare lievi disturbi gastrointestinali. Alcuni di questi, definiti “falsi tartufi”, appartengono ai generi Balsamia e Choiromyces. Nel nostro Paese trova gli ambienti ottimali sull’Appennino centrale (Umbria e Marche), dove Norcia è uno dei centri più rinomati di produzione. Ambienti di raccolta non mancano in Emilia Romagna, Toscana, Veneto, Lombardia, Piemonte, Liguria e al sud in Campania (da poco anche in Molise). Il tartufo invernale si trova prevalentemente nelle aree di diffusione del “nero pregiato”. Il tartufo di Bagnoli, pur essendo presente in tutte le aree tartuficole, ha la sua zona di maggior produzione in Campania. Il Bianchetto è probabilmente il tartufo con maggiore diffusione, ma le maggiori raccolte sono localizzate nelle pinete dei litorali. Alcune specie, quali il T. brumale, il T. mesentericum, il T. aestivum e il T. borchii vengono raccolti in piccole quantità anche in Germania, Svizzera, Cecoslovacchia e Inghilterra. In Asia, Africa, America e Australia, vengono raccolte specie di tartufi di poco pregio.
E’ necessario ricordare che l’aroma dei Tuber varia a seconda del grado di maturazione dei corpi fruttiferi. Tra le molte specie di tartufi identificate, le specie più pregiate si trovano solo in Italia, Francia, Spagna e nel nord dell’ex Jugoslavia. In particolare va sottolineato che il tartufo bianco pregiato è stato finora trovato solo nel centronord dell’Italia e nell’ex Istria. Le zone tipiche di produzione si trovano nel Piemonte meridionale e precisamente sulle rinomate e caratteristiche colline di Torino, delle Langhe e del Monferrato.
La città di Alba vanta il più vecchio mercato che, per la qualità del prodotto trattato, ne determina il prezzo“ufficiale”.
E che prezzi … veramente prezioso questo tubero !!!
Tartufo nero (più a buon mercato) in esposizione ad Alba
Padre Pio “si congeda” a San Giovanni Rotondo
Si è conclusa nei giorni scorsi a San Giovanni Rotondo l’ostensione delle spoglie di Padre Pio.
Dopo 17 mesi nei quali i resti mortali sono stati esposti alla venerazione dei fedeli, il corpo del santo riposa in un sarcofago che è stato definitivamente chiuso nella cripta del santuario di Santa Maria delle Grazie a San Giovanni Rotondo.
La cittadina di San Giovanni Rotondo si trova ad una cinquantina di chilometri da Poggio Imperiale.
Fu fondata nel 1095 sulle rovine di un preesistente villaggio del IV secolo a.C., e di questo borgo restano ancora dei segni visibili, come alcune tombe ed un battistero circolare (“rotondo”, dal quale trae il proprio appellativo) che anticamente era destinato al culto di Giano, Dio bifronte, e in seguito fu consacrato a San Giovanni Battista.
Qui dal 4 settembre 1916 al 23 settembre 1968 visse e morì Padre Pio da Pietrelcina.
Il giorno 24 settembre scorso è giunto a conclusione il periodo di esposizione pubblica dei resti mortali del Santo da Pietrelcina, e così Padre Pio si “congeda” dopo 17 mesi di ostensione iniziata il 24 aprile dell’anno scorso e che ha richiamato milioni di fedeli.
Il corpo del Santo è stato prelevato dalla teca trasparente dove è stato ammirato in questi mesi da folle di fedeli ed è stato riposto in una nuova teca in plexiglass, adagiato su un materasso realizzato in modo da mantenere inalterato il tasso di umidità.
E’stata rimossa la maschera in silicone (che tante polemiche aveva destato) ed il volto è stato coperto semplicemente da un velo.
L’urna è stata quindi riposta all’interno di un sarcofago, con finiture in argento, non trasparente, realizzato da Guy Georges Amachoukeli, detto Goudji, orafo della Georgia, naturalizzato francese.
Il frate cappuccino stringe tra le mani un crocifisso.
Le operazioni sono durate in tutto circa 11 ore ed ora le spoglie riposano nella nuova collocazione, sempre all’interno della cripta del santuario della Madonna delle Grazie.
Non è stata infatti stabilita alcuna data per la traslazione nella nuova chiesa di San Pio.