Ad oggi (Bollettino della Protezione Civile del 27 aprile 2020 ore 18:00) sono 26.977 in Italia le persone decedute a causa della pandemia da coronavirus (Covid-19) su 199.414 casi di contagio appurati, ma il dato potrebbe a detta degli esperti essere di gran lunga superiore, poiché non tutta la popolazione (60 milioni) è stata sottoposta al tampone.
La Lombardia risulta la Regione più colpita (73.479 casi e 13.449 decessi), assieme al Piemonte e ad alcune province dell’Emilia Romagna, del Veneto e delle Marche.
Nel mondo sono 2.883.603 i casi confermati dall’inizio dell’epidemia e 198.842 i deceduti.
Il confinamento in casa (lockdown) al quale siamo costretti ormai da circa due mesi ci induce a trascorrere le ore delle nostre interminabili giornate facendo le poche cose che lo spazio di un appartamento ci consente di fare. E, oltre alla televisione, al computer e al telefonino cellulare, la lettura ritorna ad essere un passatempo interessante.
E così, tanto per cambiare, non bastano le notizie sul coronavirus trasmesse in maniera ossessionante su tutti i canali televisivi per ventiquattro ore al giorno, ma si vanno a rispolverare Manzoni, Boccaccio, ecc., non tanto per cercare un diversivo, ma – ostinatamente e masochisticamente – per trovare una qualche analogia con le pandemie dei secoli passati delle quali essi ce ne hanno fatto memoria attraverso le loro opere (I Promessi Sposi, Il Decamerone, ecc.).
Per chi come vive a Sesto San Giovanni, nel nord milanese, le analogie riscontrate sono sorprendenti; forse, per certi aspetti, anche un po’ inquietanti: la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna, che oggi risultano essere le Regioni più colpite dal Covid-19, sono i simboli di una schiacciante memoria storico-epidemica risalente agli anni Trenta del XVII secolo, allorché furono devastate dalla peste e le città di Milano, Bergamo, Como, Venezia, Padova, Verona, Bologna, Parma, Modena e Firenze ne furono spopolate. Certo, quello era un contesto igienico-sanitario di estrema precarietà, cui si sovrapponevano in modo preoccupante povertà e ignoranza, ma i fatti sembrano ripetersi, con parecchi elementi di affinità.
Grazie all’illuminante narrazione che Alessandro Manzoni ne fa nei Promessi sposi – primo esempio di romanzo storico della letteratura italiana – sulla base di approfonditi studi eseguiti dal medesimo scrittore, il contagio nei territori di Lombardia, Veneto, Piemonte, Toscana e Romagna, nel terribile 1630 causò presumibilmente circa un milione di morti.
Il Ducato di Milano, all’epoca sotto il dominio spagnolo, era attanagliato da una crisi economica profonda alla quale si aggiunse la carestia, che provocarono inevitabili disordini popolari e che nella narrativa manzoniana trovano ampia descrizione. In particolare, ai problemi legati all’offerta di frumento e, di conseguenza, di pane fecero seguito il rincaro dei prezzi e l’inevitabile speculazione. E il calmiere dei prezzi del pane, imposto dalle autorità, non previde la corsa ai forni e la successiva ressa, cosicché la popolazione si riversò per le strade e provocò veri e propri tumulti. Secondo Manzoni, il biennio 1627-1628 fu decisivo: l’eccessiva pressione fiscale a supporto delle spese di guerra e le cattive condizioni meteo misero in ginocchio l’economia. Si registrò, nel frattempo, un calo nelle esportazioni tessili e, ovviamente, nella produzione di manifatture italiane, che negli anni a venire furono sostituite da quelle delle Fiandre [e questa la dice lunga, rispetto a quanti oggi sottovalutano la gravità delle chiusure imposte, i cui effetti comportano inevitabilmente perdite di fette di mercato].
E quindi, a fronte di questi continui disagi, le stesse autorità furono spinte a richiedere presto la discesa dei Lanzichenecchi, le truppe del Sacro Romano Impero chiamate a riportare l’ordine nelle principali città. E si ritenne che la peste fosse stata portata proprio da questi soldati dell’impero germanico, i quali, nel dirigersi a Mantova, attraversarono Milano. Sebbene l’indagine epidemiologica del tempo non fosse basata sulle stesse risorse di cui ci avvaliamo oggi, anche allora ci si impegnò nella ricerca del paziente zero. Secondo alcuni, si trattò del soldato Pietro Antonio Lovato, sul cui cadavere sarebbe stato rinvenuto un bubbone ascellare, ma non si hanno certezze.
Nei Promessi Sposi, ecco cosa scrive Alessandro Manzoni nel cap. XXXI a tal proposito:
“Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come appare ancor meglio da tutto il contesto della sua relazione, i due fisici che, persuasi della gravità e dell’imminenza del pericolo, stimolavan quel corpo, il quale aveva poi a stimolare gli altri.
Abbiam già veduto come, al primo annunzio della peste, andasse freddo nell’operare, anzi nell’informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d’ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano.
Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso: e infatti, nell’osservare i princìpi d’una vasta mortalità, in cui le vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno indicare all’incirca, per il numero delle migliaia, nasce una non so quale curiosità di conoscere que’ primi e pochi nomi che poterono essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la precedenza nell’esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile. L’uno e l’altro storico dicono che fu un soldato italiano al servizio di Spagna; nel resto non sono ben d’accordo, neppur sul nome. Fu, secondo il Tadino, un Pietro Antonio Lovato, di quartiere nel territorio di Lecco; secondo il Ripamonti, un Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna. Differiscono anche nel giorno della sua entrata in Milano: il primo la mette al 22 d’ottobre, il secondo ad altrettanti del mese seguente: e non si può stare nè all’uno nè all’altro. Tutt’e due l’epoche sono in contraddizione con altre ben più verificate. Eppure il Ripamonti, scrivendo per ordine del Consiglio generale de’ decurioni, doveva avere al suo comando molti mezzi di prender l’informazioni necessarie; e il Tadino, per ragione del suo impiego, poteva, meglio d’ogn’altro, essere informato d’un fatto di questo genere. Del resto, dal riscontro d’altre date che ci paiono, come abbiam detto, più esatte, risulta che fu, prima della pubblicazione della grida sulle bullette; e, se ne mettesse conto, si potrebbe anche provare o quasi provare, che dovette essere ai primi di quel mese; ma certo, il lettore ce ne dispensa. Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini; appena arrivato, s’ammalò; fu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto un’ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò ch’era infatti; il quarto giorno morì. Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati. Due serventi che l’avevano avuto in cura, e un buon frate che l’aveva assistito, caddero anch’essi ammalati in pochi giorni, tutt’e tre di peste. Il dubbio che in quel luogo s’era avuto, fin da principio, della natura del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più. Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliare. Il primo a cui s’attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora tutti i pigionali di quella casa furono, d’ordine della Sanità, condotti al lazzeretto, dove la più parte s’ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo, di manifesto contagio. Sulle prime, le autorità, a quanto pare, sottovalutarono il rischio di contagio e la pericolosità della malattia, tant’è che, in piena crisi epidemica, non solo si celebrò pubblicamente la nascita del primo genito di Filippo IV, naturalmente senza badare agli assembramenti, ma, l’11 giorno del 1630, si concesse addirittura una processione religiosa, cui tanta gente prese parte nella speranza di un miracolo, per invocare l’intervento divino di San Carlo. A nulla valse l’iniziale rifiuto del Cardinal Borromeo. E non ci volle molto perché questi eventi si trasformassero in veicoli di diffusione della peste. Alessandro Tadino, già citato membro del Tribunale di Sanità, oltre che fisico, aveva più volte fatto notare la pressante esigenza di adottare misure di sicurezza, ma la negligenza di don Gonzalo Fernandez de Cordoba, prima, e quella di Ambrogio Spinola, poi, entrambi governatori della città, prevalsero sulle previsioni di medici e scienziati. Si narra che, nel primo periodo, le persone, contravvenendo sia alle norme del buon senso sia alle indicazioni dei medici, nascondevano i malati in casa, incuranti delle conseguenze. Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra’ poveri, cominciò a toccar persone più conosciute”.
Orbene, alla luce delle situazioni che stiamo vivendo oggigiorno, non sembra che molto sia cambiato – quattrocento anni dopo – in fatto di certezze, comportamenti, iniziative ed altro.
Infatti, tra pareri discordanti da parte degli esperti, studiosi, sapienti, dotti, luminari, uomini di scienza , e provvedimenti incerti e a volte contraddittori assunti dal Governo (limitazioni di diritti costituzionali attraverso semplici provvedimenti amministrativi: DPCM, invece che DPR da sottoporre al Parlamento per la conversione in Legge), dalle Regioni e dai Sindaci, con un Parlamento in ombra che stenta a svolgere efficacemente il proprio ruolo istituzionale, commissari straordinari e task force, anche oggi è davvero difficile capire cosa stia veramente succedendo!
Quattro secoli sono tanti, e tanti da allora sono stati i progressi della scienza e della tecnica … l’uomo è andato sulla Luna, conosciamo il DNA delle persone, ci rapportiamo in videochiamata da qualsiasi distanza e in qualunque ora del giorno e della notte con Whatsapp e Skipe, lavoriamo da casa in smart working, facciamo sondaggi, proiezioni, screening, algoritmi, ma a quanto pare nulla abbiamo fatto per prevenire calamità e sciagure di questa portata, rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto che non potevano che servirsi di strumenti empirici, considerando peraltro che si tratta di eventi ciclici nella storia dell’umanità.
Infatti, tra le grandi pestilenze nella storia dell’uomo, l’epidemia Covid 19 in corso in tutto il mondo, segue la prima pandemia del XXI secolo, l’influenza H1N1 del 2009, la prima che si è spostata a bordo degli aerei ed ha lasciato un bilancio di 575.000 morti.
Nel ‘900 si contano i 50 milioni di morti della Spagnola, che nel 1918 ha accompagnato la Prima Guerra mondiale mentre 40 anni più tardi è stata l’Asiatica a provocare oltre 1 milione di morti.
Nel 1968 è stato ancora un virus influenzale a colpire, la Hong Kong ancora 1 milione di morti. Ma le pestilenze hanno segnato la storia dell’uomo, come la Peste Antonina che fra il 165 e il 168 dopo Cristo ha provocato fino a 10 milioni di morti.
La Peste di Giustiniano, fra il 541 e 542 ha provocato fino a 50 milioni di morti.
La Peste nera fra il 1331 e il 1353 ha decimato la popolazione europea, provocando sino a 200 milioni di morti.
E, come si è visto, la peste sarebbe poi tornata prepotentemente nel 1629 a Milano, con un seguito nel 1656 a Napoli e nel 1676 a Venezia.
E, ciononostante, ci siamo dilettati a finanziare sprechi e cose inutili, trascurando la sanità … forse immaginando che l’evoluzione potesse portare con sé il dono dell’immortalità e la superiorità della specie umana sul resto del creato!
Ma siamo invece rimasti quelli che siamo veramente e cioè davvero piccoli, anzi, microscopici di fronte all’universo e poveri nello spirito, continuando ancora a rifugiarci dietro paraventi immaginari fatti di pressapochismo, fake news, presenzialismo, lesinando anche solo un po’ di spazio alla pietà per le tante persone decedute, presi come siamo dall’ingordigia dell’effimero successo personale, professionale, politico ed elettorale.
E bastano dei minuscoli virus (le più piccole strutture biologiche che hanno dimensioni da 18 a 300 nm, ove il simbolo nm = nanometro è un’unità di misura di lunghezza, corrispondente a 10−9 metri, cioè un miliardesimo di metro, pari ad un milionesimo di millimetro), per mettere in crisi profonda tutto il sistema degli esseri viventi (persone, animali e vegetali).
Ed anche Giovanni Boccaccio ci ha lasciato traccia delle incertezze, confusione e impreparazione registrate nel corso della cosiddetta Peste nera che colpì profondamente Firenze nel 1348, circa settecento anni or sono.
Lo ha fatto in apertura del Decamerone, dove contestualizza la fuga dei dieci giovani fiorentini dalla chiesa di Santa Maria Novella verso le campagne per una quarantena che avrebbe segnato la storia della letteratura:
“Nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. Non valendo alcuno senno né umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto [1348] orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti. Né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra ’l terzo giorno, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano. E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o l’avarizia de’ serventi. Tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra ’l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l’esser molti infermi mal serviti o abbandonati ne’ lor bisogni per la paura ch’aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l’accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti? O quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri per adietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser voti! O quante memorabili schiatte, quante ampissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere!”
E che dire anche qui dei giudizi espressi dal Boccaccio: “pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali”, ed ancora de “la ignoranza de’ medicanti [medici]”?
Le deprecate “operazioni dei corpi superiori”, forse anche allora vennero affidate a commissari straordinari e task force?
Il ricorso a tali strumenti infatti non è nuovo e se ne rinvengono tracce già nell’Antico Testamento e più precisamente nella Genesi, quando nell’imminenza della lunga carestia che avrebbe flagellato l’Egitto per sette lunghi anni, il Faraone nomina commissari straordinari e Giuseppe suo vicerè con poteri assoluti.
“Dio ha mostrato al faraone quello che sta per fare. Ecco, stanno per venire sette anni di grande abbondanza in tutto il paese d’Egitto. Dopo verranno sette anni di carestia; tutta quell’abbondanza sarà dimenticata nel paese d’Egitto e la carestia consumerà il paese. Uno non conoscerà più di quell’abbondanza nel paese, a causa della carestia che seguirà, perché questa sarà molto dura. Il fatto che il sogno si sia ripetuto due volte al faraone vuol dire che la cosa è decretata da Dio e che Dio l’eseguirà presto. Or dunque il faraone si provveda di un uomo intelligente e saggio, e lo stabilisca sul paese d’Egitto. Il faraone faccia così: costituisca dei commissari sul paese per prelevare il quinto delle raccolte del paese d’Egitto durante i sette anni d’abbondanza. Essi raccolgano tutti i viveri di queste sette annate buone che stanno per venire e ammassino il grano a disposizione del faraone per l’approvvigionamento delle città, e lo conservino. Questi viveri saranno una riserva per il paese, in vista dei sette anni di carestia che verranno nella terra d’Egitto; così il paese non perirà per la carestia».
Giuseppe fatto vicerè d’Egitto.
La cosa piacque al faraone e a tutti i suoi servitori. Il faraone disse ai suoi servitori: «Potremmo forse trovare un uomo pari a questo, in cui sia lo Spirito di Dio?» Così il faraone disse a Giuseppe: «Poiché Dio ti ha fatto conoscere tutto questo, non c’è nessuno che sia intelligente e savio quanto te. Tu avrai autorità su tutta la mia casa e tutto il popolo ubbidirà ai tuoi ordini; per il trono soltanto io sarò più grande di te». Il faraone disse ancora a Giuseppe: «Vedi, io ti do potere su tutto il paese d’Egitto». Poi il faraone si tolse l’anello dal dito e lo mise al dito di Giuseppe; lo fece vestire di abiti di lino fino e gli mise al collo una collana d’oro. Lo fece salire sul suo secondo carro e davanti a lui si gridava: «In ginocchio!» Così il faraone gli diede autorità su tutto il paese d’Egitto. Il faraone disse a Giuseppe: ‘Io sono il faraone! Ma senza tuo ordine, nessuno alzerà la mano o il piede in tutto il paese d’Egitto’ “.
E, dunque, anche oggi come allora, abbiamo la fortuna di avere commissari straordinari, task force e soprattutto un Giuseppe vicerè e pure Conte!
Da più parti si sente dire che la pandemia Covid-19 in corso rappresenterà lo spartiacque con il passato e ci proietterà verso un nuovo modo di porci ove i valori e i sentimenti prevarranno sulle cose futili.
Personalmente ci credo poco, davvero molto poco.
Come sempre … passata la festa … gabbato lo santo!