La Juventus conquista il suo 29° scudetto!
Juventus campione d’Italia 2012/2013 per il secondo anno consecutivo e con tre giornate di anticipo rispetto alla fine del massimo campionato di calcio italiano.
Decisiva la vittoria di questo pomeriggio in casa, per 1-0 contro il Palermo, nella 35^ giornata di Serie A, con rete di Vidal su rigore al 14° della ripresa.
I bianconeri di Antonio Conte salgono così a 83 punti, conseguendo la matematica certezza dello scudetto.
E’ il 29° scudetto conquistato dalla Juventus nella sua storia (il 31° sul campo).
Clacson, sirene e caroselli hanno immediatamente invaso Torino ed è subito cominciata la festa con migliaia di tifosi che hanno invaso il centro della città.
In campo allo Juventus Stadium, appena terminata la partita, è stato posizionato un gigantesco drappo con lo scudetto numero 31, grande più o meno quanto quello srotolato in curva Scirea.
Per la tifoseria continua in questo modo il conteggio degli scudetti della Juventus, che tiene conto anche dei due che sono stati tolti (a tavolino) all’epoca della c.d. Calciopoli.
Dopo il tricolore della rinascita dello scorso anno, la Juventus festeggia oggi quello della conferma.
Il secondo titolo dell’era Conte.
Ora possiamo davvero ripartire, anche il Governo è fatto!
Il nuovo Governo presieduto da Enrico Letta stamattina ha incassato la fiducia anche in Senato, con 233 sì , 59 no e 18 astenuti, dopo il pieno di sì ottenuto ieri alla Camera, dove i voti sono stati 453 a favore e 153 i contrari.
21 ministri, di cui 7 donne, ed un’età media molto più bassa rispetto ai precedenti governi, a partire dal Presidente che di anni ne ha 46.
Nei prossimi giorni la nomina dei vice e dei sottosegretari.
Un Governo sostenuto dal Partito Democratico (PD), Popolo Della Libertà (PDL) e Scelta Civica (SC); il diavolo e l’acqua santa, ma forse l’unica alleanza possibile per uscire dalla fase di stallo ed affrontare i problemi del Paese, a fronte dei risultati elettorali che – di fatto – non hanno indicato un vero vincitore.
Nel discorso alle Camere, Letta ha toccato i temi più importanti che assillano oggi l’Italia e gli Italiani, offrendo ragionevoli ipotesi di soluzioni. Ci sarà la forza per conseguire risultati soddisfacenti per il bene comune? Speriamo bene!
Oggi stesso il neo Presidente Letta è partito alla volta di Berlino dalla Merkel, poi Parigi da Hollande e Bruxelles da Barroso ed in seguito a Madrid da Rajoy; un primo giro di contatti per accreditarsi a livello europeo.
Nell’incontro con la Cancelliera Angela Merkel, Enrico Letta ha fatto la seguente battuta: “Chiederò alla Cancelliera una consulenza sulla Grande Coalizione”.
Una battuta non affatto marginale o banale: vuoi vedere che Enrico Letta ha intenzione di fare veramente sul serio?
Giorgio Napolitano rieletto per la seconda volta Presidente della Repubblica Italiana
Fumata bianca!
I “Grandi Elettori” hanno eletto questo pomeriggio, a grande maggioranza, alla sesta seduta comune presso la Camera dei Deputati a Montecitorio, il 12° Presidente della Repubblica Italiana.
Si tratterebbe in verità del Presidente 11 bis, poiché è stato rieletto per un ulteriore settennato il Presidente uscente Giorgio Napolitano, 88 anni a giugno.
E’ la prima volta nella nostra storia repubblicana che un Presidente della Repubblica viene rieletto.
Ciò non è mai avvenuto prima, sebbene la nostra Carta Costituzionale non ponga al riguardo alcuna preclusione.
I “Grandi Elettori” (1.007 tra Deputati e Senatori compresi quelli “a vita” con l’aggiunta di 58 rappresentanti delle 20 Regioni – 3 per ciascuna Regione ed 1 per la Valle d’Aosta) hanno attribuito a Giorgio Napolitano 738 voti; un risultato che va ben oltre i 504 voti sufficienti per l’elezione, dopo la terza votazione, del Presidente.
Del resto, la situazione di stallo che si era venuta a creare non consentiva alternative, dopo il flop di Franco Marini, ex Segretario Generale della CISL ed ex Presidente del Senato e di Romano Prodi, già Presidente della Commissione Europea e due volte Presidente del Consiglio. Situazione che ha peraltro avuto un pesante strascico nella compagine del partito di maggioranza (Partito Democratico), con le dimissioni del Presidente Rosy Bondi e del Segretario Pierluigi Bersani e dell’intera Segreteria.
E, ciò, senza trascurare la grave crisi che l’Italia sta attraversando. I fallimenti delle imprese sono stati 79 nella sola giornata di ieri 19 aprile 2013 e, dall’inizio del corrente anno, sono arrivati a 4.468 [Fonte: Sole 24 Ore 20/04/2013].
Solo un Presidente “condiviso a larga maggioranza” può offrire l’opportunità di uscire dal vicolo cieco nel quale la politica italiana si è purtroppo infilata, anche alla luce dei risultati dell’ultima tornata elettorale di febbraio scorso.
Auguri Presidente!
Il dialetto “tarnuése” nel contesto della lingua napoletana!
Laura Francavilla, dottoressa in Lingue e Culture moderne e attualmente laureanda specialistica in Lingue straniere per le comunicazioni internazionali all’Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, mi ha recentemente contattato via e-mail per mettermi al corrente del fatto che aveva avuto modo di leggere alcuni dei miei articoli, pubblicati sul sito www.paginedipoggio.com, dedicati agli ispanismi nel dialetto tarnuése e che, avendoli trovati interessanti, avrebbe voluto prenderli in considerazione come punto di riferimento per la realizzazione di uno dei capitoli della sua tesi sperimentale dedicata agli ispanismi nel dialetto napoletano, unitamente al mio libro “Ddummànne a l’acquarùle se l’acqu’è fréscijche, Detti, motti, proverbi e modi di dire Tarnuíse”, Edizioni del Poggio, 2008, che sarebbe stato, allo stesso modo, menzionato nella stesura della suddetta tesi di laurea specialistica.
E, dunque, avendo la dottoressa Francavilla l’esigenza di rivolgermi alcune specifiche domande in merito al dialetto tarnuése, abbiamo concordato di realizzare – tra noi due – una colloquiale intervista sul tema.
Ne è scaturito un interessante quanto inaspettato lavoro di approfondimento, che merita senz’altro di essere portato a conoscenza dei cultori oltre che degli appassionati della materia, tant’è che abbiamo convenuto di renderlo pubblico attraverso la sua divulgazione on line.
Buona lettura!
INTERVISTA
Laura Francavilla:
Il dialetto tarnuése può essere considerato a buon diritto, degno erede della lingua (o dialetto) napoletana, da sempre ritenuta prestigiosa varietà linguistica meridionale per il suo indistinto patrimonio culturale, caratterizzato dall’influenza di molteplici culture, tra cui la cultura spagnola (e anche francese). Una sua considerazione (o un omaggio) in merito a queste due culture (napoletana e spagnola).
Lorenzo Bove:
Nel mio libro “Ddummànne a l’acquarùle se l’acqu’è fréscijche”(1) asserisco che il dialetto tarnuése risente dell’influenza di un numero considerevole di dialetti e di lingue, dovuta alla variegazione della provenienza della sua popolazione, ma che il primo posto è sicuramente riservato al dialetto o più propriamente alla lingua napoletana, non foss’altro che per la passata appartenenza del territorio al Regno di Napoli. A maggior ragione per Poggio Imperiale, ove rilevante fu lo specifico apporto del Principe Placido Imperiale (2) della Corte di Napoli e del suo entourage napoletano in tutto il processo di costituzione nel 1759 del nuovo insediamento (l’attuale comune di Poggio Imperiale, in gergo denominato “Tarranòve”, ossia terra nuova), voluto espressamente dallo stesso Don Placido Imperiale, Principe di S. Angelo dei Lombardi (Avellino), divenuto proprietario il 15 febbraio 1753 del Feudo A.G.P. (Ave Gratia Plena), comprendente la già esistente città di Lesina, l’omonimo lago ed altri territori limitrofi.
E, per gli effetti conseguenti, i francesismi e gli ispanismi che avevano nel tempo influenzato la lingua napoletana sono naturalmente, e con maggior forza rispetto agli altri paesi viciniori, trasmigrati nel dialetto tarnuèse. E, con essi, alla stessa stregua, sono statitramandati ai Tarnuíse anche i relativi usi, costumi e tradizioni. Una cultura illuminata per l’epoca (3), quella manifestata dall’illustre rappresentante della Corte di Napoli, il quale, abbracciando le idee illuministe del tempo, diede inizio ad un grande esperimento di colonizzazione, offrendo gratuita ospitalità a numerose famiglie italiane e straniere. Fece disboscare una collina, denominata Coppa Montorio, situata tra Apricena e Lesina, per costruirvi una grande masseria attorniata da alcune piccole case, un oratorio rurale dedicato a San Placido con San Michele tutelare ed una palazzina per il suo amministratore; un qualcosa che aveva assunto l’aspetto di una vera e propria (moderna) azienda agricola. Vi insediò subito 15 famiglie provenienti da San Marco in Lamis, Bonefro, Portocannone, Foggia, Bari e Francavilla e, successivamente, il Principe Imperiale concordò con alcuni capifamiglia albanesi l’insediamento nel nascente paese di Poggio Imperiale di una colonia, che comunque non vi restò per molto tempo. Ed il commercio divenne fiorente in quanto i prodotti agricoli venivano trasportati a Napoli ed in altre località, grazie anche alla vicinanza del mare e del fiume Fortore. Segnali, questi, di un patrimonio culturale di alto profilo, verosimilmente conseguenza dall’influenza di molteplici culture, tra cui non possiamo escludere quelle francesi e spagnole.
Va da sé che il confronto con diverse realtà, foss’anche in regime di subordinazione a causa dell’occupazione da parte di altri stati (come avvenne per Napoli da parte dei francesi e degli spagnoli), offre comunque l’opportunità di rimettersi in discussione e guardare al di là del proprio limitato raggio d’azione, acquisendo quel quid, quella marcia in più che fa poi la differenza. E non è detto che abbiamo sempre ragione noi e che siamo noi e soltanto noi i portatori della verità. E’ proprio nel confronto con gli altri che impariamo a comprendere che “l’unione fa la forza”, come si suol dire. E questo vale anche per la cultura in generale ed è così che fioriscono le arti, le scienze ed altro ancora.
Laura Francavilla:
Nell’articolo e nel capitolo del suo testo in cui si parla in modo specifico del dialetto tarnuése, lei afferma che nonostante la naturale tendenza all’omogeneizzazione con i dialetti circostanti, il dialetto tarnuése presenta delle diversità dal parlato dei paesi viciniori (Lesina, San Nicandro Garganico, ecc.).
Tra gli ispanismi presi in considerazione nel suo libro, potrebbe scegliere pochi esempi che dimostrino la diversità?
Lorenzo Bove:
Nel mio libro sostengo che gli avvenimenti che hanno caratterizzato la costituzione del nuovo insediamento, ad opera e per volontà del Principe Placido Imperiale della Corte di Napoli, potrebbero aver “ulteriormente esaltato l’integrazione del dialetto napoletano nella parlata tarnuèse originaria, piuttosto che nei dialetti parlati negli altri paesi viciniori”.
Ed aggiungo, poi, che “ne è prova il fatto che i dialetti parlati a Lesina, Apricena, San Nicandro Garganico e San Paolo Civitate, presentano ancora oggi delle diversità rispetto al tarnuèse, nonostante la naturale tendenza all’omogeneizzazione”.
Occorre innanzitutto evidenziare che il Feudo A.G.P. (Ave Gratia Plena) aveva un suo insediamento che nel tempo si era consolidato nel territorio di giurisdizione, e ciò ancor prima di passare nella proprietà di Don Placido Imperiale. La popolazione ivi residente parlava quindi la propria lingua, frutto delle diverse trasformazioni avvenute nei secoli, fino a conformarsi con l’idioma napoletano in quanto parte Regno di Napoli; una lingua napoletana sebbene con influenze, com’è naturale che fosse, derivanti dalla stratificazione delle precedenti antiche parlate.
Il nuovo insediamento (Poggio Imperiale o Tarranòve che dir si voglia) è invece molto più recente; la sua fondazione risale solamente all’anno 1759, con una popolazione (nuova) proveniente in maggior parte dell’esterno del Feudo. E’ del tutto evidente che, su di essa, più forte si è riverberata l’influenza organizzativa ed anche lessicale del Principe Imperiale e del suo entourage napoletano, per cui la parlata che ha preso il sopravvento è stata senza dubbio quella napoletana “più pura ed attuale” (per l’epoca, s’intende). E dunque, il modo d’esprimersi tarnuèse, si svelò “un po’ più napoletano” di quello dei paesi del circondario.
E, come scrivo nel mio libro, “il napoletano si è ulteriormente affermato a Poggio Imperiale in relazione alla frequentazione dei suoi abitanti a Napoli per motivi di studi, ma anche per l’apprendimento delle arti e dei mestieri. Ragione per cui il napoletano ha cominciato con il rappresentare il modo di parlare forbito del ceto più abbiente”.
E’ dello stesso avviso anche il Prof. Alfonso Chiaromonte (4), il quale sostiene che “il napoletaneggiante puro resta la maggior parlata dialettale del comune [Poggio Imperiale, n.d.a.], perché è stato il linguaggio colto, così chiamato dal popolo, che distingueva i proprietari terrieri e i professionisti da tutto il resto della popolazione”.
Ma, francamente, stiamo parlando di due secoli e mezzo orsono; nel corso degli anni i linguaggi subiscono inevitabili mutazioni e, pertanto – come spiego anche nel mio libro – la destinazione a Poggio Imperiale di famiglie, provenienti da diverse località, “ha finito comunque con l’influenzare e dunque modificare nel tempo lo stesso dialetto napoletano”, generando in ogni caso un suo specifico idioma che caratterizza e contraddistingue, oggi, i tarnuìse rispetto agli abitanti dei paesi vicini.
Si tratta – però – di differenze riguardanti, ad esempio, un’inflessione diversa, una vocale un po’ più aperta o più chiusa pronunciata magari in maniera più lunga o più stretta oppure cantilenante, o anche una difforme cadenza (calata) nella intonazione ovvero nel lessico. Mentre i francesismi e gli ispanismi parrebbero essere uniformemente assorbiti nei diversi dialetti.
Qualche esempio:
– Cordicella => Poggio I. = Zukuléll(e) S. Nicandro G. = Zukulèdd(e)
– Lampascioni => Poggio I. = Lambascijul(e) S.Paolo C. = Vambascijl(e)
– Midollo => Poggio I. = M(e)dúll(e) Lesina = M(e)dòll(e)
– Ossa => Poggio I. = Óss(e) o anche Óss(e)r(e) Apricena = Jòss(e)
Laura Francavilla:
Una sua semplice considerazione sul futuro dei dialetti locali e nel suo caso del dialetto tarnuése.
Lorenzo Bove:
Riprendo, sempre dal mio libro, alcuni spunti.
“La tradizione consiste nel tramandare notizie, memorie e consuetudini da una generazione all’altra, attraverso l’esempio, le informazioni, le testimonianze e gli ammaestramenti orali e scritti”.
Ed ancora, “Lasciare che il tempo e l’incuria della gente permetta che le opere del passato, le gesta dei popoli antichi, gli usi e i costumi, le usanze e le tradizioni finiscano con l’essere a poco a poco coperti dalla polvere dell’oblio, fino a svanire inesorabilmente dalla mappa delle umane conoscenze, rappresenta davvero un crudele destino”.
Ebbene, i dialetti – compreso quello tarnuèse – rappresentano un patrimonio culturale inestimabile da preservare coerentemente, “non sicuramente con l’intento di erigere steccati o prefigurare divisioni – in un mondo che tende invece alla globalizzazione e dove qualsiasi forma di isolamento è da ritenere deleteria – ma, piuttosto, per valorizzare la variegazione dei dialetti come patrimonio di conoscenza e dunque come opportunità per la loro divulgazione […] soprattutto per i giovani e per le future generazioni”.
Sostiene il Prof. Giuseppe De Matteis (5) che “in tempi come i nostri, in cui l’anglicizzazione e la burocratizzazione hanno molto contaminato la lingua italiana parlata e scritta, con la triste eredità di un notevole impoverimento espressivo, il riavvicinamento al dialetto parlato e scritto […] può sicuramente rivelarsi utile per il recupero e la conservazione nei secoli futuri della creatività, della vitalità e dell’autonomia espressiva”.
Nello specifico, con riguardo al dialetto tarnuése, “ritengo, personalmente, che il culto delle tradizioni poggioimperialesi e l’amore della storia del nostro paese debbano prevalere, sempre, […] e rappresentare il vero collante nella ricerca delle nostre […] radici” (6).
Note
(1) Lorenzo Bove, “Ddummànne a l’acquarùle se l’acqu’è fréscijche, Detti, motti, proverbi e modi di dire Tarnuíse”, Edizioni De Poggio, 2008.
(2) Il Principe Placido Imperiale era “Grande di Spagna di Prima Classe”, massima dignità nobiliare concessa ai fedelissimi del Re di Spagna; titolo che forniva parecchi privilegi. Era inoltre un Feudatario con tutte le sue prerogative ed amministrava il primo grado della giustizia sia civile che penale. Questo l’elenco dei suoi possedimenti: Principe della Città di Sant’Angelo dei Lombardi, Signore della Città di Nusco, e Lesina, e delle Terre dei Leoni, Andretta, Carbonara, e San Paolo, ad meno, che de Feudi inabitati di Monticchio, ed Oppido, e de’ Casali di S.Bartolomeo, S.Guglielmo, e Pontelomito, ed altri annessi, ed adjacenti alle Suddette Città, e Feudi e con l’estensione della Giurisdizione ad altre prerogative in tutto il Territorio di Sua Maestà di Ripalta (cfr. Antonietta Zangardi “Poggio Imperiale 1759 – Nuovi documenti sulle origini e sulla sua fondazione, Edizioni del Poggio, 2012).
(3) Negli ultimi decenni, a partire dal libro “Poggio Imperiale, Noterelle paesane” di Alfonso De Palma, Edizione il Richiamo, 1984, si è destato l’interesse in materia da parte di alcuni insigni poggioimperialesi, in particolare Alfonso Chiaromonte, Giovanni Saitto e Antonietta Zangardi, i quali hanno sapientemente effettuato approfondite ricerche, consentendo così di poter allargare gli orizzonti conoscitivi rispetto alle scarne e superficiali notizie esistenti precedentemente.
Interessante l’ultimo libro di Giovanni Saitto “La rivoluzione agraria di Placido Imperiale e la fondazione di Poggio Imperiale”, Natan Edizioni, 2012, un volume ricco di preziosi e inediti documenti di archivio.
Dello stesso autore, anche “Poggio Imperiale, Cento anni della sua storia: dalle origini all’unità d’Italia”, Foggia 1993; e “Poggio Imperiale, storia, usi e costumi di un paese della Capitanata”, Foggia 1997.
(4) Alfonso Chiaromonte, Dizionario del dialetto di Poggio Imperiale “U Tarnuèse”, Edizioni del Poggio, 2007, pag. 13
Dello stesso autore, anche “Da Fattoria a Poggio Imperiale”, Lucera 1997; “La Capitanata tra ottocento e novecento, Poggio Imperiale nella sua vita politica e amministrativa”, Poggio Imperiale 2002 e “Tarranòve, un ritorno alle nostre radici”, Edizioni del Poggio, 2006.
(5) Giuseppe De Matteis, Università di Pescara e Foggia, Prefazione al Dizionario del dialetto di Poggio Imperiale “U Tarnuèse” di Alfonso Chiaromonte, op. cit,, pagg. 8 e 9.
(6) Lorenzo Bove, “A proposito della fondazione di Poggio Imperiale”, Sito/Blog www.paginedipoggio.com alla pagina http://www.paginedipoggio.com/?p=3615, articolo divulgato in occasione della pubblicazione del libro “Poggio Imperiale 1759 – Nuovi documenti sulle origini e sulla sua fondazione” di Antonietta Zangardi, Edizioni del Poggio, 2012.
Habemus Papam!
A soli tredici giorni dalle dimissioni del Papa Emerito Benedetto XVI, avvenute alle ore 20,00 del 28 febbraio scorso, stasera, nel corso della seconda giornata di votazione, al quinto scrutinio segreto, i 115 Cardinali elettori riuniti nella Cappella Sistina hanno scelto il nuovo Papa.
E’ l’argentino Jorge Mario Bergoglio, 76 anni, già Arivescovo di Buenos Aires, che si è dato il nome di Francesco.
Papa Francesco: il primo Papa della storia ad assumere il nome di Francesco, il primo gesuita a diventare Papa, il primo sudamericano a San Pietro e il primo Papa extra europeo.
Sembra proprio un buon segno!
La fumata bianca alle ore 19,06 e l’annuncio dell’ Habemus Papam verso le 20,15; subito dopo il saluto di Papa Francesco alla folla dei fedeli accorsa in piazza San Pietro, alla quale ha impartito la sua prima solenne Benedizione pontificia.
Queste le prime parole del nuovo Papa: “Fratelli e sorelle buonasera, voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un vescovo a Roma e sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo alla fine del mondo…ma siamo qui”.
La gioia della gente che gremiva la piazza è divenuta incontenibile; “Francesco! Francesco!” acclamavano gli oltre centomila fedeli presenti.
La nazionalità del nuovo Papa e la scelta del nome, quello del Santo di Assisi, possono già delineare l’attenzione di Papa Bergoglio per i poveri.
“Cominciamo un cammino di fratellanza, amore, di fiducia fra noi – ha detto Papa Francesco – “Preghiamo l’uno per l’altro, per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza;Vi auguro che questo cammino di Chiesa che oggi cominciamo sia fruttuoso per la evangelizzazione di questa bella città”.
Il Conclave era iniziato soltanto ieri pomeriggio, dopo la messa del mattino “pro eligendo Pontefice” ed il preventivo giuramento dei Cardinali elettori.
“Che sì jùte a Cevetèlle?”
Ho letto con vivo interesse alcuni recenti articoli di Raffaele de Seneen pubblicati su “Gazzettaweb.info” (giornale online al quale da tempo collaboro dalla Redazione Nord), riguardanti favole estratte “dai cassetti della memoria di AUSER-FOGGIANTICA – Favole foggiane”.
Sono particolarmente attratto dalle storie e dai ricordi che riescono a ricondurci, come per incanto, al nostro passato, alle nostre tradizioni di un tempo che non c’è più, e che costituiscono il legame indissolubile tra il presente e tutto quello che lo ha preceduto, mettendo peraltro in luce la schiettezza e la semplicità di come eravamo.
Ed è con questo spirito che ho scritto nel 2008 un libro dal titolo “Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche – Detti, motti, proverbi e modi di dire Tarnuíse” – Edizioni del Poggio.
Un lavoro di ricerca, che mette in luce antichi aspetti di Poggio Imperiale – il mio paese di origine – simboleggianti un prezioso patrimonio da non disperdere, anche per fornire alle nuove generazioni testimonianza di una tradizione che deve necessariamente sopravvivere, poiché non ci può essere futuro senza memoria. [Per maggiori approfondimenti, si rimanda alle pagine di questo stesso Sito/Blog www.paginedipoggio.com].
Relativamente ai citati articoli di Raffaele de Seneen, è mio intendimento – in questa sede – soffermarmi per qualche istante su quello intitolato “A maèstre ‘u panarìlle (La maestra del panierino)” del 15/12/2012, in quanto l’autore ci porta a conoscenza del vecchio modo di dire foggiano:“Che sì jùte a Cevetèlle!?” (Che sei andato a scuola alla Civitella?), aprendo – nel contempo – un interrogativo circa le motivazioni che potrebbero averlo generato, oltre che riguardo all’effettiva esistenza di una scuola denominata “Civitella” in quel di Foggia.
La cosa, a dire il vero, mi ha incuriosito a tal punto che, a puro titolo personale, ho cominciato a fare qualche ricerca in proposito.
Queste le conclusioni alle quali sono pervenuto.
” Nel corso dell’anno 1829, Monsignor Antonino Maria Monforte, Vescovo della Diocesi di Troia (1824-1854), alla quale Foggia apparteneva per “giurisdizione spirituale”, si recò nella Città di Foggia per eseguire la Santa Visita, che lo impegnò per molto tempo.
In quel periodo, eresse uno stabilimento di educazione per i giovani sotto il nome di Convitto o Scuola Ecclesiastica, che godeva dei privilegi accordati ai Seminari Diocesani. Dotò la Scuola Ecclesiastica di lire ottocentocinquanta annue per concessione avvenuta nel 1837 della Commissione esecutrice del Concordato del 1818, derivante da censi suolari, una volta posseduti dai PP. Minori Osservanti di Gesù e Maria.
E, così, Monsignor Monforte acquistò con mezzi propri e con il concorso del Municipio di Foggia per ducati tremila l’ampio casamento, denominato “Civitella”, destinando la parte superiore a Seminario Scuola Ecclesiastica e le rendite dei fondaci a beneficio di essa.
Eretta in Foggia la Cattedra Vescovile con Bolla del 25 Giugno 1855, la Scuola Ecclesiastica fu tramutata con tutte le sue rendite in Seminario Diocesano”.
Le presenti fonti sono rinvenibili nella storia della Biblioteca Diocesana di Foggia accessibili sul sito http://www.bibliotecaprovinciale.foggia.it/sbp/Diocesana_fg/biblioteca.htm.
Orbene, alla luce delle suddette informazioni, credo che possiamo avanzare una prima ipotesi di risposta circa l’eventuale esistenza di una scuola “Civitella”, sostenendo che – probabilmente – c’è stata a Foggia una Scuola Ecclesiastica insediata nell’antico casamento denominato “Civitella”.
Più difficile risulta, invece, poter individuare le motivazioni che hanno generato il detto foggiano, soprattutto nei termini interpretativi esplicitati dallo stesso Raffaele de Seneen, il quale, testualmente, sostiene che « ‘A scòle ‘a Cevetèlle (la scuola della Civitella), che ricordo nelle sue varie forme ed occasioni di utilizzazione se non proprio in modo spregevole, almeno minimizzante, ridicolizzante: “Che sì jùte a Cevetèlle!?” (che sei andato a scuola alla Civitella?), a voler significare di aver imparato poco o niente ».
Appare infatti abbastanza azzardato ipotizzare che gli allievi di una Scuola Ecclesiastica (o Seminario) non imparassero “proprio niente”, anche perchè alcuni di essi venivano poi avviati verosimilmente alla vita sacerdotale.
Occorre, dunque, ricercare altrove motivazioni più coerenti e convincenti, riportandoci piuttosto al periodo storico cui ci si riferisce, allorchè il livello di istruzione giovanile era notoriamente e diffusamente precario, soprattutto in considerazione del peculiare momento della nostra storia patria.
E, forse, proprio in tale contesto, il particolare tipo di scuola (ecclesiastica), ove l’insegnamento era presumibilmente affidato ai sacerdoti del tempo, esponeva i medesimi allievi ad una condizione di inconsapevole “antagonismo” con i coetanei dell’epoca, che non frequentavano invece alcun tipo di scuola. Il giudizio “di merito” verso i soggetti che frequentavano la scuola “Civitella” potrebbe quindi aver avuto dapprima un significato di puro “sfottò”, fino a subirne, nel corso del tempo, il ribaltamento del senso, trasformandosi in un giudizio “negativo”.
Del resto, è notorio, che analoghe considerazioni venivano rivolte anche nei confronti dei rampolli delle casate nobiliari o comunque delle famiglie più abbienti, considerati poco avvezzi ad affrontare la “durezza” della quotidianità, che i “figli del popolo” dovevano – obtorto collo – giornalmente fronteggiare.
Ma, questa, è solamente un’ipotesi; magari un’ipotesi azzardata e lontana dal significato che al “modo di dire” si intendeva veramente attribuire. Sta di fatto, però, che – comunque sia – la circostanza ha destato interesse e “scatenato” la fantasia, come solo le favole di un tempo sapevano fare.
Foto: “Il Palazzo della Posta – Duca di Civitella” (demolito nel 1952 per motivi igienico-sanitari), in “La Foggia che non c’è più” di Alberto Mangano www.manganofoggia.it
Par agevolare il lettore, si riporta qui di seguito l’articolo di Raffaele de Seneen.
‘A maèstre ‘u panarìlle (La maestra del panierino)
Scritto da redazione il 15/12/2012
Un vecchio e ormai desueto modo di dire, specialmente oggi che di scuole pubbliche e private, di ogni indirizzo, ordine e grado ne abbiamo tante.
La nostra maestra, invece, quella del panierino, non aveva titoli e forse neanche predisposizione o vocazione, ma era solo una semplice donna del popolo che si elevava appena di una spanna sul suo restante mondo, sapeva appena leggere e far di conto.
A questo “modo di dire” ritrovato in un cassetto della mia memoria che l’amico Giuseppe D’Angelo, al secolo e in arte Pinuccio, ha involontariamente aperto, ne lego un altro: “ ‘A scòle ‘a Cevetèlle “ (la scuola della Civitella), che ricordo nelle sue varie forme ed occasioni di utilizzazione se non proprio in modo spregevole, almeno minimizzante, ridicolizzante: “Che sì jùte a Cevetèlle!?” (che sei andato a scuola alla Civitella?), a voler significare di aver imparato poco o niente.
Ora io non so se questa scuola “Civitella”, o qualcosa di simile sia esistita veramente, certo è che a Foggia esiste una via con questo nome che porta ad un omonimo Largo, il tutto nelle prossimità di Via le Maestre, toponimo che ha tutt’altra genesi rispetto a come lo si può leggere oggi.
Quindi, se qualcosa c’è stato di sicuro rispetto ad una scuola, alla sua ubicazione, può essere anche solo un caso questa contiguità toponomastica.
Resta il fatto che il senso minimizzante dato alla scuola della Civitella, e l’improvvisazione della maestra del panierino, mi portano a farne un tutt’uno, o quanto meno a riscontrarne forti similitudini.
Ma torniamo alla nostra maestra del panierino, è Rosa De Stasio, classe 1896, bisnonna, ramo materno, del nostro Pinuccio.
Ce ne saranno state sicuramente altre a Foggia, nello stesso periodo di nonna Rosa, in altre epoche, luoghi, rioni, ma è già tanta la fortuna di averne “conosciuta” una: maestra Rosa, o meglio, come la conoscevano tutti: Rusenèlle ‘a maèstre ‘i criatùre.
Pinuccio ricorda che il marito di nonna Rosa partì per la guerra, addetto alle comunicazioni, decorato, non tornò più.
A nonna Rosa, allora giovane, restò un figlio a cui cambiò il nome dandogli quello del marito deceduto in guerra, Peppenìlle, e dovette inventarsi un modo di vivere e tirare avanti, che mutò secondo i cambi di residenza in città.
Prima in Vico Troiano, prossimità Via Arpi, una specie di locanda dove preparava il desinare per i forestieri che venivano a trovare i ricoverati all’ospedale e alla maternità, da ultimo in Via San Severo s’inventò “maestra”. Teneva a bada in casa sua i bambini che nel “panariello” (cestino), chi lo aveva, portavano un po’ di merenda. Erano i figli più piccoli dei terrazzani del quartiere che glieli affidavano per esercitare la loro arte nomade della caccia, della raccolta delle erbe spontanee, nei periodi della coltivazione di piccoli campi a pisello o fave (i versurieri), della scerbatura o spigolatura del grano,
Per tenerli buoni e interessati fino al ritorno dei genitori bisognava impegnare quei bambini con racconti, filastrocche, semplici giochi e qualche rudimento sui numeri e sulle lettere dell’alfabeto, chissà mai fosse servito in età scolare.
E Pinuccio, foggianazzo, sentimentalone, memoria stoica della famiglia dice, riferendosi a nonna Rosa: “Alcune cose le ho dimenticate, ma questa no, perché a lezioni da nonna Rosa ci andavo anch’io”! e mi recita una piccola filastrocca:
A – tènghe a cacA’
E – il vasino non c’E’
I – eccolo lI’
O – sòtte ‘o chemO’
U – Nen tènghe a fa’ chiU’
Questa era nonna Rosa, ‘a maèstre ‘u panarìlle, chissà quanti terrazzanelli hanno imparato le vocali con questo metodo.
Le vocali, e forse i numeri fino a dieci, per quei tempi, già qualcosa.
Raffaele de Seneen
Il Papa se ne va!
“Le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte”, ha detto stamane il Santo Padre.
Alle 11:46 ora italiana di oggi il Papa, Benedetto XVI, ha annunciato le sue dimissioni dal Soglio di Pietro, a far data dal prossimo 28 febbraio 2013, ore 20:00.
Una notizia che ha colto tutti di sorpresa; il mondo intero ed il popolo cattolico, in particolare, si chiedono il perché di questa improvvisa decisione di allontanamento volontario dal Suo importante e delicato alto ministero.
Pare che i motivi siano chiari ed evidenti, come peraltro da lui stesso enunciati.
Si è dichiarato infatti di non essere più in grado di poter assolvere, serenamente e con le forze fisiche necessarie, ai gravosi impegni che il ruolo di Sommo Pontefice richiede, soprattutto in relazione all’evoluzione dei tempi attuali.
Benedetto XVI ha 85 anni (e 301 giorni) ed è il papa più anziano in carica dai tempi di Leone XIII che concluse il proprio pontificato nel 1903 a 93 anni, dopo 25 anni di papato. Giovanni Paolo II morì a 84 anni (e 319 giorni), dopo 26 anni di pontificato.
Ma si tratta davvero di una novità?
Assolutamente no!
Se n’era parlato già da tempo, e lo stesso Santo Padre non aveva escluso affatto eventuali dimissioni, in presenza di “particolari condizioni”.
Il 10 marzo del 2012 “il Foglio” pubblicò un articolo, firmato da Giuliano Ferrara, sulla possibilità che il Papa si dimettesse.
La circostanza delle dimissioni papali è sicuramente rara, ma nella storia è già avvenuta più volte.
Ecco l’elenco dei Papi dimissionari nella storia della Chiesa http://www.linkiesta.it/dimissioni-papa :
1) Papa Clemente I (in carica dal’88 al 97 );
2) Papa Ponziano (in carica dal 230 al 235);
3) Papa Silverio (in carica dal 536 al 537);
4) Papa Benedetto IX (1032-1045);
5) Papa Celestino V, detto il Papa del Gran rifiuto (rimase in carica dal 29 agosto al 13 dicembre 1294);
6) Papa Gregorio XII (in carica dal 1406 al 1415).
Anch’io (e non io soltanto) avevo percepito già da tempo che qualcosa stava per succedere, tant’è che il 2 ottobre 2011 pubblicai su questo mio stesso Sito/Blog www.paginedipoggio.com , alla pagina http://www.paginedipoggio.com/?p=3026, un articolo dal titolo “Angelo Scola, il prescelto!”, in occasione della nomina del Cardinale Scola, già Patriarca di Venezia, ad Arcivescovo di Milano, presagendo nell’occasione le (possibili) dimissioni del Papa.
Riporto, qui di seguito, uno stralcio del citato articolo.
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Angelo Scola, il prescelto!
Il nuovo Arcivescovo di Milano sarà il futuro papa?
Si è parlato nei giorni scorsi di (possibili) dimissioni dell’attuale papa in primavera del prossimo anno, in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno, anche se le voci non hanno poi trovato riscontri e conferme ufficiali presso la Santa Sede.
Ma c’è forse qualche attinenza con la recente nomina dell’ex Patriarca di Venezia Angelo Scola ad Arcivescovo di Milano?
Sicuramente si tratta di una nomina ricca di significati; una scelta pastorale forte, visto il carisma del porporato, la sua visibilità internazionale, la fama di teologo, la discreta ma costante inclusione del suo nome tra i Cardinali “papabili”.
Una designazione che peserà sugli equilibri della Chiesa italiana, e non solo, soprattutto perché è il frutto di una scelta di Benedetto XVI, che ha consultato tutti e imposto alla Curia di seguire le procedure canoniche, ma poi ha deciso da solo.
Una nomina di grande spessore, e molti ritengono di poter annoverare il nome del nuovo Arcivescovo che si è insediato in quella che fu la Cattedra di Ambrogio, fra i “papabili” più autorevoli, visto che Milano ha dato nel passato secolo due Pontefici: Achille Ratti (Pio XI) e Giovanni Battista Montini (Paolo VI)…………………………””””””””.
Il pesce fresco di “Mimmo”: in Lombardia!
Sono da anni un affezionato cliente di “Mimmo” per almeno due ordini di motivi.
In primo luogo, com’è naturale che sia, perché mi ha sempre garantito un prodotto affidabile, fresco e di qualità e, in secondo luogo, perché mi ha permesso di mantenere, nel tempo, quel legame affettivo ai profumi e ai sapori della mia terra di origine.
Ma sicuramente non solo per questo, altrimenti ogni considerazione risulterebbe davvero riduttiva sia nei riguardi di “Mimmo” – come persona – ma anche per il buon pesce che egli propone alla sua clientela.
Lo trovo solitamente ogni venerdì mattina, sempre indaffarato, presso il suo “banco del pesce” al mercatino del venerdì, vicino casa mia, nel centro storico di Sesto San Giovanni, in via Oriani, proprio alle spalle del Comune.
Ma, all’ora della mia puntatina mattutina, “Mimmo” ha già accumulato diverse ore di lavoro sulle proprie spalle, poiché è in piena notte che egli si reca al mercato ittico generale di Milano – prima che l’asta del pesce cominci – per scegliere ed accaparrarsi le partite di pesce migliore e quindi poter allestire il suo “banco”, sin dalla primissima mattinata.
Dunque, sveglia alle due e cinquanta per l’approvvigionamento di pesce presso uno dei mercati ittici più grandi ed importanti d’Europa, ove in nottata arriva il pesce pescato la sera prima, per la delizia dei palati più raffinati ed esigenti, e alle sei in punto è pronto ad allestire il suo banco.
Una clientela davvero affezionata quella che anima e circonda il suo “posto di combattimento”.
Si, è proprio così, un vero e proprio “posto di combattimento”.
“Mimmo” è inarrestabile, tra il servire e consigliare i clienti, pulire il pesce a chi glielo chiede, ma anche nello scambiare quattro piacevoli chiacchiere con chiunque, sempre in tono cordiale e con tanto di sorriso.
Il pesce è sempre di ottima qualità, ma lui ti aiuta sempre e comunque a scegliere bene, dispensando saggi consigli, spesso anche sul modo più consono di cucinarlo.
Non di rado, qualche frutto di mare o anche qualche pescetto crudo gli finisce in bocca, nel mentre sta servendo; il che rappresenta un’ottima “reclàme” per un prodotto sano e affidabile.
Mimmo è di origini pugliesi, di Rodi Garganico per la precisione, e quindi a due passi da Poggio Imperiale, il mio paese di nascita.
Si è stabilito a Sesto San Giovanni sin dal 1978, subito dopo il servizio militare; è coniugato ed è padre di una signorina di quattordici anni, con un solo piccolo difetto: non mangia il pesce!
Evidentemente, il vecchio andante del “chi ha il pane non ha i denti” non passa proprio mai di moda; e la ragazza non sa proprio cosa si perde!
“Mimmo” è ormai un punto di riferimento non solo per noi pugliesi originari della terra della Daunia e del Gargano, ma di tanti “lombardi” che, a differenza di quanto si immagini, amano ed apprezzano il pesce, soprattutto quello buono e “sicuro”.
Il mio personale piacere viene particolarmente esaltato quando “Mimmo” mi informa che c’è pesce fresco di Manfredonia o di Lesina/Poggio Imperiale, proponendomi cicale (canocchie) vive e saltellanti, seppie nere con le loro delicatissime uova, cannolicchi, telline (quelle che noi chiamiamo “cuchigljie”) e vongole di Lesina/Poggio Imperiale, scampetti dell’Adriatico freschissimi, prelibatissime alicine e tante altre varietà di pesce, che rievocano in me i sapori, i colori e i profumi della mia terra di origine, e che poi mia moglie trasforma in virtuosissimi e gustosi manicaretti.
E, tutto questo, in Lombardia!
“Mimmo”, con il suo banco del pesce, lo si può trovare anche il sabato mattina presso il mercato “grande” del centro di Sesto, alle spalle della Basilica Prepositurale di Santo Stefano, in via Cairoli.
Ma, da “Mimmo”, bisogna andare preferibilmente molto presto, per poter scegliere bene e trovare maggiore assortimento; naturalmente dipende dai giorni, anche in base al pescato fresco che arriva al mercato ittico generale e al relativo andamento delle aste … delle quattro di mattina!
Foto di Lorenzo Bove:
- “Mimmo” al lavoro presso il suo banco del pesce, Sesto San Giovanni (Milano), 2013;
- “Linguine con delizie di mare” (cannolicchi, telline, vongole e scampetti provenienti dal banco del pesce di “Mimmo”), Sesto San Giovanni (Milano), 2013.
Quale migliore offerta se non quella di Tornatore!
E’ presente in questi giorni nelle sale cinematografiche italiane l’ultima pellicola di Giuseppe Tornatore dal titolo “La migliore offerta”.
Una storia d’amore, ma anche un racconto drammatico e, al tempo stesso, un giallo sulle relazioni umane; questa, in estrema sintesi, la trama del film scritto e diretto dal bravo regista italiano.
Un vero thriller d’autore che si snoda in una toccante storia d’amore, sbocciata per pura casualità e al limite dell’inverosimile, tra un attempato signore di sessanta anni e una ragazza di ventisette, avvolta da un alone di mistero, ove il celarsi diviene stimolo segreto alla scoperta.
Virgil Oldman, un esperto d’arte di grande fama, introverso e riservato ed anche un po’ misantropo, assai noto nel suo ambiente come battitore d’aste, viene contattato telefonicamente da Claire Ibetson, una ragazza che desidera venga fatta una stima delle opere site nell’antica villa dei suoi genitori, da poco deceduti.
Ma, ad ogni incontro fissato la giovane tuttavia non si presenta, inventando sempre una nuova scusa. Nasce quindi nel maturo antiquario il desiderio di svelare il mistero che si nasconde dietro tutto ciò: un’impresa, questa, che cambierà per sempre la sua vita.
Ossessionato dalla figura femminile, negli anni Virgil ha raccolto una collezione impressionante di ritratti di donna custoditi gelosamente in un’enorme stanza segreta della sua casa, dove quotidianamente ammira quei volti, che rappresentano l’unico rapporto sentimentale di una vita sacrificata agli affari. Coltiva pochissimi e selezionati rapporti personali: tra questi, quello col fidatissimo collega di lungo corso Billy e quello col giovane Robert, abile restauratore di congegni meccanici.
Il racconto drammatico, che ha come tema centrale i rapporti umani e il binomio “essere ed apparire”, nel gioco tra verità e finzione, prende presto le sembianze di un giallo che ruota intorno alla misteriosa ragazza – di cui viene solo in seguito svelata l’identità – la quale dice di soffrire di agorafobia, malattia che le impedisce di frequentare luoghi affollati o aperti, rivelando altresì di non uscire dalla villa da ben dodici anni.
E sullo sfondo proprio quel Robert, il tuttofare specialista di meccanica al quale Virgil si rivolge per sistemare un antico “automa”, i cui pezzi sono celati nella casa della ragazza. E, man mano che l’automa prende forma, frammenti del mistero della ragazza vengono manifestati e l’esperto d’arte si avvicina sempre più a lei, fin quando l’enigma non si svela completamente.
Una vera impresa ricostruire, rotella per rotella, gli ingranaggi dell’automa del ‘700 – attribuito a Jacques da Vaucanson – le cui ferraglie vengono alla luce dalle stanze della villa.
E, dunque, l’automa, l’agorafobica e il misantropo vengono allo scoperto a poco a poco, con tempi e modalità drammaticamente combinati. La storia decolla e il maturo Virgil comincia a trascurare i suoi importanti impegni di lavoro per dedicarsi interamente alla ragazza.
Era la prima volta in vita sua che gli succedeva una cosa del genere.
E, dal suo Assistente, felicemente coniugato, al quale domanda come sia la vita con una donna, si sente rispondere: “Vivere con una donna è come partecipare ad un’asta. Non sai mai se la tua è l’offerta migliore”. Molto enigmatico il responso, ma forse premonitore di quanto sarebbe di lì a poco accaduto.
Infatti, tutto sembra procedere come sperato, ma al suo ritorno da Londra, da quella che sarà la sua ultima asta, ultimo traguardo verso il coronamento di una lunga e fortunata carriera, egli si scoprirà derubato.
Il vero colpo di scena del film: inenarrabile, sensazionale!
Tutta la sua collezione personale di dipinti originali, un patrimonio dal valore inestimabile, è irrimediabilmente sparita.
Di Claire più nessuna notizia, né di Robert, il giovane tuttofare, e neanche del custode della villa. Ma anche il vecchio e fidato amico Billy – che si scopre essere l’autore del presunto ritratto della madre della ragazza custodito nella villa – fa parte del complotto.
Gli era stato inferto un colpo mortale: Virgil era stato subdolamente tradito, nei sentimenti più intimi e profondi, dalle persone più care; ed era stato altresì privato, con l’inganno, anche della sua straordinaria collezione di ritratti di donna custoditi gelosamente, volti di donne con le quali egli viveva in simbiosi, al di la del loro straordinario valore commerciale.
“In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico”: è una frase significativa del film che rappresenta la vera chiave di volta dell’ultima opera di Giuseppe Tornatore. Nella finzione cinematografica il concetto viene apparentemente attribuito alle opere d’arte, ma in effetti si riverbera con tutta la sua forza nella vita e soprattutto nei comportamenti dei personaggi che hanno ordito il complotto ai danni di Virgil Oldman.
Tornatore, nella parte conclusiva del film, ci mostra Virgil in una casa di riposo, in stato confusionale e sotto shock, vinto dal dolore. Con alcuni flash back vengono riesumati i suoi ultimi giorni di lucidità: nel bar – pub antistante alla villa, dove egli si reca per chiedere se qualcuno avesse notizie della sua dolce Claire, trova una nana, autistica e costretta su una sedia a rotelle, che gli rivela la propria identità: è lei la vera Claire e proprietaria dell’antica villa, che viene da lei stessa affittata soventemente a quelli che crede produttori cinematografici. E continua a cercarla, prende il treno e si reca a Praga; il finale lo vedrà attendere “una persona” seduto a un tavolo di un ristorante di Praga in cui Claire aveva raccontato di aver conosciuto l’ultima felicità.
“La migliore offerta” è dunque anche una bella lezione di vita, un insegnamento e una guida nei rapporti interpersonali quotidiani, in un mondo ove i “valori” spesso vengono sottovalutati se non completamente ignorati. Un film che, impreziosito dalle stupende musiche di Ennio Morricone, offre al pubblico l’opportunità di godere di uno spettacolo di elevato spessore artistico, etico e morale.
In ricordo di Maria, una donna del mio paese davvero speciale!
Nei giorni scorsi, a trent’anni dalla sua scomparsa, è stata commemorata a Poggio Imperiale la figura di una nostra cara compaesana che ha lasciato una traccia indelebile del suo percorso terreno, permeato di bontà, carità e di amore verso gli altri.
Maria Zangardi, una donna del mio paese davvero speciale.
Anch’io e mia moglie, che abbiamo avuto il piacere di conoscerla personalmente, ci sentiamo di poterne testimoniare le virtù, i pregi ed anche i meriti, pur avendo noi lasciato il paese tanti anni fa. Ma sicuramente gli anni della reciproca frequentazione sono stati sufficientemente significativi per poter apprezzare le sue qualità personali, oltre che il valore della sua opera, ispirata a principi di umiltà e svolta in un contesto di estrema sobrietà.
In occasione dell’evento, la dott.ssa Titti de Nucci ha scritto per lei un elogio funebre di grande spessore, che ha fatto da cornice alla celebrazione della Santa Messa, e particolarmente toccanti e profonde si sono rivelate le riflessioni e le parole dell’autrice.
Riporto, qui di seguito, un articolo della Prof.ssa Antonietta Zangardi, sorella della cara Maria, pubblicato il 26 dicembre scorso anche su “Gazzettaweb.info”, dal titolo “Un albero con le radici in Cielo ed i frutti sulla terra”, nel quale viene integralmente riportato il pensiero della de Nucci.
UN ALBERO CON LE RADICI IN CIELO ED I FRUTTI SULLA TERRA
Il 21 dicembre abbiamo ricordato i trent’anni della dipartita di Anna Maria Zangardi, chiamata da tutti Maria nella Parrocchia di S. Placido Martire a Poggio Imperiale.
Durante la celebrazione della S. Messa il Parroco, don Luca De Rosa, pur non conoscendo la figura carismatica di Maria, il suo amore per la Chiesa, la dedizione, l’umiltà e la costante disponibilità verso gli altri, verso gli ultimi, ha sottolineato l’importanza del ricordo nella Chiesa di quelle persone che hanno sempre svolto un ruolo di servizio nella storia della parrocchia.
La dott.ssa Titti de Nucci ha voluto ricordarla scrivendo una pagina, letta dopo la celebrazione dalla prof.ssa Maria Bove, delineando la personalità di Maria e la sua costante e discreta presenza nella parrocchia.
Di seguito riportiamo il significativo ricordo della dott.ssa De Nucci.
« Ricordare Maria oggi, a trenta anni dalla sua morte significa, prima di tutto, non tradire la sua autenticità, significa non lasciare spazio né alla retorica, né alla tentazione dell’enfasi che inesorabilmente ci fa ricordare solo le cose positive di chi non c’è più.
Il 21 dicembre di 30 anni fa, si compiva l’ultimo atto del cammino in terra di Maria, in compagnia di una malattia breve e violentissima che non aveva consentito nessuna possibilità di cura, né quasi aveva dato il tempo di comprenderne l’irreversibilità.
Mentre Maria entrava nell’eternità alla vigilia di quel Natale del 1982 e, con le parole del Papa Benedetto XVI si concretizzava il saluto dell’angelo alla futura madre di Gesù, che, secondo il Papa, è “ un invito alla gioia, a una gioia profonda e annuncia la fine della tristezza che c’è nel mondo di fronte al limite della vita, alla sofferenza, alla morte, alla cattiveria, al buio del male che sembra oscurare la luce della bontà divina”, di sicuro ella non lasciava solo il suo Poggio Imperiale! Quel “Tarranov” per cui, nei campi scuola dell’Azione Cattolica si era composta pure una canzone!
C’è un’immagine molto bella che dice che i santi sono alberi con le radici in Cielo ed i frutti sulla terra; siamo certi che Maria, dopo aver piantato le sue radici in cielo non ha mai smesso di far ricadere i suoi frutti su Poggio Imperiale. È vero che ci ha lasciato il suo esempio, la testimonianza della sua Fede semplice, certa, autentica, solida, ma è altrettanto vero che la sua presenza spirituale, la vicinanza e l’amore per le vicende di questo paesino si è sempre avvertita.
Durante la sua vita ha sempre condiviso problemi e gioie di ognuno, con una presenza che non invadeva, ma che garantiva la discreta e solidale vicinanza. All’interno della vita parrocchiale, della vita associativa dell’Azione Cattolica, dell’impegno educativo verso i bambini ed i giovani, Maria era una presenza certa, scontata, non banale, ma propositiva e fattiva. Si trattasse dell’impegno di preghiera, di azione o di testimonianza, Maria c’era. In Chiesa Maria aveva il suo posto fisso, tanti hanno fatto fatica ad abituarsi alla sua assenza in Chiesa. La sera un folto gruppo di giovani e donne si trovava in Chiesa per la “Benedizione” ed intonava con don Giovanni senior il Tantum Ergo, al termine si facevano quattro chiacchiere sul sagrato, qualche volta un gelato e due passi e così si compiva “la movida della sera del villaggio”.
Nei periodi liturgici più significativi bisognava incontrarsi più spesso, talvolta anche tutti i giorni, per organizzare, prepararsi e Maria era quella che catalizzava l’impegno di tutti e soprattutto non risparmiava energie, servizio, risorse, esempio per tutti di generosità sincera e totale. Vederla alle prese con spazzoloni e scope per tirare a lucido le Chiese o il Salone era per tutti esempio di umile servizio e vivente traduzione della lettera di San Paolo ai Corinzi “ la carità è paziente, è benigna la carità, non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.” Maria è stata veramente tutto questo nella sua autenticità.
Nell’udienza generale di mercoledì scorso (19 dicembre 2012), in vista del Natale il Papa ha fatto delle considerazioni che ci piace pensare dette anche per Maria: “Quanto più ci apriamo a Dio, accogliamo il dono della fede, poniamo totalmente in lui la nostra fiducia – ha assicurato il Papa additando come esempio Abramo e la Madonna – tanto più che egli ci rende capaci, con la sua presenza di vivere ogni situazione della vita nella pace e nella certezza della sua fedeltà e del suo amore”. A patto, però di “uscire da se stessi e dai propri progetti, perché la parola di Dio sia lampada che guida i nostri pensieri e le nostre azioni”.
Sembra proprio che il Papa parli di Maria Zangardi quando dice che “il sì di Maria alla volontà di Dio, nell’obbedienza della fede, si ripete lungo tutta la sua vita, fino al momento più difficile, quello della Croce”».
Grazie Maria per la tua vita, grazie per la tua testimonianza, la tua costante gioia, il tuo ottimismo. Grazie Signore per avercela donata, togliercela era nei tuoi progetti, per noi imperscrutabili.
Antonietta Zangardi
L’articolo di Antonietta Zangardi è pubblicato anche sul Sito: www.gazzettaweb.net
alla pagina: http://www.gazzettaweb.net/it/journal/read/Un-albero-con-le-radici-in-Cielo-ed-i-frutti-sulla-terra.html?id=796