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Benvenuti in PagineDiPoggio.com
Poggio Imperiale, la Porta della Puglia e del Gargano.

Un poggio, un'altura,
un dolce declivio.
Un luogo privilegiato di osservazione
sul passato, presente e futuro.
Sul mondo intero.
(l.b.)
16
Dic

La Muta di Raffaello

Un giro nel centro storico di Urbino consente al visitatore di tuffarsi in un clima “rinascimentale”, in un dedalo di strade stradine, in salita e discesa, che offrono allo sguardo affascinanti scorci architettonici di un tempo lontano.

I famosi “torricini” del Palazzo Ducale, la casa natale di Raffaello, Chiese, Palazzi, piazze, monumenti, e che dire dell’antichissima Università, che rappresenta il fulcro della odierna vitalità cittadina.

Tornare a Urbino, ogni tanto, è sempre un piacere ed interessante è anche tornare ad ammirare le inestimabili opere esposte nella Galleria Nazionale nell’interno del Palazzo Ducale.

Quest’ultima volta mi sono particolarmente soffermato ad ammirare, tra le innumerevoli bellezze, uno dei capolavori di Raffaello: “La Muta”.

Il “Ritratto di gentildonna”, noto anche come “La Muta”, è un dipinto a olio su tavola (64×48 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1507 e conservato, per l’appunto, nella Galleria Nazionale delle Marche a Urbino.

Nel famoso dipinto, gli esperti hanno tentato di ravvisare Elisabetta Gonzaga o, più verosimilmente, Giovanna Feltria, sposa di Giovanni Della Rovere o forse anche una gentile donzella fiorentina della famiglia Strozzi.

Non è infatti chiaro se l’opera, databile alla fine del periodo fiorentino dell’artista, provenga da Firenze, commissionato da una famiglia locale (magari rappresentante una Strozzi), o da Urbino, commissionato forse dai Della Rovere (e, chissà, ritraente Elisabetta Gonzaga o Giovanna Feltria).

Di proprietà degli Uffizi di Firenze, venne concessa nel 1927 al museo di Urbino per completare il suo percorso espositivo con almeno un’opera significativa di Raffaello Sanzio, nativo di Urbino e molto attivo anche nella sua città: tutti i dipinti di Raffaello erano infatti finiti a Firenze con l’eredità di Vittoria Della Rovere, nel XVII secolo.

L’opera venne trafugata il 6 febbraio del 1975, insieme alla “Madonna di Senigallia” e alla “Flagellazione di Cristo” di Piero della Francesca: tutte le opere, compresa “La Muta”, vennero poi recuperate dai Carabinieri, a Locarno, lo stesso anno.

“La Muta” è una donna ritratta a mezza figura leggermente di tre quarti, voltata verso sinistra, su uno sfondo scuro uniforme.

L’opera mostra una forte ispirazione leonardesca (Leonardo Da Vinci), con una posa simile a quella della “Gioconda”, ma se ne distacca per una definizione più netta dei lineamenti fisici e dell’abbigliamento.

Originale è il dettaglio della mani appoggiate sul bordo inferiore, come se combaciasse con un ipotetico parapetto, colte in un gesto inquieto, che tradisce l’ispirazione fiamminga.

La determinazione espressiva del personaggio è molto intensa e ne fa uno dei migliori esempi della ritrattistica raffaellesca nel periodo della prima maturità.

Raffaello Sanzio nacque ad Urbino nel 1483 e morì a Roma nel 1520 ed è stato un pittore e architetto tra i più celebri del Rinascimento italiano.

Il suo corpo giace, nientemeno, all’interno del “Pantheon” a Roma e sulla sua tomba è riportato il seguente epitaffio: “Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori” (Qui giace Raffaello: da lui, quando visse, la natura temette d’essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire). E’ un omaggio di Pietro Bembo alla creatività divina del grande Urbinate.

Urbino, che è un comune italiano di oltre 15.000 abitanti, capoluogo con Pesaro della provincia di Pesaro e Urbino nelle Marche, fu uno dei centri più importanti del Rinascimento italiano, di cui ancora oggi conserva appieno l’eredità architettonica, e dal 1998 il suo “centro storico” è patrimonio dell’umanità UNESCO.

Il territorio comunale si estende prevalentemente in area collinare, sulle ultime propaggini dell’Appennino settentrionale, Appennino tosco-romagnolo, nella zona meridionale del Montefeltro.

L’Università degli studi di Urbino “Carlo Bo” è una delle più antiche d’Italia e vanta una storia cinquecentenaria, che conferisce all’Ateneo un prestigio e un’eredità di tutto rilievo.


9
Dic

Il gruppo “Amici di Tarranove” della Lombardia

Abbiamo cominciato qualche anno fa con la promessa di vederci … su a Milano … al rientro dopo le vacanze, magari per una pizza, e pian piano, con il passare del tempo, gli incontri sono divenuti un appuntamento rituale ed il gruppo diventa sempre più numeroso.

Anche quest’anno ci siamo incontrati per trascorrere insieme una giornata all’insegna dell’amicizia.

Domenica scorsa 4 dicembre 2011, appuntamento alle ore 12,30 davanti casa del nostro carissimo compaesano Giuseppe Castellano che, unitamente alla gentile consorte Angela Fusco, rappresentano il punto di riferimento organizzativo degli incontri.

Sono loro che mantengono i contatti e si incaricano delle prenotazioni e di quant’altro necessario per la buona riuscita degli appuntamenti.

E poi, una bella colonna di macchine verso l’Agriturismo “Molino di Santa Marta” di Casterno, nei pressi di Robecco sul Naviglio, per il pranzo.

Chi siamo?

Siamo un gruppo di poggioimperialesi (in stretto dialetto: “tarnuise”) residenti in Lombardia.

Non abbiamo ancora uno “statuto” formale, ma possono far parte del Gruppo “Amici di Tarranove” soggetti rigorosamente nativi di Poggio Imperiale (“Tarranove”) con rispettive/vi consorti ed eventuale prole, anche se di altra provenienza.

Negli incontri si deve parlare prevalentemente in dialetto poggioimperialese (“tarnuese”) e mettere a fattor comune, per quanto possibile, storie, usanze, proverbi, modi di dire, ricette di piatti tipici e di dolci del nostro paese di origine.

Il pranzo è durato fino a sera e, dopo le foto di gruppo, tutti in macchina per Magenta per finire con un giro fra le bancarelle del “Mercatino di Natale” e con un … arrivederci alla prossima!!!!

 

Nota: nel dialetto di Poggio Imperiale la vocale “e” finale di sillaba o di parola è muta, se non accentata.


28
Nov

La crisi è seria!

La crisi che sta interessando la nostra bella Italia e tutta l’ Europa, a cominciare dalla Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Ungheria, senza escludere la Francia e anche la Germania, comincia a destare serie preoccupazioni.

Ma, a quanto pare, non é solo il Vecchio Continente a traballare, bensì il Mondo intero.

Manifesto della “Grande Crisi del ’29” negli USA

Anche grandi potenze come gli Stati Uniti d’America ed altre ancora, vivono la nostra stessa ansia.

In queste ore di affanno, ne vediamo e sentiamo di cotte e di crude.

  • I guru della finanza di tutto il mondo che glissano intorno ai problemi veri e ci nascondono meschinamente la verità sugli errori commessi negli anni di vacche grasse, quando hanno spregiudicatamente munto fino all’inverosimile.
  • I nostri politici di qualunque schieramento, e non solo loro, poiché anche all’estero non scherzano, che continuano con la solita tiritera sulle altrui responsabilità senza farsi l’esame di coscienza ed assumersi un briciolo di responsabilità riguardo allo sfacelo in cui ci hanno trascinati, con una politica fatta di lauti ed ingiustificati privilegi a discapito dei contribuenti sempre più vessati da inique imposizioni fiscali, di lavoratori che vedono svanire i posti di lavoro, di giovani senza futuro e senza speranza, di pensionati sempre più poveri, di tanta gente che fa fatica a sbarcare il lunario.
  • La pletora dei boiardi di Stato che dirigono comparti importanti dell’economia e della finanza, delle infrastrutture e delle industrie, delle comunicazioni e del manifatturiero, dell’informazione e molto ancora, che spendono e spandono soldi pubblici al di fuori delle regole che governano i mercati.

Tanti soloni che predicano bene ma razzolano male; che stentano a dare per primi il buon esempio rinunciando a rendite e privilegi.

Mancano idee e progetti coerenti e i rimedi frettolosamente posti in essere in qualunque campo non riescono a sortire gli effetti desiderati.

Le Borse sembrano impazzite e le economie di tutti i Paesi stanno vacillando.

Altro che la grande crisi del 1929.

Qui si rischia la completa bancarotta ed un impoverimento della gente senza precedenti.

In tutto il marasma di questi giorni, tra euro si ed euro no, banca centrale europea di ultima istanza, crollo dell’eurozona e tante altre colossali  panzane, ho trovato veramente interessante l’articolo di oggi di Francesco Alberoni su “Il Giornale”, che riporto qui di seguito.

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Ripartiamo da quando eravamo poveri

Siamo sicuri di capire l’attuale crisi, le sue cause e i rimedi da approntare?

La crisi finanziaria è la conseguenza del rallentamento dell’economia di tutti i Paesi occidentali, dall’Italia agli Usa fino al Giappone, davanti alla concorrenza della Cina, dell’India e delle altre economie in espansione. L’Occidente, nel corso degli ultimi secoli, ha inventato una tecnologia superiore, comprava le materie prime dal resto del mondo, le lavorava con un enorme valore aggiunto e si è arricchito. Ogni tanto qualche nazione, usando le nostre tecnologie, faceva un balzo in avanti. L’ha fatto per primo il Giappone, ma a un certo punto l’hanno fatto anche nazioni con miliardi di abitanti, con un costo della manodopera bassissimo e le industrie occidentali in poco tempo sono state messe in difficoltà. È solo a questo punto che è entrata in gioco la finanza. Le banche americane, che hanno concesso mutui a milioni di persone per comprarsi la casa, pensavano che sarebbe continuato lo sviluppo. Invece è rallentato, i loro clienti non hanno più potuto pagare e allora hanno escogitato ogni diavoleria finanziaria per sopravvivere. Ma non è detto che i clienti avranno più soldi nei prossimi anni perché le industrie chiudono e restano disoccupati. Lo Stato, per aiutare banche e lavoratori, si è indebitato a sua volta ed è iniziata anche la speculazione sulle stesse nazioni. Oggi, per ridurre i debiti, gli Stati riducono le spese, ma in questo modo la povertà aumenta. Non siamo in una bufera temporanea che passerà come sono passate le altre e non bastano misure finanziarie. Quello che incombe sull’Occidente è l’impoverimento, stiamo tornando poveri mentre ci consideravamo ricchi. Una povertà che in Italia si esprime nei disoccupati, nelle mense dei poveri, nei divorziati che tornano dai genitori, nella vendita della «nuda proprietà» per sopravvivere, nel progressivo scadimento della qualità di tutti i prodotti a parità di prezzo. Per riprenderci, dobbiamo partire dall’idea che possiamo tornare poveri come lo eravamo nel dopoguerra e che siamo in concorrenza con Paesi ad alta tecnologia e basso costo della manodopera. Per cui dobbiamo partire da capo, con tenacia, con perseveranza, ricostruire la capacità tecnologica ricercando e studiando, poi sfruttare le nicchie in cui abbiamo ancora un vantaggio, facendo qualsiasi lavoro e facendolo bene. Ma anche imparando a difenderci dal dumping dei loro prodotti e ad aver paura degli sprechi, di tutti gli sprechi.

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Come andrà a finire questa storia non è dato sapere; i segnali che recepiamo certamente non ci consentono al momento di ben sperare.

Ma la speranza è sempre l’ultima a morire!


17
Nov

La “cotognata” di un tempo!

Con la “cotognata” si conclude la “rassegna” delle delizie del palato della nostra terra di Capitanata che un tempo maggiormente caratterizzavano l’autunno.

La “cotognata” completa infatti la trilogia delle “narrazioni” iniziate nei miei due precedenti articoli dedicati rispettivamente al “mostocotto” e alla “mostarda” di uva”; “narrazioni” che si rifanno naturalmente ai miei ricordi d’infanzia degli anni cinquanta del secolo scorso vissuta a Poggio Imperiale in provincia di Foggia.

Ai tempi, la frutta, in genere, non faceva in tempo a maturare sugli alberi, che veniva subito intercettata e “spazzolata via”.

Le albicocche, le pesche, le mele, le pere, le susine, i fichi, le ciliegie, le prugne, ma anche i melograni, le mandorle ed i grappoli di uva rappresentavano una facile preda e godevano di attenzioni “particolari” e al tempo stesso “indesiderate” da parte dei legittimi proprietari.

Molti lo facevano magari solo per fame, considerato il periodo di ristrettezze economiche abbastanza diffuse nell’immediato dopoguerra.

E non era solo impresa di ragazzi, ma anche di persone adulte, quella di dilettarsi a fare man bassa della frutta degli alberi altrui.

Ricordo che gli alberi da frutta della nostra vigna, che si trovava a poche centinaia di metri di distanza dal paese, venivano frequentemente “ripuliti” dai soliti ignoti (o forse anche noti).

Gli unici alberi che non venivano mai toccati erano quelli di melecotogne.

In primo luogo perché la loro maturazione si protraeva oltre l’estate fino ad autunno inoltrato, ed in secondo luogo perché il loro sapore restava sempre alquanto acidulo e poco gradevole, sebbene emanassero un profumo forte ed intenso.

E quindi, man mano che si staccavano dai rami e cadevano per terra, le melecotogne venivano raccolte e conservate in ambienti asciutti e ben areati in attesa della loro completa maturazione.

A volte ci si azzardava anche a mangiarne qualcuna, non senza pentirsi di averlo fatto; il suo sapore non era infatti eccezionale.

Le melecotogne erano invece ottime se passate al forno e spolverate con lo zucchero.

Ma la loro naturale predestinazione era sicuramente quella di finire in “cotognata”.

A pezzi oppure spalmata sul pane o anche nella farcitura dei dolci tipici paesani: così gustavamo questa deliziosa leccornia.

Anche oggi è possibile rivivere quei dolci momenti, a condizione che si riesca ancora a reperire sul mercato una quantità di melecotogne sufficienti per preparare un po’ di “cotognata” in vasetti oppure a pezzi.

Magari non sono più le melecotogne di una volta, tuttavia tentar non nuoce.

Come si prepara una buona cotognata casalinga?

Cominciamo con il procurarci circa 3 Kg di melecotogne, che verranno pazientemente sbucciate e private dei torsoli, tagliando poi la polpa a fettine molto sottili.

Aggiungere lo zucchero (300 gr. circa per ogni Kg di polpa: una quantità non eccessiva di zucchero lascia più spazio al sapore intenso delle cotogne), spremervi sopra mezzo limone e lasciare macerare per tutta la notte in un capiente recipiente, mescolando ogni tanto.

Versare il composto in una pentola adeguata e far cuocere a fuoco lento per un paio d’ore, mescolando attentamente per evitare che si attacchi sul fondo.

Aiutandosi con una forchetta, schiacciare ben bene il composto in modo da renderlo il più omogeneo possibile, anche se la consistenza della “cotognata” è diversa da una normale marmellata, che si presenta invece più fluida.

Versare la “cotognata” ancora calda nei vasetti di vetro e tapparli subito con gli appositi coperchi a chiusura ermetica, indi capovolgerli e lasciare raffreddare.

Passare infine i vasetti a bagnomaria.

Opzioni:

La prima opzione consiste nel “passare” il composto, a tre quarti di cottura, al fine di ottenere una marmellata più fluida, che verrà poi ugualmente conservata nei vasetti di vetro.

La seconda opzione consiste invece nel versare il composto “passato” su di un piano di marmo preventivamente unto con olio di oliva, formando uno spessore di qualche centimetro; si lascia raffreddare e, non appena indurita, si taglia la “cotognata” a cubetti che, a piacimento, potranno essere spolverati con lo zucchero. I pezzi di cotognata vanno singolarmente avvolti in fogli di carta oleata. Ma oggi sono in commercio anche dei comodi e simpatici “pirottini” da pasticceria che possono risolvere ogni problema.

Nella “cotognata” si ritrovano la semplicità e l´esperienza antica in grado di trasformare quello che forse è uno dei più rudi frutti della terra, le melecotogne, in una prelibatezza.

Le origini del Melo Cotogno (Cydonia Oblunga), piccolo ma robusto albero appartenente alla famiglia delle Rosacee Pomoidee, sono antichissime; giunse in Italia, forse nel nostro Salento, dall´Asia minore, e subito divenne quasi un simbolo di questa terra pugliese (si ritrova persino nei decori barocchi a scalpellino, come segno distintivo del Barocco Leccese).

Cresce nelle campagne in piccole zone alluvionali, e in tempi antichi veniva coltivato come albero da ornamento nei giardini delle case padronali. I frutti sono nodosi e duri, maturano tra la fine dell´estate e l´autunno inoltrato ed hanno un sapore astringente, con un torsolo al centro e piccoli semi neri, esattamente come le mele. La cotognata veniva un tempo consumata soprattutto in inverno per difendersi dal rigore del freddo, infatti la cotognata e’ ricca di vitamine e di zucchero.

Una curiosità

Nel 1982 la Comunità Europea ha deciso che la denominazione di “marmellata” può essere attribuita solo alle marmellate a base di agrumi, mentre quelle fatte con altri tipi di frutta devono definirsi “confetture”.

Curiosa, come decisione, poiché la parola “marmellata” deriva dal portoghese “marmelo”, che vuol dire cotogno.


1
Nov

Il “mostocotto” di Poggio Imperiale

Il periodo della vendemmia è sicuramente quello più propizio per preparare il nostro squisito “mostocotto”.

Tradizionalmente il “mostocotto” si appronta con il mosto fresco di pigiatura dell’uva nera, ma va bene anche quello di uva bianca.

Il suo uso è molto diffuso per la preparazione dei dolci tipici della nostra tradizione locale.

Soprattutto a Natale, il “mostocotto” è indispensabile per bagnare le “nevole” e per la preparazione dei “calzoni”.

Ma non solo per questo, poiché è tale la versalità di questo succulento “nettare”, che si sposa tranquillamente con il gelato, formaggi stagionati, fragole, yogourt, macedonia di frutta e “grano dei morti” (che si prepara in occasione della ricorrenza dei morti ai primi di novembre con grano cotto, melograno e cioccolato fondente: visitare la pagina http://www.paginedipoggio.com/dblog/cerca.asp?cosa=grano+dei+morti&Cerca.x=15&Cerca.y=10 ).

Il “mostocotto” può essere gustato  … semplicemente al naturale !

A Poggio Imperiale è famosa anche la “tzùrrubbètte” (forse deriva da “sorbetto”), che si prepara in occasione delle (seppur rare) nevicate.

Si raccoglie la neve (possibilmente quella che si adagia in posti incontaminati) con un cucchiaio fino a riempire un bicchiere di vetro nel quale viene versato del “mostocotto”.

In estate, invece, la “tzùrrubbètte” viene preparata con il ghiaccio finemente tritato e “mostocotto” (una sorta di granita); una squisita e dissetante bevanda.

Come si prepara il “mostocotto”?

Si fa bollire il mosto in un capiente recipiente a fuoco moderato, per il tempo necessario,  fin quando il liquido assume una consistenza mielosa.

Il rapporto è di circa 1 o 2  litri di prodotto finale rispetto a 5 litri di mosto fresco; dipende innanzitutto dalla consistenza che si desidera ottenere.

Il “mostocotto” così ottenuto viene lasciato decantare e quindi raffreddare nel medesimo recipiente di cottura per qualche giorno e, successivamente, si procede al suo imbottigliamento.

Le bottiglie vanno conservate in ambienti asciutti, freschi e non soleggiati.

Il prodotto non richiede aggiunta di zuccheri, conservanti o additivi vari.

Oggi è possibile acquistare presso alcune case vinicole di San Severo il c.d. “precotto”, che consente di accorciare notevolmente i tempi di preparazione del “mostocotto”.

In mancanza del mosto necessario, è possibile – con un po’ di pazienza – fare tutto in casa.

Occorre prendere un recipiente abbastanza capiente e mettervi l’uva all’interno, indi procedere alla sua pigiatura con le mani, per far fuoriuscire il succo dagli acini. Questa operazione viene solitamente effettuata con l’ausilio di una macchina pigiatrice, ma considerato il costo della macchina e la quantità ridotta di uva è ovviamente molto più conveniente effettuarla direttamente con le mani.

Dopo la pigiatura dell’uva si prosegue con la diraspatura, che consiste nel separare dalle bucce, polpa e raspi, il succo fuoriuscito dall’uva.

Infine si filtra il mosto così ricavato con l’ausilio di un colino, per eliminare piccoli pezzi di polpa o di buccia.

A questo punto, si versa il mosto in un recipiente abbastanza capiente, evitando di riempirlo oltre la sua metà, poiché durante la cottura il liquido gonfia e si lascia bollire a lungo e lentamente, finchè il suo volume non si riduce di almeno 3/4 del volume iniziale.

Far raffreddare il “mostocotto” all’interno del recipiente e poi versalo in bottiglie di vetro ben tappate per la conservazione.

Ricordi

I miei ricordi d’infanzia degli anni cinquanta del secolo scorso si perdono nell’incanto della vendemmia, mentre correvo tra i filari del vigneto, dove tutta la famiglia e i parenti, grandi e piccini, uomini e donne, giovani e anziani, in clima festoso di sorrisi e di canto, procedevano alla raccolta dell’uva.

E ricordo, poi, la pigiatura dell’uva che veniva fatta da robusti giovanotti a piedi nudi e la fragranza inebriante del mosto che impregnava l’aria tutt’intorno.

E le donne che aspettavano il nuovo mosto con i recipienti pronti ad accoglierlo per iniziare il rito della preparazione del “mostocotto”.

Era bello vedere come si restringeva sul fuoco accanto ad un caldo e accogliente camino dove la pentola stava appesa sui ceppi accesi e il profumo si sprigionava lento, e una volta pronto, messo a riposare in dispensa.

E, poi, l’attesa. Noi bambini, non aspettavamo altro che, arrivato l’inverno, la neve facesse capolino … e … subito fuori a raccogliere con cucchiai e bicchieri i suoi fiocchi bianchi.

Poi, in casa, come per magia da una bottiglia con liquido scuro la neve si trasformava in una meravigliosa e squisita “tzùrrubbètte”.


22
Ott

La mostarda di uva con i vinaccioli

Una vera bontà d’altri tempi.

E’ una delizia del palato senza tuttavia rappresentare un peccato di gola.

Anzi, al contrario, è un vero toccasana per la nostra salute, proprio per la presenza dei vinaccioli.

Una marmellata genuina e squisita, senza conservanti e addensanti, ma soprattutto priva di zuccheri aggiunti.

Per la preparazione della vera mostarda di uva, quella originale, che approntavano un tempo le nostre nonne di Poggio Imperiale, in terra di Capitanata, non c’èra bisogno di ingredienti particolari; occorreva solamente dell’uva, un po’ di tempo e dell’olio di gomito. Niente altro.

La preparazione è semplicissima.

Prendete dei bei grappoli di uva bianca e nera e lavateli accuratamente, indi sgranate gli acini dai raspi eliminando quelli ammalorati.

Potete cominciare, ad esempio, con due chili e mezzo di frutta per ricavare il vostro primo vasetto di marmellata.

Aiutandovi con un coltello, tagliate a metà di acini, avendo cura di raccogliere anche il succo che ne fuoriesce.

Molte ricette prevedono a questo punto di eliminare pazientemente i vinaccioli. Niente di più sbagliato; i vinaccioli vanno lasciati. Infatti, i semi dell’uva sono ricchi di polifenoli (antiossidanti) ed è nota la proprietà anti-radicali liberi dei polifenoli. Così come molte ricette prevedono di aggiungere 400/500 grammi di zucchero per ogni chilo di uva. Anche questo è sbagliato, poiché l’uva ed il mosto che ne deriva sono già ricchi di zuccheri naturali.

Versate quindi in una capiente pentola di acciaio i chicchi d’uva con il loro succo. Accendete il fornello del gas a fuoco lento e lasciate cuocere mescolando ogni tanto con un cucchiaio di legno, per evitare che si attacchi sul fondo, fino ad ottenere una marmellata densa e omogenea.

Togliete la marmellata dal fuoco e versatela ancora bollente nei vasetti di vetro, provvedendo a tapparli immediatamente. I vasetti andranno lasciati capovolti fino al giorno successivo e quindi riposti in un luogo fresco e buio.

In mancanza possono essere conservati in frigorifero.

Se volete conservare il prodotto più a lungo, si consiglia di far bollire i vasetti a bagnomaria.

L’unicità di questa mostarda d’uva è singolare, soprattutto quando la si gusta e si sentono sotto i denti i vinaccioli, che richiamano il sapore della granella di frutta secca.

La mostarda di uva può essere spalmata sul pane, sui biscotti, ma viene utilizzata anche per la preparazione di alcuni dolci locali, quali i “calzoni” di Natale, oltre che per farcire squisite torte e crostate.

Una vera delizia è quella di accompagnare la mostarda di uva ad una fetta del nostro caciocavallo locale.

A Cerignola è famosa la “pizza sette sfoglie”  (1) il cui ingrediente principe è rappresentato proprio dalla mostarda di uva.

Buona degustazione!

(1) Per approfondire, andare all’articolo “Pizza sette sfoglie di Cerignola” su questo stesso sito www.paginedipoggio.com alla pagina http://www.paginedipoggio.com/dblog/articolo.asp?articolo=92


9
Ott

Le bollicine del Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene all’Eat’s Store dell’Excelsior di Milano

Eccezionale debutto alla Vetrina del Gusto dei vini dell’Azienda Agricola Conte Collalto di Susegana.

Giovedi scorso 6 ottobre 2011 hanno avuto inizio all’Eat’s Store di Milano, situato nella Galleria del Corso all’interno del complesso “Excelsior Milano”, gli appuntamenti della Vetrina del Gusto, l’originale iniziativa che ogni settimana offre ai clienti dello Store l’opportunità di incontrare i principali rappresentanti dell’eccellenza enogastronomica italiana.

Il debutto è stato affidato a gustosi accostamenti di prodotti che esprimono tutta la storia e la tradizione delle Regioni che hanno visto nascere Eat’s.

Protagonisti del primo appuntamento sono stati l’Azienda Agricola Conte Collalto di Susegana (TV) con il Prosecco DOCG di Conegliano-Valdobbiadene, i formaggi “ubriachi” della tradizione veneta nella brillante interpretazione della Casearia Carpenedo di Povegliano (TV) e una selezione di gelatine al vino di Schianchi (UD), preparate secondo una particolare lavorazione di tipo tradizionale.

Grazie alla straordinaria varietà di flora e fauna che ne caratterizzano la proprietà, l’Azienda Collalto costituisce indubbiamente un’oasi ecologica senza pari tra gli ecosistemi dell’Italia settentrionale. I 150 ettari di vigneto armoniosamente alternati a splendidi alberi secolari di ulivi sono circondati dai boschi, prati, e grandi pascoli dove regnano indisturbati bovini, cavalli, asini, beccacce, fagiani, lepri e caprioli.

I vigneti dell’Azienda Vinicola Collalto producono attualmente circa 850.000 bottiglie, di cui 550.000 di Prosecco D.O.C.G. L’Azienda Agricola Conte Collalto e la sua Cantina costituiscono una realtà profondamente radicata nel territorio. Proprio dalla solida conoscenza della tradizione enologica del territorio e dal confronto quotidiano con le genti del luogo, infatti, l’Azienda ha tratto i suoi principi qualitativi e la tensione costante ad affinare le caratteristiche dei prodotti, sia investendo nell’ampliamento e nel reimpianto dei vigneti, sia nell’uso di tecniche di lavorazione con rese più basse, ma di alta qualità, e nella selezione delle uve.

Il risultato è percepibile nei vini Conte Collalto e, in particolar modo, nell’eleganza discreta e nella superba bevibilità delle quattro tipologie di Conegliano- Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG. Spumanti di ottima qualità, espressioni colte, ma al tempo stesso autentiche e accessibili di una terra e di un popolo di grandi intenditori di vini.

I vini “Collalto”

I vini da vitigni internazionali (Pinot Grigio delle Venezie, Chardonnay Colli Trevigiani, Piave Merlot, Piave Cabernet); i vini da vitigni autoctoni (Verdisio Colli Trevigiani, Wildbacher Colli Trevigiani); i vini da vitigni “Incrocio Manzoni” (Collalto Rosè, Rosabianco Manzoni Rosa 1 – 50 Colli Trevigiani, Manzoni Bianco Colli Trevigiani, Incrocio Manzoni 2.15 Colli Trevigiani); il Prosecco (Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore D.O.C.G. Spumante Brut, Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore D.O.C.G. Spumante Extra Dry, Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore D.O.C.G. Spumante Dry Millesimato, Conegliano Valdobbiadene Prosecco D.O.C.G. Frizzante); le etichette storiche dei vini maturati in botti grandi e barriques di rovere francese (Schenella I Colli di Conegliano Bianco aromatico, Vinciguerra I Colli di Conegliano Rosso tipico, Rambaldo VIII Colli Trevigiani strutturato, Torrai Piave Cabernet Riserva); il vino da dessert (Bianco Passito); la grappa (Grappa dei Poderi Collalto).

L’olio “Collalto”

Il fragrante olio extra vergine di oliva “Collalto Olio extra vergine di oliva”

  • La Vetrina del Gusto

L’organizzazione della Vetrina del Gusto è strutturata per affiancare rappresentanti del mondo food e del mondo wine secondo accostamenti studiati per affinità, per comuni richiami al territorio o per suggerire inedite e stimolanti modalità di degustazione. Gli incontri continuano il giovedì con la formula del doppio appuntamento: tarda mattinata (indicativamente dalle 11.00 alle 14.00) e serata (17.30 – 20.30).

  • Eat’s

Nato da un’idea dell’imprenditore veneto Sergio Menegazzo, del Gruppo Canzian-Menegazzo, Eat’s è un innovativo food store che propone un nuovo modo di fare la spesa, abbinando ad un’accurata selezione di eccellenze agroalimentari, dallo scaffale alle isole del fresco, una ricca cantina dotata di Dwine con adiacente bistrò e wine bar. Prodotti pregiati e circa 1.300 etichette. Sono esposti da Eat’s, la boutique gourmet di più di 1000 metri quadrati inaugurata l’8 settembre 2011 all’Excelsior di Galleria del Corso a Milano, secondo punto vendita dopo Conegliano. Una lunga giornata, dalla prima colazione all’Excelsior Cafè al piano terra, dehors sulle 2 gallerie (del Corso e Passarella), all’acquisto di specialità nel food store al sottopiano 1, alla degustazione di cibi al Bistrò, al sottopiano 2 (fino all’una di notte), preparati dal 28enne executive chef Matteo Gelmini, che arriva dal ristorante milanese Food Art- Matteo Torretta

  • Excelsior Milano

L’Excelsior rappresenta un’esperienza unica di shopping, ove fashion, beauty, accessori, food e design si mescolano nello storico building di Galleria del Corso 4, nel cuore di Milano, completamente ristrutturato dall’acclamata archistar Jean Nouvel. Un contenitore di 4000 mq in un volume unico, diviso in 7 piani, racchiuso in un involucro architettonico avvolto da stripe di installazioni video dall’effetto caleidoscopico, con una trama di ascensori galleggianti e nastri trasportatori. È così che l’ex cinema milanese Excelsior ascende a nuova icona dello shopping world wide.

 

Le informazioni sono tratte da siti internet che hanno trattato gli argomenti sintetizzati nel presente articolo nonché dalla documentazione divulgativa dell’Azienda Agricola Collalto, via 24 maggio n. 1 31058 Susegana (TV) www.cantine-collalto.it

Foto di repertorio di Lorenzo Bove


2
Ott

Angelo Scola, il prescelto!

Il nuovo Arcivescovo di Milano sarà il futuro papa?

Si è parlato nei giorni scorsi di (possibili) dimissioni dell’attuale papa in primavera del prossimo anno, in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno, anche se le voci non hanno poi trovato riscontri e conferme ufficiali presso la Santa Sede.

Ma c’è forse qualche attinenza con la recente nomina dell’ex Patriarca di Venezia Angelo Scola ad Arcivescovo di Milano?

Sicuramente si tratta di una nomina ricca di significati; una scelta pastorale forte, visto il carisma del porporato, la sua visibilità internazionale, la fama di teologo, la discreta ma costante inclusione del suo nome tra i Cardinali “papabili”.

Una designazione che peserà sugli equilibri della Chiesa italiana, e non solo, soprattutto perché è il frutto di una scelta di Benedetto XVI, che ha consultato tutti e imposto alla Curia di seguire le procedure canoniche, ma poi ha deciso da solo.

Una nomina di grande spessore, e molti ritengono di poter annoverare il nome del nuovo Arcivescovo che si è insediato in quella che fu la Cattedra di Ambrogio, fra i “papabili” più autorevoli, visto che Milano ha dato nel passato secolo due Pontefici: Achille Ratti (Pio XI) e Giovanni Battista Montini (Paolo VI).

Ma, al di là di tutto, una sfida comunque difficile, nella Diocesi più grande del mondo.

La scorsa domenica 25 settembre l’abbraccio di Milano ad Angelo Scola, il suo nuovo Vescovo.

Alle ore 16 è giunto nella basilica di Sant’Eustorgio, luogo carico di tradizione simbolica e porta d’ingresso per la prima entrata in città di tutti i vescovi ambrosiani: è il più antico luogo di culto cristiano di Milano, quello dei primi battesimi, dei primi martiri e della loro sepoltura.

Scola e il corteo che lo accompagnava ha poi ripreso l’itinerario che lo ha portato in Piazza Duomo intorno alle 16.45 ove, ad aspettarlo davanti alla Cattedrale milanese, c’era il suo predecessore Cardinale Emerito Dionigi Tettamanzi, con il quale ha fatto solenne ingresso in Duomo, dopo che quest’ultimo gli aveva lasciato il bastone pastorale di San Carlo e che da secoli si tramanda da un vescovo all’altro e che rappresenta il passaggio di consegne alla guida della Chiesa ambrosiana.

Angelo Scola aveva iniziato il suo viaggio di avvicinamento a Milano partendo alle 14.00 da Malgrate, suo paese natale a pochi chilometri da Lecco. E il primo momento di preghiera e riflessione personale sul compito che lo aspetta è avvenuto già lì, nella chiesa parrocchiale di San Leonardo in cui fu battezzato e dove il parroco don Luciano Capra – suo futuro segretario particolare – l’ha accolto insieme con le autorità locali. In chiesa i nipotini e i parenti. Il successivo momento di solitudine e raccoglimento se lo è riservato subito dopo, nel piccolo cimitero, proprio di fronte alla chiesa, dove sono sepolti i suoi genitori e suo fratello.

La liturgia in Duomo ha avuto inizio con la lettura della lettera con cui il pontefice ha nominato Angelo Scola nuovo Arcivescovo di Milano, a cui ha fatto seguito il saluto ufficiale di Tettamanzi.

Quindi Scola si è seduto sulla cattedra arcivescovile per ricevere il saluto dell’Arciprete della Cattedrale e di alcuni rappresentanti del clero, dei religiosi, dei laici della diocesi.

La Messa si è conclusa con la benedizione, impartita dal Duomo all’intera Arcidiocesi.

Poi, mentre la processione dei Vescovi ritornava in sacrestia, l’Arcivescovo si è trattenuto davanti all’altare maggiore per salutare autorità e Consiglio delle Chiese Cristiane di Milano; quindi ha percorso la navata centrale per un ulteriore saluto ai numerosi fedeli assiepati all’esterno, dal sagrato del Duomo.

«Un uomo di grande cultura, di molteplice esperienza, di forte passione ecclesiale», ha detto Tettamanzi di Scola annunciandone la nomina a Milano.

Il Pastore, l’Educatore, il Teologo, l’Intellettuale. Il Vescovo di Grosseto. Il Rettore della Lateranense. Il Patriarca di Venezia. Ora, l’Arcivescovo di Milano. Sulla Cattedra di Ambrogio e di Carlo, con il motto che lo guiderà anche nella nuova sede: “Sufficit gratia tua”.


18
Set

Journal Gazzetta Web

Poco più di un anno fa nasceva Gazzettaweb.info, un nuovo strumento d’informazione on line, la cui direzione veniva affidata al giornalista e scrittore Giucar Marcone.

E tutto questo grazie alla casa Editrice “Edizioni del Poggio”, ma soprattutto al suo titolare Dott. Giuseppe Tozzi di Poggio Imperiale.

Oggi, il giornale telematico registra al suo attivo un numero di articoli prossimo ai 300, suddivisi nell’ambito dei seguenti argomenti trattati:

Ambiente (66) Attualità (9) Cinema (8) Cronache (22) Cultura (45) Economia (1) Eventi (15) Fiere Sagre Mostre (1) Filosofia (12) Folklore e Tradizioni (5) Gastronomia (3) Giochi (1) Internet (1) Letteratura (7) Libri (2) Medicina (4) Musica (5) News (10) Politica (4) Primo piano (8) Religione (4) Scuola (6) Società (9) Sport (3) Storia (3) Teatro (11) Turismo (4)

Ed anche la frequenza delle pubblicazioni risulta essere di tutto rispetto, come emerge dalla sintesi sotto richiamata:

Settembre 2011 (5) Agosto 2011 (9) Luglio 2011 (14) Giugno 2011 (10) Maggio 2011 (19) Aprile 2011 (26) Marzo 2011 (24) Febbraio 2011 (30) Gennaio 2011 (18) Dicembre 2010 (13) Novembre 2010 (11) Ottobre 2010 (11) Settembre 2010 (11) Agosto 2010 (15) Luglio 2010 (22) Giugno 2010 (31)

Si riporta, qui di seguito, l’interessante Editoriale del Direttore Giucar Marcone del 24 giugno 2010.

“Il settore della comunicazione è in continua trasformazione. L’innovazione tecnologica sta rapidamente modificando il modo di fare informazione. Con l’avvento di Internet le abitudini dei cittadini di ogni parte del globo sono cambiate. Basta un click per alzare il sipario sul teatro del mondo: la globalizzazione non ha confini. Il futuro dei giornali è online e questo futuro è già iniziato e coincide con la diminuzione delle vendite dei quotidiani tradizionali. Anche la nostra casa editrice “Edizioni del Poggio” ha accettato la nuova sfida del XXI secolo dando vita a Gazzettaweb, un quotidiano online, ricco di contenuti, un giornale che si apre al mondo con le sue tante sezioni, quindi non solo cronaca ma anche tanta cultura, sport, società e costume, ovviamente le notizie legate al nostro territorio avranno un loro spazio. Internet ha cambiato in maniera determinante il modo di fare e di accedere all’informazione. Si è aperto per gli operatori della stampa e per i lettori uno scenario imprevedibile, sappiamo da dove veniamo, ma dove andiamo? Con un giornale online si ha l’obbligo di costruire un percorso che faccia dell’informazione onesta l’unico fine. Gazzettaweb vuol essere uno strumento d’informazione a totale disposizione dei lettori, vuol essere lo strumento dell’interscambio di idee e iniziative. Il lettore, in questa nuova iniziativa editoriale, deve essere protagonista, deve far sentire la “sua voce”, deve consigliarci, deve collaborare. Ricordo di aver visto tempo fa un film di fantascienza dove lo spettatore entrava nello schermo per interagire e con i protagonisti. Ecco, questo deve accadere anche con Gazzettaweb: il lettore deve essere primo attore di questa nostra testata, deve, possibilmente, esprimere pareri sugli articoli e, perché no, dialogare con gli autori dei “pezzi” pubblicati. Da quanto ho scritto si evince che ci sono tutti gli ingredienti per fare di Gazzettaweb il giornale telematico per tutti. Personalmente m’impegno a rendere sempre più appetibile questo “vostro” quotidiano e in questo impegno mi sostengono l’illuminato editore Giuseppe Tozzi, i miei più stretti collaboratori, Antonella Mazzili, Antonietta Pistone, Florindo Di Silvio e tutto lo staff di Gazzettaweb. Buona lettura. Giucar Marcone”

GAZZETTA WEB by Edizioni del Poggio

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Clelia Ambrosino

Nazario D’Amato

Biagio Tozzi

Redazione Sud

Antonia Frazzano

Arcangela Ferro

Giacomo Fina

Michele Urrasio

Marisa Donnini

Liliana Di Dato


13
Set

Il mistero delle Stele Daunie

Presso il Museo Archeologico Nazionale di Manfredonia, in provincia di Foggia, allestito all’interno del Castello Svevo, è possibile ammirare le famose ed esclusive “Stele Daunie”, intorno alle quali aleggia l’ombra del mistero.

Infatti, a tutt’oggi, non è ancora del tutto chiaro l’uso che gli antichi ne facevano.

Il Castello Svevo è la sede del Museo Archeologico dal 1968.

Eretto da Manfredi di Svevia nel 1256, fu sottoposto ad alcuni rifacimenti nel XV sec. dagli angioini e , successivamente, nel XVI sec., fino a portarlo alla forma attuale.

Fino a tutto il 1888 fu utilizzato come caserma e, nel 1901, venne acquistato dal Comune di Manfredonia che lo cedette allo Stato nel 1968, con l’idea di allestire una sede museale.

Vengono prevalentemente esposti reperti provenienti dalla laguna Sipontina e, in particolare, viene mostrato materiale di epoca preromana.

Il percorso prevede, con il periodo preistorico, l’esposizione degli oggetti del Neolitico provenienti dagli scavi presso il fiume Candelaro e i rinvenimenti dal villaggio di Coppa Nevigata, presso Trinitapoli, abitato ininterrottamente dal Neolitico al VIII sec. a.C.

Il villaggio ebbe un notevole sviluppo già dall’età del Bronzo, come evidenzia la scoperta di ipogei ricavati in formazioni carsiche naturali contenenti un grande numero di sepolture, e stabilì contatti con la civiltà micenea, come testimoniano ceramiche provenienti dalla Grecia orientale.

L’attrattiva del museo sono le 1500 “Stele Daunie” ritrovate nella zona.

Si tratta di lastre di calcare del Gargano sulle quali sono incise a rilievo molto basso figure umane convenzionali, con mani portate al petto e con le decorazioni delle vesti indossate. Una cavità nella parte alta della lastra accoglie la testa, anch’essa scolpita in maniera approssimativa in forma di pinnacolo.

Se i dettagli dell’abbigliamento permettono di datare le lastre al VII-VI sec. a.C., nulla è ancora dato sapere circa il loro impiego; il fatto che siano decorate in entrambi i lati lascia pensare che dovessero essere collocate in posizione verticale.

Si può pensare a segnacoli tombali o a sculture votive per un santuario funerario.

Nel 1968, come si è detto, con la cessione da parte del Comune allo Stato, il Castello Svevo divenne la sede delle collezioni archeologiche del territorio di Manfredonia, al fine di illustrare la storia della laguna di Siponto, oggi scomparsa per effetto delle opere di bonifica e di un naturale processo di impaludamento.

La piana di Siponto, delimitata a sud dal corso del Cervaro, ha restituito testimonianze archeologiche che delineano la storia della regione dai primi insediamenti neolitici sino alla fondazione di Manfredonia.

Il Museo accoglie quindi reperti dei villaggi lungo il corso del Candelaro, della grotta Scaloria, di Coppa Nevigata, uno dei siti più noti della preistoria italiana per la completezza delle sequenze dell’età del bronzo.

Particolare interesse rivestono le “Stele Daunie”, scoperte alla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo, dall’archeologo Silvio Ferri.

Nel corso dei secoli si sono verificate molte manomissioni: alcune di esse sono state divelte durante i lavori agricoli e ritrovate poi sparse nei campi; altre, invece, sono state addirittura riutilizzate nella costruzione di muretti a secco o di abitazioni rurali.

E’ quindi difficile accertarne la destinazione originaria: poiché la parte bassa delle lastre di pietra non è decorata, si ipotizza che fossero infisse nel terreno, mentre i soggetti delle decorazioni fanno supporre che servissero da segnacoli funerari di personaggi di ceto elevato, rappresentando immagini connesse con la vita del defunto.

Realizzate in pietra di origine locale, hanno forma rettangolare, sono interamente coperte da elaborate decorazioni geometriche ed erano sormontate da teste scolpite nella stessa lastra di pietra, oppure lavorate separatamente e poi infisse sulle stele per mezzo di perni.

Sulle teste femminili compare posteriormente una treccia di capelli, spesso completata con elementi ornamentali.

All’interno delle cornici geometriche si trovano decorazioni che indicano la condizione o l’attività del defunto: su alcune si individuano il pettorale, la spada e lo scudo dei guerrieri; altre evidenziano particolari tipicamente femminili, che documentano l’abbigliamento delle donne della Daunia antica, almeno nelle occasioni cerimoniali: vesti lunghe, guanti ornati che coprono gli avambracci e accessori personali che includono collane, fibule e cinture decorate con pendagli.

Su alcune stele compaiono immagini di vita quotidiana connesse con la caccia, la pesca e la filatura; una di esse presenta un’imbarcazione a vela quadra; altre rappresentano processioni legate al culto dei morti.

Si tratta veramente di qualcosa di esclusivo che merita di essere ammirato.


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