Il mistero della “Sindone” di Torino: ma si tratta di un “reperto autentico?
La “Sindone” è nuovamente visibile dal 10 aprile al 23 maggio 2010, a dieci anni di distanza dall’ultima apertura della “teca” che la contiene nel Duomo di Torino.
Tanti i visitatori, i pellegrini o solamente curiosi giunti da ogni parte del mondo.
Ed è singolare osservare così tanta gente che, in silenzio, avanza pian piano in una lunga fila, anche di qualche ora, per giungere al cospetto del “sacro lino”.
Anch’io ci sono ritornato con mia moglie, per rivedere ancora una volta a distanza di dieci anni, e forse con uno spirito diverso, quel telo che potrebbe veramente aver avvolto il corpo del Cristo morto e deposto dalla Croce oltre duemila anni fa.
Ma si tratta di un “reperto” autentico?
Le perizie eseguite sul tessuto, sul sangue, sui pollini e sulle più svariate tracce presenti, secondo lo studioso della “Sindone” per eccellenza, il Prof. Pierluigi Baima Bollone, «sono tutte prove che depongono a favore di un esito che designa il reperto come un lenzuolo funerario riferibile all’epoca di Gesù e quindi riconducibile all’area dei monti della Giudea di circa duemila anni fa».
«Il Lenzuolo – asserisce lo studioso – non è un falso, come alcuni hanno pensato, perché un falsario tanto abile da riprodurlo non esiste».
Il Prof. Pierluigi Baima Bollone, ordinario di Medicina Legale all’Università di Torino e autore di 120 pubblicazioni scientifiche e 15 libri di notevole diffusione su vari argomenti legati alla medicina legale e alla criminologia. Baima Bollone, che si autodefinisce “l’ultimo epigono di Lombroso”, ha presentato il suo più recente libro «Sindone e scienza all’inizio del 3° millennio» (ed. La Stampa) in cui ha affrontato l’annoso problema dell’autenticità del “sacro lino”.
Qual è la posizione della Chiesa in proposito?
Le discussioni sull’autenticità del telo, cioè sulla corrispondenza dell’uomo di cui è impressa l’immagine e il Cristo, sono fonte di continui confronti tra studiosi e credenti.
Ufficialmente la Santa Sede (che ne è proprietaria dal 1983; in precedenza apparteneva alla Casa Savoia) è molto prudente e tuttora, sul sito curato dalla diocesi di Torino, la Sindone viene definita «un lenzuolo di lino sul quale è impressa la figura del cadavere di un uomo torturato e crocifisso».
Il 21 aprile 1988 da una zona marginale della Sindone vennero prelevati tre campioni di tessuto per essere sottoposti alla datazione con il metodo del radiocarbonio.
Il successivo 13 ottobre, in un’affollata conferenza stampa, il Card. Anastasio Ballestrero, Arcivescovo di Torino e Custode Pontificio della Sacra Sindone, annunciò i risultati ottenuti dai tre laboratori incaricati dell’esame (Oxford, Zurigo e Tucson-U.S.A.), risultati che assegnavano al tessuto della “Sindone” un’età compresa nell’intervallo 1260-1390 dopo Cristo.
Gli anni successivi furono caratterizzati da vivaci polemiche e da un ampio e articolato dibattito tra gli studiosi sulla correttezza dell’operazione di datazione e del relativo risultato, sulla sua inconciliabilità con i molteplici risultati ottenuti in altri campi di ricerca e, in particolare, sull’attendibilità dell’uso del metodo del radiocarbonio.
Ora, dal Papa Benedetto XVI, in visita a Torino nei giorni scorsi, in occasione dell’ostensione 2010 della “Sindone”, è arrivata un’affermazione molto precisa.
Il Papa definisce la “Sindone” un’icona e non una reliquia.
Questo sta a significare che non vede la “Sindone” come un resto corporeo, ma come un’immagine.
«Reliquia», dal latino “reliquus”, resto, residuo, è quel che rimane di un corpo umano o di parte di esso, anche se, in senso lato, la tradizione cattolica così chiamò anche gli oggetti che furono a contatto di una persona.
«Icona», invece, dal greco “eikón”, ci porta al significato di immagine.
“Nel celebre lenzuolo il Papa vede riflessa la vicenda di Cristo; anzi il telo permette di osservare, come specchiati, i nostri patimenti nelle sue sofferenze. Sono state così lasciate in un canto le diatribe sulla datazione” (Armando Torno, Corriere della Sera, 3 maggio 2010).
E’ come dire di smettere di domandarsi se la “Sindone” di Torino sia veramente stata il lenzuolo che ha avvolto Gesù, perché il suo significato educativo è comunque molto grande.
Questo non risolve sicuramente il giallo più affascinante dell’archeologia cristiana, ma offre una chiave interpretativa più ampia e meno tecnica.
E, in verità, è proprio così: nel corso della visita alla “Sindone”, l’atmosfera che ti circonda è tale che, in quei frangenti, forse non è molto importante che il “reperto” sia o meno autentico, cioè che l’immagine impressa sul telo corrisponda a quella del Cristo, poiché il suo valore simbolico suscita un grande impatto suggestivo nell’immaginario della gente.
Le persone in fila ad attendere di poter stare pochi minuti davanti al “lino” sono diverse le une dalle altre, giovani e anziane di status differenti, e fra di loro forse anche la presenza di non credenti, eppure tutte devotamente e umilmente commosse.
Eremi rupestri nel Gargano: un patrimonio unico ed irripetibile.
A pochi chilometri da Monte Sant’Angelo, sul Gargano, tra picchi rocciosi, gole e strapiombi a guisa di canyon, in uno scenario che mette in luce gioielli naturalistici di straordinaria bellezza, si scorgono i tanti eremi rupestri che hanno un tempo caratterizzato quel lembo di terra che circonda l’antica Abbazia di santa Maria di Pulsano.
Un piccolo universo sconosciuto e dal fascino irresistibile.
L’Abbazia di santa Maria di Pulsano sul Gargano, edificata sull’omonimo colle del Gargano in onore della santa Madre di Dio sul cadere del VI secolo per opera del monaco-papa san Gregorio Magno, è stata luogo di monaci, eremiti e cenobiti, orientali e latini, che nel corso dei secoli ha avuto alterne vicende.
Agli inizi del XII scolo fu ricostruita ad opera di “san Giovanni eremita, il Pulsanese”, detto tardivamente da Matera, pellegrino al santuario micaelico del Gargano [a Monte Sant’Angelo si erge, come noto, il Santuario di San Michele Arcangelo], dalla cui austera testimonianza di vita scaturì una famiglia monastica autonoma, l’Ordine monastico degli Eremiti Pulsanesi, detti anche gli “Scalzi”, i quali rifacendosi rigidamente alla regola di san Benedetto e alla tradizione monastica orientale già presente a Pulsano, ebbero in questo monastero garganico la loro Casa Madre, da cui dipesero circa 40 monasteri, sparsi non solo nel Gargano ma anche nel resto d’Italia.
I più famosi sono stati i monasteri pulsanesi di Toscana, ubicati lungo la “via francigena” da Pavia a Roma, e quelli delle isole slave dell’Adriatico, Mljet e Hvar, dirimpettaie del nostro Gargano.
L’Abbazia nelle forme attuali, gravemente danneggiate da un sisma nell’anno 1646, fu edificata ad opera del beato Gioele, “sacerdos et magister”, nativo di Monte Sant’Angelo e terzo abate generale dei monaci Pulsanesi.
La chiesa abbaziale, di stile romanico e con il presbiterio ricavato in una grotta naturale, al termine dei lavori di costruzione, fu solennemente dedicata dal papa Alessandro III il 30 gennaio 1177, il quale consacrò anche l’altare “quadrato”, uno dei pochi esempi di altari bizantini ancora presenti in Italia.
I monaci furono presenti stabilmente su questo colle fino alla soppressione “murattiana” del 1809.
Intorno all’Abbazia, su spuntoni rocciosi e pareti scoscese , vero santo deserto monastico garganico, sono disseminati ben “24 eremi rupestri “ collegati tra loro da sentieri, patrimonio davvero unico ed irripetibile del nostro territorio.
Per anni il complesso è stato in una situazione di abbandono e di incuria tali da determinare attraverso furti di ignoti, un depauperamento del patrimonio artistico dell’Abbazia.
Grazie all’opera del volontariato, prima, e successivamente dei monaci, qui di nuovo presenti dal 1997, l’Abbazia è oggi rinata a nuova vita.
La laboriosa presenza della comunità monastica, latina e bizantina nella spiritualità e nella liturgia, ha fatto sì che questo luogo ritornasse ad essere un centro di spiritualità al servizio delle comunità dell’ Arcidiocesi di Manfredonia e di tutti i fedeli.
In Abbazia sono attive: un “scuola di iconografia”, che durante l’estate avvicina all’immenso patrimonio teologico-spirituale delle sante icone, numerosi giovani e adulti, insegnando loro anche le antiche tecniche di questa millenaria arte sacra; una fornita “biblioteca” di oltre 17.000 testi, liturgici, teologici, patristici, storici.
Ogni sabato, alle ore 17,30, i monaci tengono la “Lectio divina” aperta a tutti colore che desiderano approfondire e conoscere la Divina Parola, così pure nei pomeriggi delle domeniche di Avvento e Quaresima.
Durante l’estate, inoltre, sono organizzate delle “settimane bibliche”.
Seconda l’antica tradizione monastica, è attivo anche uno “scriptorium” che ha pubblicato diversi testi sull’Abbazia e sul suo rifondatore, “l’abba san Giovanni”, e che settimanalmente pubblica una rivista intitolata “Legebam et ardebam” contenente meditazioni e approfondimenti sulle letture liturgiche domenicali.
E’ attiva infine, una foresteria per l’accoglienza di quanti vogliono trascorrere e condividere con i monaci l’esperienza della preghiera e della meditazione.
[Le informazioni sono tratte da una brochure edita dall’Abbazia]
Abbazia s. Maria di Pulsano
C.P. 150 – 71037 Monte Sant’Angelo (Foggia)
Monastero e foresteria tel. 0884.561047 – c.p.p. 12319729
e-mail:info@abbaziadipulsano.org
L’Abbazia di santa Maria di Pulsano su Wikipedia:
“Edificata nel 591, sui resti di un antico tempio oracolare pagano dedicato a Calcante, fu affidata ai monaci dell’ordine di Sant’Equizio. Poco note sono le vicende storiche fino al XII secolo, quando, nel 1129, l’intervento di San Giovanni da Matera e della sua Congregazione Pulsanense la fece risorgere dal grave stato di abbandono in cui versava, fondando l’ordine monastico autonomo dei poveri eremiti pulsanesi. Nel 1177 fu ultimata la costruzione della chiesa abbaziale dedicata alla Santa Madre di Dio, il cui altare, sotto il quale furono poste le spoglie di San Giovanni, abate morto nel 1139, fu consacrato dal papa Alessandro III, in pellegrinaggio sul Gargano. Al termine del XIV secolo, durante il pontificato del papa Martino V, l’Ordine Pulsanense si estinse e i superstiti passarono all’Ordine benedettino, rinunciando alla regola di San Giovanni abate. Nel XV secolo furono i Celestini a prendersi cura dell’Abbazia, tutelandola dalle pretese dei signori locali, L’abbazia fu comunque affidata ad un cardinale commendatario che l’amministrava da Roma. Tra i Celestini è da ricordare il monaco garganico Ludovico Giordani che da abate costruì due altari laterali nella chiesa Abbaziale di Pulsano, oggi distrutti, e il Monastero dei Celestini in Manfredonia. Nel 1646 fu danneggiata da un violento terremoto che travolse l’archivio e la biblioteca. In seguito furono i Celestini di Manfredonia a reggere Santa Maria di Pulsano sino all’emanazione delle leggi napoleoniche del 1806. Giuseppe Bonaparte soppresse definitivamente la presenza di un ordine monastico e autorizzò i fittuari dei beni a ritenere in enfiteusi i pagamenti. Nel 1842 il sacerdote montanaro Nicola Bisceglia riceve ufficialmente in enfiteusi dal Demanio il complesso del protomonastero pulsanense per “sottrarlo all’abbandono e agli atti vandalici dei pastori e pecorai”, ad eccezione della chiesa soggetta alla giurisdizione dell’Ordine diocesano. Nel 1966 è stata trafugata la pregevole e venerata icona della Madre di Dio di Pulsano, non ancora ritrovata, opera di quella scuola bizantino – italiana, detta dei “Ritardatari”, fiorita in Puglia nel XII secolo e nel XIII secolo. Finalmente nel 1997, grazie anche all’interessamento dell’arcivescovo Vincenzo D’Addario, la chiesa abbaziale è stata riaperta al culto pubblico e vi è stata fondata la comunità monastica di Pulsano, di diritto diocesano, birituale: latina e bizantina. Oggi, grazie anche al contributo e alla concreta collaborazione di numerosi cittadini, presenta una comunità attiva ed attenta alle esigenze spirituali del nostro tempo”.
In giro per Foggia in una “mitica” Fiat 500 d’epoca!
Nei giorni scorsi, a Foggia, ho avuto il piacere di salire a bordo di alcuni storici modelli di Fiat 500 di un tempo, perfettamente funzionanti e con sfavillanti carrozzerie.
L’opportunità mi è stata offerta da Luigi Nigri, “Gino” per gli amici, un brillante imprenditore edile foggiano, appassionato di auto storiche.
“Gino”, per la cronaca, è il marito della mia amatissima nipote Marialuisa, la figlia di una delle mie due sorelle.
Una Fiat 500 “Abarth” nera con tettuccio a scacchi bianchi del 1969;
Una Fiat 500 “Sport” bianca con fasce laterali rosse;
Una Fiat 500 “L” (lusso) bianca del 1971;
Una Fiat 500 “Giardiniera” rosso corallo del 1974 prodotta da Autobianchi (la denominazione originale è “Giardiniera” e non “Giardinetta” come invece soventemente definita).
Tutte le autovetture sono state sottoposte a completo “restyling” della carrozzeria, motore, rivestimenti e accessori, con pezzi originali ovvero attraverso la loro fedele ricostruzione.
Dei veri gioiellini!
Le auto sono regolarmente iscritte all’ASI (Automobilclub Storico Italiano) e partecipano ai vari “Raduni” nazionali.
Un tuffo nel passato … e, vuoi mettere, lo “sfizio” di circolare in città (a Foggia) … con una “Giardiniera rosso corallo” … sotto lo sguardo curioso, attento, incredulo ed anche divertito della gente che ti osserva!
La Storia della Fiat 500
[da Wikipedia, l’enciclopedia libera].
La “500” è una utilitaria della casa torinese FIAT, prodotta dal 1936 al 1955 nella prima versione, anche detta “Topolino”, e dal 1957 sino al 1975, nella seconda versione, anche detta “Nuova 500”.
Fiat Topolino (fonte: Wikipedia)
La Fiat 500 è senza dubbio fra le automobili italiane più famose.
Il 15 giugno 1936 viene messa in vendita la FIAT 500 A, poi soprannominata “Topolino”. Una vetturetta modesta per tecnica e prestazioni, il cui prezzo era di 8.900 lire: venti volte lo stipendio medio di un operaio specializzato. Tuttavia, la “Topolino” riuscirà ad ottenere un discreto successo, anche grazie alla “fame di automobili degli Italiani”. Infatti, nell’Italia del 1936 circolano solamente 222.000 automezzi (di ogni tipo, compresi quelli pubblici e militari) per oltre 42 milioni di abitanti. All’incirca, un veicolo ogni 200 persone. Un rapporto dieci volte inferiore a quello della Francia e quaranta volte inferiore a quello degli Stati Uniti nello stesso anno. La produzione della “500-Topolino”, con piccoli aggiornamenti nella 500B, continuò anche nel dopoguerra fino ad arrivare a 519.847 esemplari a cui si devono aggiungere i modelli fabbricati dalla licenziataria francese Simca 52.507 esemplari per un totale di 572. 354 esemplari. La “500 C” del 1949 era invece quello che chiameremmo oggi un “restyling” con nuovo motore a valvole in testa e un frontale diverso e ammodernato con i fari incassati nella carrozzeria. Sia della 500B che della 500C venne realizzata la versione familiare, denominata “giardiniera”, la prima delle quali aveva le fiancate rivestite in legno.
Nel secondo dopoguerra la FIAT era governata da Vittorio Valletta, cui era affidato il compito di motorizzare la nuova Italia repubblicana; ma se negli anni trenta il progetto “Topolino” era stato scarsamente innovativo, negli anni cinquanta era sicuramente superato. La diminuzione delle vendite ed il basso numero di vetture esportate, contribuì a far comprendere alla dirigenza aziendale la necessità di costruire una vettura più moderna ed economica.
Valletta, quindi, incaricò Dante Giacosa di realizzare la nuova vettura, compito arduo dato che l’azienda aveva disponibilità economiche veramente modeste, sia per i motivi già detti, sia per i bombardamenti che l’avevano pesantemente colpita. I tempi necessari per la progettazione e la messa in produzione del nuovo propulsore erano però incompatibili con l’urgenza aziendale di immettere un nuovo modello sul mercato, ragione per cui, mentre la progettazione della futura “500” proseguiva, Giacosa decise di utilizzare i medesimi schemi e linee base per realizzare un’automobile che potesse utilizzare una motorizzazione quadricilindrica, facilmente realizzabile sulla scorta dell’esperienza aziendale maturata con la produzione della “Topolino”.
Nacque così la “600”, un ibrido tra passato e futuro, che la Fiat mise in vendita nel 1955 ottenendo un immediato successo. Le esigenze dell’azienda vennero così soddisfatte, le catene di montaggio funzionavano a pieno ritmo e, finalmente, Giacosa poté dedicarsi con calma al motore della “Nuova 500”.
La vettura venne presentata in anteprima al Presidente del Consiglio, il democristiano Adone Zoli, nei giardini del Viminale il 1º luglio 1957; seguì, il 2 luglio un cocktail allo Sporting Club di Torino per i giornalisti specializzati per essere presentata al pubblico il 4 luglio 1957.
Il nome di Nuova 500 fu scelto per sottolineare la sua discendenza dalla 500 Topolino, arrivata alla versione “C” e uscita di produzione pochi anni prima. La velocità massima era di 85 km/h. Il prezzo di lancio 490.000 lire, piuttosto alto se paragonato a quello di della 600 superiore di appena 150.000 lire, che aveva quattro posti veri e non due più due di fortuna.
L’accoglienza del pubblico è tuttavia piuttosto tiepida rispetto alle previsioni, se non addirittura fredda. La nuova piccola vettura appare troppo spartana agli occhi dei più, ormai usi alla vista delle luccicanti cromature che adornano le altre automobili. Il cliente-tipo ipotizzato dall’azienda è il vecchio proprietario di Topolino e chi usa piccole motociclette per gli spostamenti quotidiani, tanto che nella parata inaugurale partita dagli stabilimenti Mirafiori le nuove 500 sfilano davanti a una Gilera Saturno del 1956 con marmitta Abarth, motocicletta assai famosa in quegli anni e di prezzo paragonabile.
Molti di questi vedono però di mal occhio i soli due posti e la giudicano troppo costosa rispetto alla sorella maggiore: meglio accantonare qualche soldo in più e acquistare la 600. Anche le prestazioni sono motivo di critica, il motore è poco elastico, la potenza modesta, la velocità massima un po’ troppo bassa, il motore bicilindrico vibra troppo ai bassi regimi ed è troppo rumoroso agli alti. Basterebbe forse poco di più per accontentare la clientela, e l’azienda corre ai ripari.
Nel settembre dello stesso anno esce una versione lievemente revisionata, con l’aggiunta alla lista degli optional delle coppe ruota cromate, ma non basta. Si pensa allora a un aggiornamento sostanzioso e si lavora sia sul motore sia sull’allestimento. Il primo viene rivisto nel carburatore (Weber 24IMB2) nella fasatura e nell’alzata delle valvole migliorandone l’erogazione ed elevandone la potenza alla soglia dei 15 cv a 4000 giri al minuto, il secondo si arricchisce di molti dettagli ritenuti irrinunciabili come le modanature cromate sulle fiancate e i finestrini discendenti. La velocità massima sale a 90 km/h.
A partire dal novembre 1957 la Nuova 500 viene quindi commercializzata in due versioni: Economica (quella della presentazione, venduta a 465.000 lire anziché 490.000) e Normale, l’allestimento migliorato descritto sopra, venduta a 490.000 lire. Caso unico nella storia dell’automobile, i proprietari delle Nuova 500 Economica vendute prima del lancio della Normale, ricevono la differenza di 25.000 lire tramite assegno e vengono invitati presso le Stazioni di Servizio autorizzate Fiat per l’aggiornamento gratuito del motore.
È importante osservare che la 500 economica non fu la prima 500 prodotta. Questo ruolo spetta alla cosiddetta prima serie che restò in produzione solo tre mesi: dal luglio 1957 al settembre 1957. Il nome ufficiale delle prima serie è Nuova 500; le serie successive conservano questo nome ma gli affiancano una denominazione esplicativa (Economica, Normale, America, Sport, Giardiniera D, Giardiniera F e Giardiniera Autobianchi, D, F, L, R; nelle varianti trasformabile e tetto apribile) quasi mai indicata sul corpo della vettura in modo chiaro ed inequivocabile.
Per questi motivi un esemplare originale della prima serie è oggi di eccezionale rarità.
La produzione dal 1971 avviene non solo a Torino ma anche a Desio nello stabilimento dell’Autobianchi per la 500 Giardiniera e in Sicilia a Termini Imerese in provincia di Palermo. In seguito viene spostata interamente nello stabilimento siciliano.
Esce di produzione il 1º agosto del 1975, dopo ben 18 anni dal lancio della prima serie del 1957; l’ultimo esemplare costruito porta il numero di telaio 5.231.518.
Naturalmente non bisogna dimenticare le “speciali”, ovvero le versioni costruite in piccola serie, destinate alla nascente categoria delle “automobiliste”, oppure ad esaudire una richiesta elitaria e, fino ad allora, inimmaginabile: la seconda macchina.
Menzione speciale meritano infine le versioni sportive allestite dai preparatori, in particolare Abarth e Giannini entrate subito nel mito e vittoriose in molte competizioni. Il massimo concorrente dell’Abarth per la personalizzazione della piccola di casa Fiat, fu senza dubbio il carrozziere romano Giannini.
Nel 1991 la Fiat lanciò una “nuova piccola utilitaria”, la Fiat Cinquecento, che fu prodotta fino al 1998.
Nel 2007 la Fiat ha immesso infine sul mercato una nuova 500, disegnata appositamente affinché lo stile ricordi molto la versione nata cinquant’anni prima.
Alla scoperta di una tradizione senza eguali: la Settimana Santa in Puglia.
A Poggio Imperiale la “Via Crucis Vivente”.
I riti e le tradizioni che caratterizzano la Settimana Santa in Puglia sono molto sentiti dalla popolazione adulta ma anche dalle nuove generazioni.
Prova ne è il fatto che la partecipazione agli eventi e alle manifestazioni religiose risulta sempre abbastanza nutrita.
Ogni borgo, ogni paese, ogni città della Puglia con i suoi riti, le sue tradizioni.
Forse la Settimana Santa di Taranto, soprattutto la due giorni di processioni, nella “città che cammina”, offre l’occasione per scoprire una tradizione senza eguali, una rappresentazione collettiva unica al mondo.
« In questi giorni a Taranto non si fa altro che camminare, dalla chiesa vecchia a quella nuova e ritorno; si cammina insieme, dietro e intorno alle Processioni: quella della notte del Giovedi Santo, l’Addolorata, e quella del Venerdi Santo, i Misteri.
Nessuno può farne a meno, soprattutto i “perdùne” , i confratelli, con il loro passo lento e scalzo, un incedere particolare cui viene dato il nome di “nazzecata”.
Sono ore di Passione, da inseguire, da vivere, da affogare nel perdono. E, a sua volta, da cercare, chiedere, concedere.
(…) Camminano nel dolore cullati dalle musiche per banda: marce funebri e lente nenie che servono a sopire gli animi, a domare le passioni.
La gente cammina con loro, i fratelli incappucciati: rapita dal rito del perdono o semplicemente curiosa di una tradizione che non ha eguali in Italia, o anche nel mondo, se è vero che solo Siviglia può contenderle la maestosità ».
[Dal Corriere del Mezzogiorno, Giovedi 1 Aprile 2010]
Seppure Taranto rappresenti il fiore all’occhiello della tradizione, non da meno sono da considerarsi le manifestazioni religiose che hanno luogo durante la Settimana Santa nelle altre località pugliesi.
Magari meno frenetiche, ma altrettanto intense e cariche di significato.
Pure in terra di Capitanata e nel Gargano i riti della Settimana Santa sono molto sentiti.
Famoso, ad esempio, il rito delle “Fracchie” di San Marco in Lamis: enormi tronchi di alberi aperti a listelli e colmi di legna da ardere, dalla forma di cunei, tipo cornucopie, montati su strutture munite di ruote, ai quali viene dato fuoco durante la processione della sera del Venerdi Santo.
Poggio Imperiale ha voluto anche quest’anno riproporre la “Via Crucis Vivente”, interpretata da una trentina di figuranti in costume d’epoca, richiamandosi alle antiche tradizioni di fede dei “poggioimperialesi”.
Si è svolta mercoledi 31 marzo 2010, poiché la programmazione di sabato 27 marzo è stata sospesa a causa della pioggia che non ne ha consentito il proseguimento fino alla sua conclusione.
L’evento ha avuto inizio verso le ore 19,00, al termine della Santa Messa , nell’area adiacente all’antica Chiesa del Sacro Cuore, che rappresenta un suggestivo scorcio panoramico del centro storico del paese, dove è stato inscenato il processo “romano” di fronte a Pilato, culminato con la condanna a morte mediante crocifissione del Nazareno.
La “Via Crucis” (propriamente “via della croce”) si è poi dispiegata lungo la centralissima via Vittorio Veneto, svoltando per la vecchia via “del pozzo”, fino a giungere all’altezza dell’antico sito della “seggiulètte”, luogo in cui si è consumato l’epilogo della Crocifissione di Cristo.
Le scene delle “stazioni”, che rappresentano i diversi momenti della “Passione”, rinnovando l’itineriario ovvero la via della passione medesima, sono state magistralmente interpretate dai protagonisti e dalle comparse della “drammatizzazione”, generando momenti di vera commozione tra la folla dei partecipanti in sommessa meditazione e preghiere penitenziali.
Tra le altre, due le scene fondamentali: la prima focalizzata sul processo a Gesù e l’altra – la vera scena madre – quella finale riguardante la sua crocifissione, morte e risurrezione.
Il processo
Dinanzi al Governatore romano Ponzio Pilato due avvocati, uno per l’accusa, l’altro per la difesa, hanno sostenuto le rispettive tesi di colpevolezza e d’innocenza con arringhe i cui testi sono stati liberamente tratti dai brani biblici.
L’epilogo
La crocifissione e la morte di Cristo è risultata di grande effetto grazie anche alla bravura dell’interprete oltre che agli effetti di luci e suoni e dello scenario naturale ove la rappresentazione si è svolta.
Una collinetta, un muretto a secco in pietra naturale, alberi di ulivi secolari e tre croci; su quella centrale il Cristo.
Le altre cerimonie religiose della Settimana Santa a Poggio Imperiale:
Giovedi Santo 1 aprile 2010, alle ore 18,00, è stata celebrata presso la Parrocchia San Placido Martire la Santa Messa “in Coena Domini” dell’istituzione del Sacramento dell’Eucaristia con lavanda dei piedi.
Venerdi Santo 2 aprile 2010, la mattina, prestissimo, alle ore 5,30, si è svolta per le strade del paese la Processione della statua di Gesù che porta la croce, portata a spalle da Confratelli incappucciati, in partenza dalla Chiesa Parrocchiale, e la Processione della statua della Madonna Addolorata anch’essa portata a spalle, da sole donne, in partenza dalla Chiesa del Sacro Cuore.
Il suggestivo incontro tra Madre e Figlio, con il conseguente “intreccio” delle due Processioni , è avvenuto in piazza Imperiale, ove il parroco ha tenuto il consueto discorso di rito.
Sono seguite le celebrazioni delle “Lodi” nella Chiesa Parrocchiale, dove sono confluite le due statue con i loro rispettivi seguiti.
Alle ore 18,30 dello stesso giorno, l’Azione Liturgica “in morte Domini” con lettura del Vangelo della Passione e, alle ore 19,30, la Processione serale con le statue di Gesù Morto e della Madonna Addolorata, in partenza dalla Chiesa Parrocchiale, in un unico corteo, fino alla Chiesa del Sacro Cuore.
Sabato Santo 3 aprile 2010, Veglia pasquale e Santa Messa alle ore 23,00 presso la Chiesa Parrocchiale.
Domenica 4 aprile 2010: Solenne celebrazione della Santa Pasqua di Risurrezione , alle ore 11,00 presso la Chiesa Parrocchiale.
Il “Buon Vento”
A 107 anni la “nonna di Poggio Imperiale” mette a dimora uno degli alberi piantati in suo onore.
Sabato scorso 20 marzo 2010, si è conclusa a Poggio Imperiale la seconda fase dell’originale evento denominato “Buon Vento”, iniziato nel mese di dicembre del passato 2009.
La prima fase della manifestazione, battezzata “Natale con Alberi Vivi”, si è svolta in prossimità delle festività natalizie, allorchè l’Amministrazione Comunale consegnò a tutti gli esercizi commerciali del paese cinquanta alberi (del tipo Cedro Deodara, Cedro Atlantica, Tuya e Abete), che vennero riccamente addobbati a cura dei titolari dei medesimi esercizi.
La seconda fase, battezzata “Piantiamo Alberi” si è tenuta invece sabato 20 Marzo, giorno della “Festa dell’Albero”, ed è stata caratterizzata dalla messa a dimora degli stessi cinquanta alberi, da parte degli alunni delle scuole elementari e medie di Poggio Imperiale.
Il “Buon Vento” è un progetto promosso dall’Assessorato alle Politiche Giovanili e alla Cultura, ed “adottato” e finanziato dall’International Power, la multinazionale inglese che ha realizzato e gestisce il “Parco Eolico” di Poggio Imperiale1.
Il Parco Eolico o Wind Farm (fattoria del vento); il “Buon Vento” che con la sua forza consente di produrre energia elettrica “pulita”.
Numerosa la presenza di giovani e giovanissimi con i loro genitori alla manifestazione, che si è svolta presso la Scuola Media, dove sono state lette poesie dedicate agli alberi scritte dagli alunni.
Presente anche il Comandante della Stazione del Corpo Forestale di Sannicandro Garganico, il parroco Don Luca De Rosa, il sindaco Dott. Rocco Lentinio con tutta l’amministrazione comunale, le associazioni operanti sul territorio, Caritas, Avis, Associazione Carabinieri in congedo, Libertas, ecc.
Nell’occasione, é stata festeggiata anche la “Nonna di Poggio Imperiale”, Maria Giuseppa Robucci, nata il 20 marzo 1903, arrivata alla Scuola Media a bordo di una fiammante Alfa Romeo Spider decappottabile rossa, ed accolta , tra applausi e fuochi pirotecnici, dalle ragazze pon pon, dagli sbandieratori e dal coro degli alunni che hanno intonato un coinvolgente “Tanti auguri … a te”.
Durante la manifestazione la festeggiata ha ricevuto, a sorpresa, la visita dell’altro Nonno di Poggio Imperiale”, Giuseppe Nista, che il giorno 8 del prossimo mese di aprile compirà ben 101 anni.
L’incontro fra i due concittadini ultracentenari ha rappresentato un momento di forte commozione che ha toccato il cuore di tutti i presenti.
Ma la vera sorpresa l’ha fatta proprio Nonna Maria Giuseppa, quando ha voluto usare da sola il badile per coprire con la terra uno degli alberi piantati in suo onore.
Poi il classico taglio della torta, dopo lo spegnimento di 107 candeline, e il gradito omaggio floreale di ben 107 rose offerto dall’Amministrazione Comunale.
Sette anni fa, allo scoccare dei 100 anni, Nonna Maria Giuseppe fu festeggiata con la presenza in paese di inviati della trasmissione televisiva “La vita in diretta” di Rai 1.
I cinquanta alberi sono stati piantumati nelle aree pubbliche del paese, fra le quali la Scuola Media; alcuni altri verranno messi a dimora prossimamente nella piazzetta in via Di Vittorio, dove sarà eretto un monumento in memoria delle tre vittime poggioimperialesi dei lager nazisti: Verzino, Braccia e Zangardi.
Un albero … quante riflessioni!
1 Il Parco Eolico di Poggio Imperiale è stato ufficialmente inaugurato il 27 giugno 2009. L’impianto è costituito da 15 aerogeneratori Vestas V80 da 2 MW ciascuno. Un parco eolico o wind farm (fattoria del vento) è un insieme di aerogeneratori (torri o pale eoliche) localizzati in un territorio delimitato e interconnessi tra loro che producono energia elettrica sfruttando la forza del vento. La generazione di energia elettrica varia in funzione del vento e della capacità generativa degli aerogeneratori. In un parco eolico le singole turbine sono interconnesse tra loro con una linea di collegamento a medio voltaggio (generalmente 34,5 kV) e con un sistema di comunicazione (per il cosiddetto remote monitoring). La energia a medio voltaggio viene poi convertita in alto voltaggio tramite un trasformatore in una sottostazione ed immessa nella rete elettrica.
Ancora … sullo YAD VASHEM di Gerusalemme!
Il 21/10/2088 ho pubblicato su questo mio stesso sito www.paginedipoggio.com => Blog “Come la penso io!” l’articolo dal titolo “YAD VASHEM IL MUSEO DELL’OLOCAUSTO DI GERUSALEMME: la didascalia contestata”, per parlare delle emozioni che avevo provato l’anno prima, in occasione della visita al Museo con mia moglie.
L’articolo risulta essere stato “linkato” oltre 1000 volte e diversi sono i “commenti” pervenuti.
Riporto qui di seguito, per gli interessati che avessero voglia di approfondire poi l’argomento sul sito internet http://www.vaticanfiles.splinder.com, il “commento” inviato dal Prof. Matteo Luigi Napolitano il giorno 8/2/2010:
« Ho avuto l’onore di far parte della delegazione vaticana, incaricata di una missione scientifica a Yad Va-shem, preparatoria della visita del Santo Padre. L’8 e 9 marzo 2009 abbiamo discusso a porte chiuse della questione di Pio XII e della didascalia. I nostri lavori di "commissione mista" Vaticano-Yad Va-shem saranno resi noti quest’anno, con un volume di atti di quella conferenza (che doveva restare segreta ma di cui si seppe presto; come si può vedere anche su You Tube). Posso assicurare che i lavori si sono svolti in un clima di grande dialogo e di comprensione, e che la didascalia in questione, per come è formulata, anche a Yad Va-shem non è condivisa da molti. Sulla didascalia ho fatto uno studio approfondito che si potrà leggere su vaticanfiles.splinder.com. Matteo Luigi Napolitano».
Sul Prof. Matteo Luigi Napolitano
[Dal sito internet: http://www.vatican.va]:
Il 23 agosto 2005 il Prof. Matteo Luigi Napolitano è stato nominato delegato del Pontificio Comitato di Scienze Storiche presso l’International Committee for the History of the Second World War, in sostituzione di P. Pierre Blet che ha lasciato la carica per sopraggiunti limiti di età.
Matteo Luigi Napolitano, nato nel 1962 a S. Severo (Foggia), insegna Storia delle Relazioni internazionali all’Università degli Studi del Molise. È autore dei volumi "Mussolini e la Conferenza di Locarno" (Urbino, 1996), "Un ponte tra Vangelo e cultura" (con Ornella di Pumpo, Roma, 1998), "Pio XII tra guerra e pace" (Roma, 2002), "Il Papa che salvò gli Ebrei" (con Andrea Tornielli, Casale Monferrato, 2004), "Angelo Giuseppe Roncalli/Giovanni XXIII" (Milano 2004), "Pacelli Roncalli e i battesimi della Shoah" (con Andrea Tornielli, Casale Monferrato, 2005). Ha pubblicato diversi saggi di storia diplomatica e delle relazioni internazionali, fra i quali "Reassessing Italy’s Postwar Choices" (1995), "Trieste 1948: un problema diplomatico e nazionale"(1998), "Pio e il XII e il Nazismo" (2001), "La Santa Sede e la Germania nazista" (2003). Si occupa di storia della diplomazia vaticana, di relazioni euro-atlantiche e di documentazione sul nazismo e sulla Guerra fredda. Collabora con la rivista "La Civiltà Cattolica".
[Dal sitio internet: http://polistampa.com]:
(…) Dirige la collana «Officine di Storia europea» dell’Istituto Poligrafico dello Stato, per la quale ha curato il volume Le possibili Europe. Storia, diritti, conflitti (2009) e Diplomazia delle risorse. Le materie prime e il sistema internazionale nel Novecento (con Massimiliano Guderzo, 2004). Ha pubblicato, inoltre, diversi saggi di storia diplomatica e delle relazioni internazionali.
Opere a cura di Matteo Luigi Napolitano su LeonardoLibri:
Diplomazia delle risorse. Le materie prime e il sistema internazionale nel Novecento. a cura di Massimiliano Guderzo, Matteo Luigi Napolitano. © Polistampa 2004, cm 17×24, pp. 596, br., € 28,00
L’America Latina tra guerra fredda e globalizzazione. a cura di Massimiliano Cricco, Maria Eleonora Guasconi, Matteo Luigi Napolitano. © Polistampa 2010, cm 17×24, pp. 168, br., € 14,00
Le “foibe”: quel genocidio di italiani dimenticato!
Anche a Poggio Imperiale il “Giorno del Ricordo” … per non dimenticare.
Le vittime dello sterminio di massa non hanno colore politico!
In memoria delle vittime delle “foibe” (1) e dell’esodo dalle loro terre di istriani, fiumani e dalmati, un tempo cittadini italiani, si celebra in Italia il 10 febbraio di ogni anno il “Giorno del Ricordo”, istituito con la legge n. 92 del 30 marzo 2004.
Il “Giorno del Ricordo”
presso la Biblioteca Multimediale
di Poggio Imperiale
La legge segna un mutamento di atteggiamento da parte della comunità nazionale nei confronti delle vittime e degli esuli di quei tragici eventi della nostra storia patria.
Questo il testo della legge:
« La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del Ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. Nella giornata […] sono previste iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado. È altresì favorita, da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende. Tali iniziative sono, inoltre, volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell’Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all’estero ».
Un segnale di grande civiltà.
Con la legge n. 211 del 20 luglio 2000, l’Italia aveva istituito il “Giorno della Memoria”, aderendo in tal modo alla proposta internazionale di dichiarare il 27 gennaio come giornata in commemorazione delle vittime del nazismo e dell’Olocausto e in onore di coloro che a rischio della propria vita hanno protetto i perseguitati.
Il testo dell’articolo 1 della legge così ne definisce le finalità:
« La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati ».
Il “Giorno del Ricordo”
presso la Biblioteca Multimediale
di Poggio Imperiale
E, quindi, anche a Poggio Imperiale, dopo il “Giorno della Memoria”, con l’interessante Mostra Bibliografica sulla Shoah e la commemorazione di tre suoi concittadini morti nel Lager nazisti – di cui ho avuto già modo di parlare nell’articolo “Tre le vittime di Poggio Imperiale nei Lager nazisti!”, pubblicato su questo stesso sito il giorno 7 febbraio 2010 – sabato 27 febbraio 2010, presso la locale “Biblioteca Multimediale”, è stato celebrato il “Giorno del Ricordo”.
Nel corso della cerimonia sono state lette testimonianze dei familiari delle vittime delle “foibe” e proiettati alcuni video.
Nell’occasione è stato ricordato il Sotto Brigadiere di terra della Regia Finanza Vincenzo De Ninno, nativo della vicina cittadina di Lesina ed in servizio a Trieste (2), barbaramente trucidato e infoibato dai partigiani titini (3) ai primi di maggio del 1945.
L’iniziativa, patrocinata dal Comune di Poggio Imperiale, è stata organizzata dall’Assessore alla Cultura Antonio Mazzarella unitamente agli “Amici della Biblioteca”.
Alla commemorazione era presente l’Assessore alla Cultura di Lesina, rappresentanti dell’A.N.F.I. (Associazione Nazionale Finanzieri Italiana) e il parroco di Poggio Imperiale don Luca De Rosa.
Lo scorso anno, proprio nella ricorrenza del “Giorno del Ricordo”, il comune di Lesina ha intitolato una piazza al suo compianto concittadino, al quale è stata intitolata anche la Sezione A.N.F.I. lesinese, che annovera tra gli iscritti pure “finanzieri” di Poggio Imperiali in servizio e in pensione.
Il Sotto Brigadiere di terra della Regia Finanza Vincenzo De Ninno
NOTE:
(1) Foibe: Cavità naturali presenti nel Carso, tra l’Istria e Trieste.
(2) La tragedia che si è consumata ha riguardato migliaia di cittadini triestini, soldati ed appartenenti alle forze di Polizia, fra i quali circa 350 Finanzieri che prestavano servizio a Trieste e nell’Istria, compresi i 97 Finanzieri prelevati dalla Caserma di Via Campo Marzio (fra questi vi era anche Vincenzo De Ninno); il 2 maggio 1945 tutti impietosamente trucidati nelle foibe per il solo motivo, come a suo tempo precisò il Presidente della Repubblica On. Scalfaro, “che molte delle persone eliminate erano colpevoli soltanto di essere italiane”.
(3) Partigiani titini: Molte delle vittime italiane barbaramente trucidate e infoibate non erano affatto militanti fascisti; erano normalissime e pacifiche persone che dimoravano negli ex territori della Jugoslavia un tempo italiani, ma anche a Trieste e località limitrofe. La caccia all’italiano faceva parte della strategia di Tito (il maresciallo Tito era il Presidente della Jugoslavia), che voleva annettersi anche Trieste ed altre zone del Friuli. I partigiani titini (da Tito), appoggiati dai partigiani comunisti italiani, effettuarono vere e proprie incursioni armate contro popolazioni inermi. E, poi, un colpo alla nuca, e giù nelle foibe. Almeno diecimila persone, negli anni drammatici a cavallo del 1945, sono state torturate e uccise dagli jugoslavi a Trieste e nell’Istria. Il 10 febbraio è il giorno che l’Italia dedica alla memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle “foibe” e dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione della “Giornata del Ricordo” del 2007, ha detto che “va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle “foibe”, ma egualmente l’odissea dell’esodo e del dolore e della fatica che costò a fiumani, istriani e dalmati ricostruirsi una vita nell’Italia tornata libera e indipendente ma umiliata e mutilata nella sua regione orientale. E va ricordata (…) la congiura del silenzio, la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio”.
La partita di rugby che ha consacrato il Sud Africa libero
In questi giorni è in programmazione in molte sale cinematografiche del modo l’ultima opera di Clint Eastwood in veste di Regista e Produttore: il film “Invictus”.
Anch’io non ho voluto perdere l’occasione di assistere alla … “partita di rugby che ha consacrato il Sud Africa libero”: oltre due ore di intenso spettacolo che tocca la profondità dell’anima.
Il film originariamente intitolato “The Human Factor” è stato ribattezzato “Invictus”, una parola latina che significa “Invincibile”, e che si riferisce ad un poema spesso recitato da Mandela, composto da William Ernest Henley nel 1875.
“Sotto i colpi d’ascia della sorte,
il mio capo sanguina, ma non si china.
Non importa quanto sia stretta la porta,
quanto piena di castighi la vita.
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima”.
(William Ernest Henley)
Clint Eastwood , Regista, ormai da tempo persegue con il suo cinema una ricerca nel profondo degli elementi che possono provare a conciliare gli opposti, senza che nessuno perda la propria identità.
E questo film racconta giustappunto di un popolo che ha sorpreso il mondo costruendo una nazione sui diritti e non sulla vendetta, grazie al suo Presidente, Nelson Mandela, che ha saputo serenamente ispirarli nonostante i 27 anni di carcere duro trascorsi a “Robben Island”.
L’ex detenuto matricola n. 46664 parla di … “sorprenderli con la generosità; comprensione; io so cosa i bianchi ci hanno tolto ma questo è il momento di costruire una nazione”.
La finale della Coppa del Mondo del 1995 è stata, per molta gente, solo un’emozionante partita di rugby, ma per il Sud Africa ha rappresentato un momento cruciale della storia del Paese, un’esperienza condivisa che ha aiutato a sanare le ferite del passato e a infondere speranza per il futuro.
L’artefice di questo evento epocale è stato il Presidente Nelson Mandela e i protagonisti i giocatori della squadra sudafricana di rugby, gli “Springboks”, guidati dal loro capitano.
Nelson Mandela è il Presidente appena eletto del Sud Africa. Il suo intento primario è quello di avviare un processo di riconciliazione nazionale. Per far ciò si deve scontrare con forti resistenze sia dalla parte dei bianchi che da quella dei neri.
Ma “Madiba”, come lo chiamano affettuosamente e rispettosamente i suoi più stretti collaboratori, non intende demordere. C’è uno sport molto diffuso nel Paese: il rugby e c’è una squadra, gli “Springboks”, che catalizza l’attenzione di tutti, sia che si interessino di sport sia che non se ne occupino.
In generale nel Paese il gioco del rugby, amato dai bianchi, è odiato dai neri che preferiscono il gioco del calcio. Nei sobborghi di Johannesburg si dice che … “il calcio è uno sport da signorine giocato da duri, mentre il rugby è uno sport da duri giocato da signorine”.
E, quindi, poichè gli “Springboks”, squadra formata da tutti bianchi con un solo giocatore nero, sono uno dei simboli dell’apartheid, Mandela decide di puntare proprio su di loro in vista dei Mondiali di rugby che stanno per giocare in Sud Africa nel 1995.
Il suo punto di riferimento per riuscire nell’operazione di riunire la Nazione intorno alla squadra è il suo capitano François Pienaar, interpretato nel film dall’attore Matt Damon.
Da alcune dichiarazioni di Clint Eastwood: “La storia si svolge in un momento cruciale della presidenza di Mandela. Penso che abbia dimostrato grande saggezza nel comprendere lo sport nello sforzo di riconciliazione del Paese. Sapeva che bisognava unire tutti, trovare un modo per fare appello all’orgoglio nazionale, agendo sull’unica cosa che allora avevano in comune. Sapeva che la popolazione bianca e la popolazione nera avrebbero dovuto lavorare come una squadra o il Paese sarebbe fallito, così come ha mostrato grande creatività nell’usare lo sport come mezzo per raggiungere un fine (…). Non avrei girato il film in nessun altro posto che non fosse il Sud Africa. Devi stare lì, hai bisogno della gente, hai bisogno dei luoghi. Volevamo questa autenticità. La maggior parte del cast e delle nostre comparse sono sudafricani. In Sud Africa hanno anche un buon settore cinematografico, quindi abbiamo creato un bel gruppo di americani e sudafricani anche dal punto di vista tecnico (…). Quando siamo andati a Robben Island, siamo stati colpiti dalla ristrettezza degli spazi. E passare lì dentro 27 anni, forse i migliori della tua vita, e uscirne senza rancore è un’impresa”.
Ciò che Clint Eastwood racconta nel film non è frutto della fantasia di uno sceneggiatore, ma trae origine dai fatti narrati nel libro di John Carlin “Playing the Enemy: Nelson Mandela and the Game That Made a Nation”.
Eastwood ne trae un film, assolutamente classico, dal quale traspare, attraverso Morgan Freeman (l’attore che interpreta Mandela) la sua profonda ammirazione per Nelson Mandela.
Un ottimo film: Clint Eastwood, l’attore che interpretava il cowboy preferito Sergio Leone con sigaro, cappello e poncho sulle spalle, sta dimostrando di essere un altrettanto bravo regista.
“Il Cinema deve essere spettacolo,
è questo che il pubblico vuole.
E per me lo spettacolo più bello è quello del Mito”.
(Sergio Leone)
Nota
Alcune parti del testo sono tratte da recensioni di:
“Europa * Cinemas” – Fice (Federazione italiana cinema d’essai)
A Padova il “corpo” di sant’Antonio ricompare in mezzo a noi.
Nella tarda serata di sabato 20 febbraio 2010 si è conclusa a Padova l’ostensione dei resti mortali di sant’Antonio, ora nuovamente ricollocati sotto l’altare della cappella dell’Arca, appena restaurata, nella Pontificia Basilica del Santo.
Nei sei giorni di ostensione, centocinquantamila sono stati i visitatori giunti da ogni parte del mondo che, in paziente attesa anche sotto la pioggia, in una lunga coda, hanno voluto vedere e venerare le sacre spoglie.
Pellegrini in visita alle spoglie del Santo
E’ la quarta volta – in otto secoli – che sant’Antonio si mostra ai suoi fedeli; un evento dunque eccezionale e carico di significati, tale da attirare migliaia di pellegrini fin dalle prime luci dell’alba.
Il Papa Benedetto XVI non ha fatto mancare il segno della sua vicinanza inviando un telegramma al superiore del Convento, auspicando che “questo provvido evento, riproponendo il luminoso esempio del sacerdote francescano tanto popolare, che affascinò generazioni di fedeli (…) susciti rinnovati propositi di amore a Cristo e ai fratelli, come pure un generoso impegno per la giustizia e la pace”.
Anch’io con mia moglie e le mie cognate abbiamo voluto rendere omaggio al Santo nella giornata di venerdi 19 febbrario. La giornata piovosa e particolarmente fredda non ci ha affatto scoraggiati. Abbiamo raggiunto Padova in treno partendo da Milano Centrale di buon mattino.
L’ostensione del corpo del Santo è coincisa con la festa liturgica della Traslazione di Sant’Antonio detta anche “Festa della Lingua”, che si celebra ogni anno in Basilica il 15 febbraio, a ricordo della prima traslazione avvenuta l’8 aprile 1263 ad opera di San Bonaventura, che ritrovò in quell’occasione la Lingua “incorrotta” di frate Antonio, e di quella del 15 febbraio 1350, quando la tomba del Santo ebbe la sua definitiva sistemazione nell’attuale Cappella dell’Arca all’interno della Basilica.
La lunga fila in attesa della visita
I pellegrini e i devoti del Santo hanno ora potuto rivedere il corpo di Sant’Antonio, ricomposto e visibile in un’urna di vetro, dopo 29 anni dall’ultima “ricognizione” canonica e medico-scientifica avvenuta nel gennaio 1981, a 750 anni dalla morte del Santo, cui seguì una memorabile ostensione, che si prolungò fino al 1° marzo 1981. In quella occasione affluirono in Basilica circa 650mila pellegrini.
Il teschio del Santo lascia immaginare zigomi alti, mento sporgente ed occhi infossati, mentre lo scheletro rivela (secondo gli studi anatomici del Prof. Meneghelli) una statura di un metro e settanta centimetri, molto alta per l’epoca.
Al termine dell’ostensione, durata sei giorni, da lunedi 15 a sabato 20 febbraio 2010, il corpo di Sant’Antonio è ritornato nella Cappella dell’Arca, che ora risplende in tutta la sua bellezza, dopo i lunghi e complessi lavori di restauro iniziato il 12 aprile 2008, con il trasferimento temporaneo dell’urna nella Cappella di San Giacomo, e conclusi lo scorso 4 dicembre 2009.
Già domenica sera 14 febbraio, alle 21, c’era stata una cerimonia durante la quale è stata aperta la cassa che conteneva l’urna di cristallo con le reliquie del santo.
L’urna è stata poi trasportata nella Cappella delle reliquie, dove sono conservate le teche con il mento e la lingua di Antonio.
Durante l’ostensione la Basilica è rimasta aperta dalle 6,20 alle 19 e sabato fino alle 19,45.
Un po’ di storia
Sant’Antonio di Padova, (in portoghese Santo António de Lisboa), nato Fernando Martim de Bulhões e Taveira Azevedo, (Lisbona, 15 agosto 1195 – Padova, 13 giugno 1231), è stato un francescano portoghese, canonizzato dalla Chiesa cattolica e, più recentemente, proclamato Dottore della Chiesa.
Da principio monaco agostiniano a Coimbra dal 1210, poi dal 1220 frate francescano. Viaggiò molto, vivendo prima in Portogallo quindi in Italia ed in Francia.
Nel 1221 si recò al Capitolo Generale ad Assisi, dove vide di persona San Francesco d’Assisi. Dotato di grande umiltà ma anche grande sapienza e cultura. Per le sue valenti doti di predicatore, mostrate per la prima volta a Forlì nel 1222, fu incaricato dell’insegnamento della teologia e inviato per questo dallo stesso San Francesco a contrastare la diffusione dell’eresia càtara (1) in Francia. Fu poi trasferito a Bologna e quindi a Padova. Morì all’età di 36 anni.
È notoriamente e popolarmente considerato un grande Santo, anche perché di lui si narrano grandi prodigi miracolosi, sin dai primissimi tempi dalla sua morte e fino ai nostri giorni. Tali eventi prodigiosi furono di tale intensità e natura che facilitarono la sua rapida canonizzazione e la diffusione mondiale della sua devozione.
La Chiesa nella persona del Papa Gregorio IX, in considerazione della mole di miracoli attribuitagli, lo canonizzò dopo solo un anno dalla morte (1232).
Nel 1946, il Papa Pio XII ha innalzato sant’Antonio tra i Dottori della Chiesa cattolica, conferendogli il titolo di Doctor Evangelicus, in quanto nei suoi scritti e nelle prediche che ci sono giunte era solito sostenere le sue affermazioni con citazioni del Vangelo.
Al Santo fu dedicata la grande Basilica Pontificia di Padova e la sua festa cade il 13 giugno, giorno della sua morte.
(1) Con la definizione di càtari, detti anche albigesi (dal nome della cittadina francese di Albi), furono designate le persone coinvolte nel sostegno culturale o religioso del movimento ereticale sorto intorno al XII secolo. Le dottrine càtare vennero condannate come eretiche dalla Chiesa romana, prima ancora che essa, dopo il Concilio di Trento potesse definirsi Chiesa cattolica. Per debellare l’eresia càtara fu appositamente creato da papa Gregorio IX il Tribunale dell’Inquisizione, che impiegò settant’anni ad estirpare il catarismo dal sud della Francia.
Nota: Le foto sono tratte da: Il mattino di Padova (18 febbraio 2010) http://mattinopadova.gelocal.it/multimedia/home/23094224/1
Tre le vittime di Poggio Imperiale nei LAGER nazisti!
Ernesto Braccia, Nicola Verzino e Giuseppe Zangardi
Poggio Imperiale ha voluto commemorare quest’anno i suoi tre concittadini morti nei LAGER nazisti e, più precisamente, nei campi di concentramento e di prigionia di Dachau, Gross Lubars e Kaiserslauter, in Germania.
Un evento che ha avuto luogo domenica 31 gennaio scorso presso la Biblioteca Multimediale, a conclusione di una Mostra Bibliografica sulla SHOAH allestita presso la medesima Biblioteca dal 27 al 31 gennaio, in occasione della giornata della Memoria che ricorre il giorno 27 di gennaio.
La Mostra ha registrato notevole affluenza di visitatori ed anche il circuito delle visite riservate alle scolaresche è risultato di particolare interesse.
Visite delle scolaresche alla Mostra Bibliografica della Shoah
E’ importante che anche le nuove generazioni abbiano conoscenza di quanto è avvento … perché ciò non abbia mai più a ripetersi!
“Poggio Imperiale – Dachau 65 anni dopo”
Commemorazione dei concittadini deportati e morti nei lager nazisti
Questo il tema che ha fatto da sfondo alla cerimonia di commemorazione, presieduta dal Sindaco, con l’intervento dell’Assessore alla cultura e la testimonianza di alcuni reduci del secondo conflitto mondiale.
La cittadinanza è intervenuta numerosa.
Si riporta, qui di seguito, l’articolo pubblicato dalla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 4 febbraio 2010, concernente la manifestazione.
La pagina della “Gazzetta del Mezzogiorno” del 4 febbraio 2010
Si trascrive integralmente il testo dell’articolo.
« Ernesto, Nicola e Giuseppe uccisi dai nazisti. Poggio Imperiale ricorda le sue vittime nei campi di concentramento. Uno a casa non è più tornato. Gli altri due sono tornati nel paese natìo anni dopo la morte. E per la prima volta il paese che ha dato loro i natali, Poggio Imperiale, li ha voluti ricordare tutti e tre, in occasione della giornata della Memoria. La cerimonia domenica scorsa, nella biblioteca multimediale. Il ricordo, quello delle tre vittime terranovesi [anche così chiamati i poggioimperialesi] in campi di prigionia o di concentramento. Le storie di Ernesto Braccia, Nicola Verzino e Giuseppe Zangardi, tutti catturati dai tedeschi dopo la firma dell’armistizio, l’8 settembre 1943, sono state ricostruite da Antonio Mazzarella, assessore alla cultura e appassionato di storia locale, incrociando i dati ufficiali, le testimonianze orali e i ricordi delle famiglie. Ernesto Braccia nacque nel 1909 e morì il 31 gennaio del 1945 nel campo di concentramento di Gross Lubars, in Germania. Qualche elemento in più si conosce sulla vita di Nicola Verzino, nato nel 1925, morto il 27 luglio del 1945 nel campo di prigionia di Kaiserslauter, sempre in Germania. Verzino era un carabiniere e fu catturato in Francia. Fu facilmente individuato perché non volle liberarsi della divisa da carabiniere, che lo avrebbe reso facilmente riconoscibile. Sembra sia morto di stenti nel campo di prigionia. Anche Giuseppe Zangardi morì nel 1945, in uno dei campi di morte più tristemente noti nell’epopea dell’Olocausto, quello di Dachau. Sul braccio gli avevano tatuato il numero 54397. La sua morte sei settimane prima che il campo venisse liberato dalla 45esima divisione di fanteria dell’esercito americano. Diverse le sorti delle spoglie dei tre terra novesi dopo la loro morte. Ernesto Braccia e Nicola Verzino furono sepolti in fosse singole, i loro corpi quindi furono recuperati e tornarono a Poggio Imperiale il primo nel 1995, il secondo nel 1958. Il corpo di Giuseppe Zangardi invece fu tumulato in una fossa comune, e i resti mai ritrovati. Mazzarella ha incrociato le storie dei tre deportati durante la stesura del testo, “L’album dei ricordi di Poggio Imperiale narrato dalle immagini”, scritto con Giovanni Saitto. “Nello scrivere il libro, nel 2006 – spiega – e nel ricordare i nostri morti, in tutte le guerre, abbiamo fatto ricerche più dettagliate proprio sui tre deportati e quest’anno abbiamo voluto dedicare loro un ricordo più sentito, per farli conoscere anche ai più giovani”. Un ricordo che non si fermerà alla giornata della Memoria, poiché l’assessore ha annunciato che l’amministrazione comunale intitolerà ai tre deportati una piazzetta e nei prossimi mesi una delegazione si recherà a Dachau per deporre una lapide in pietra con il nome del terra novese che non è più tornato a casa [Ste. Lab.]».
Un momento della commemorazione del 31 gennaio 2010
In primo piano l’Assessore alla cultura ed il Sindaco sullo sfondo
La manifestazione è stata organizzata dall’Assessorato alla Cultura in collaborazione con gli amici della Biblioteca Comunale di Poggio Imperiale.
Il Giorno della Memoria … per non dimenticare … mai!
Il 21.10.2008 ho pubblicato su questo mio stesso sito www.paginedipoggio.com => (Blog: Come la penso io! ), nella sezione “Viaggi”, un articolo dal titolo: «YAD VASHEM IL MUSEO DELL’OLOCAUSTO: la didascalia contestata ».
L’articolo risulta, ad oggi, linkato ben 926 volte: è segno che ha destato interesse.
Quella sintesi di viaggio aveva l’intento di partecipare anche ad altri le emozioni provate nel corso della visita che io e mia moglie avevamo fatto nella primavera del 2007 allo Yad Vashem di Gerusalemme.
Dicevo, allora, che “Lo Yad Vashem è il memoriale dei sei milioni di ebrei deportati e uccisi dai nazisti. Tante foto, documenti, lettere, indumenti di ogni tipo, ricostruzione fedele di campi di concentramento e di tradotte (treni) militari, libri, oggetti personali dei deportati, ecc. Una cosa davvero toccante, che ti lascia dentro un senso di pietà e di impotenza al tempo stesso, ma che ti scatena anche sentimenti di rabbia per tutto quanto è potuto accadere”.
Ma i crimini commessi dai nazisti nei campi di concentramento non riguardano naturalmente solo gli ebrei; riguardano anche tanti altri uomini e donne, compresi i nostri tre concittadini che la comunità di Poggio Imperiale ha voluto commemorare e, a buona ragione, l’intera umanità per l’efferatezza con cui sono stati perpetrati.
In proposito, Renzo Gattegna, Presidente Unione Comunità Ebraiche Italiane, sostiene che “nei campi di concentramento nazisti sono stati commessi crimini di incredibile efferatezza. Tali crimini non furono commessi solo contro il popolo ebraico e gli altri popoli e categorie oppressi, ma contro tutta l’umanità, segnando una sorta di punto di non ritorno nella Storia. L’umanità esige che ciò che è avvenuto non accada più, in nessun luogo e in nessun tempo. E’ di enorme importanza che le nuove e future generazioni facciano proprio questo insegnamento nel modo più vivo e partecipato possibile, stimolando il dibattito, le domande, i “perché” indispensabili per la comprensione di quei tragici eventi. Favorendo noi una riflessione vivace nei ragazzi, renderemo forse il servizio migliore a questo Giorno che, per essere vissuto nel modo più autentico, necessita di un pensiero non statico, non nozionistico. Occorre fornire alle nuove generazione gli strumenti, anche empirici, per riflettere su cosa l’umanità è stata in grado di fare, perché non accada mai più. Questo, forse, è il senso più vero del Giorno della Memoria, ed è un bene prezioso per tutti”.
Da “Il senso del Giorno della Memoria” di Renzo Gattegna
[Sito internet: htpp://www.ucei.it/giornodella memoria ]