E sempre un piacere tornare a Padova, una bella e interessante città del Veneto, ricca di storia e di testimonianze architettoniche e religiose, che vanno oltre la mistica ritualità del pellegrinaggio alla Tomba di Sant’Antonio, le cui reliquie sono custodite nella sua grandiosa Basilica, conosciuta in tutto il mondo come la Basilica del Santo. E noi ci siamo tornati volentieri il 3 ottobre scorso, in treno con il Frecciarossa da Milano, accompagnati da una stupenda giornata di sole che ha fatto da cornice alla nostra escursione.
“Venezia la bella e Padova sua sorella“, recita un detto popolare. Il paragone con Venezia dovrebbe già far comprendere, a chi non è mai stato a Padova, cosa troverà durante la sua visita. La Cappella degli Scrovegni di Giotto, il più importante ciclo pittorico del mondo, basterebbe già da sola a giustificare la visita. E, sempre in tema di arte, i Musei Civici raccolgono una bella collezioni di pittori soprattutto veneti (Tiepolo, Tintoretto, Veronese) e nel Battistero del Duomo è perfettamente conservato un altro straordinario ciclo di affreschi, quello di Giusto de’ Menabuoi.
Le molte piazze cittadine, in particolare Piazza delle Erbe, della Frutta e dei Signori, svelano il piacere dei padovani (o patavini) per la socialità; una scelta insolita per gli abitanti di una città del Nord, dove il clima non è sempre clemente.
E, ancora, il Palazzo della Ragione (1208 circa) nei secoli sede del Tribunale, da cui prende il nome e che i padovani chiamano anche “Il salone” perché il primo piano è in realtà un unico ambiente a forma di salone, per molti secoli il più grande del mondo, a cui si accede dalla “Scala delle Erbe” in Piazza delle Erbe. Nel Salone è conservata la “Pietra del Vituperio“, un blocco di porfido nero di su cui i debitori insolventi erano obbligati a spogliarsi e battere per tre volte le natiche prima di essere costretti a lasciare la città. Pare che questa pratica abbia dato origine all’espressione “restar in braghe de tea”. Davanti al Salone (accanto al Palazzo Comunale) c’è il “Palazzo delle Debite“, adibito a prigione a cui si accedeva direttamente dal Palazzo della Ragione con un passaggio ormai distrutto.
Succede raramente di visitare una città e cercare qualcosa da vedere nell’Università locale. Quella di Padova, però, fa eccezione. Dal 1222 nelle aule di Palazzo del Bo (prende il nome da un’antica locanda di un macellaio) sono passati Leon Battista Alberti, Galileo Galilei, Niccolò Copernico e molte altre personalità che ne hanno fatto un’istituzione mondiale in molti campi della ricerca scientifica. Sono due i lasciti principali di 800 anni di cultura: il Teatro Anatomico e la Cattedra di Galileo Galilei. Il Teatro, voluto da Girolamo Fabrici d’Acquapendente nel 1594, è uno straordinario teatro in legno di noce che permetteva agli studenti di assistere, dall’alto, alle autopsie sui corpi. Un’iscrizione all’ingresso del teatro recita “Hic est locus ubi mors gaudet succurrere vitae“, cioè “E’ questo il luogo dove la morte gode nel soccorrere la vita“. Nella Sala dei Quaranta, così denominata per i quaranta ritratti di studenti stranieri, c’è la cattedra di legno da cui Galileo insegnò matematica e fisica dal 1592 al 1610.
I padovani vanno inoltre fieri del loro Prato della Valle, una piazza che misura ben 88620 mq e che, per estensione totale, è seconda solo alla Piazza Rossa di Mosca. Per comprendere quanto effettivamente sia grande, basta pensare che è formata da un’isola centrale, completamente verde, chiamata Isola Memmia in onore del podestà che commissionò i lavori. Intorno all’isola c’è una canale di circa 1,5 km di circonferenza, circondato da una doppia fila di statue numerate (78) di personaggi famosi del passato. Per raggiungere l’isola centrale ci sono 4 viali incrociati con relativi ponti sul canale. Prato della Valle sorge in un luogo da sempre fulcro della vita di Padova: qui c’era un grande teatro romano e un circo per le corse dei cavalli. Qui furono martirizzati due dei quattro patroni della città, Santa Giustina e San Daniele. Nel Medioevo si svolgevano fiere, giostre e feste pubbliche. Oggi in Prato della Valle turisti e padovani passeggiano, vanno in bicicletta, prendono il sole d’estate o fanno tardi la sera.
E, nel corso della nostra scarpinata padovana, passeggiando proprio nel Prato della Valle, si è prospettato innanzi a me e mia moglie il monumentale complesso dell’Abbazia di Santa Giustina, che all’apparenza potrebbe rappresentare una meta secondaria della città, ma che – al contrario – riserva sorprese molto interessanti.
Nel tempo in cui la Patavium (Padova) romana era nel suo massimo splendore, nella zona in cui ancora oggi sorge la Basilica e il Monastero di Santa Giustina, c’era uno o più sepolcreti dell’aristocrazia pagana e un cimitero cristiano. Qui il 7 ottobre del 304 fu deposto il corpo della giovane Giustina, messa a morte perché cristiana, per sentenza dell’Imperatore Massimiano, allora di passaggio a Padova.
Poco dopo il 520, ad opera di Opilione, prefetto del pretorio e patrizio, sorse la prima Basilica con l’attiguo Oratorio, decorata di marmi preziosi e di mosaici. Se ne ha una descrizione nel 565 in Vita S. Martini, Libro IV, 672-670, di Venanzio Fortunato.
La Basilica cimiteriale oltre alle spoglie della Patrona della città e diocesi, fu arricchita di corpi e reliquie di molti santi, luogo di sepoltura prescelto dai vescovi. Divenne così, già nel secolo VI, meta di pellegrinaggi dal momento che il culto di Santa Giustina era ormai diffuso nelle zone adiacenti al litorale adriatico. Bisogna risalire al 971 per avere notizie certe circa la presenza dei monaci benedettini a Santa Giustina, e questo per merito del Vescovo di Padova Gauslino, il quale col consenso del suo Capitolo ristabilì un monastero sotto la Regola di San Benedetto, dotandolo di beni territoriali, di chiese e cappelle in città e in campagna. Iniziò così lo sviluppo progressivo operato dai monaci, che tanti benefici apportarono a tutto l’agro padovano con le bonifiche terriere che trasformarono le immense paludi e le sterminate boscaglie in distese di fertilissime campagne.
Ma la cosa più interessante è la scoperta che nell’Abbazia di Santa Giustina sono conservate anche le spoglie di San Luca Evangelista.
San Luca Evangelista non era, come molti credono, uno dei dodici apostoli scelti da Gesù; egli venne invece citato e lodato più volte da San Paolo come suo fedele collaboratore nei viaggi che fece per evangelizzare le genti. Luca scrisse il Vangelo, che da lui prese il nome, e gli Atti degli Apostoli. Fonti antiche parlano della sua professione di medico ed una tradizione assai diffusa lo presenta anche pittore del volto di Cristo e soprattutto della Madonna. Tra le icone “lucane” una è la Madonna Costantinopolitana. San Luca è festeggiato sia dalla Chiesa Cattolica che da quelle Ortodosse il 18 ottobre.
l sarcofago di San Luca, che solenne si erge all’interno dell’Abbazia, è un’opera preziosa di scuola pisana (1313), fatta a cura dell’abate Mussato, gli specchi sono di alabastro orientale; il telaio che li inquadra, di porfido verde: due colonne di granito orientale, due di alabastro. Il sostegno centrale è formato da quattro angeli, di marmo greco. Le figure dei riquadri sono così ordinate: sul lato minore verso il Vangelo, l’effigie di San Luca, centro di tutta la composizione; sui due lati, nello stesso ordine: due angeli che portano torce, due angeli turiferari (dal latino turiferarius: tus turis “incenso” e ferre “portare”), due buoi (il bue è il simbolo biblico di San Luca); sulla testata opposta è ripetuto il simbolo dell’Evangelista. Secondo una antica tradizione l’evangelista Luca, originario di Antiochia di Siria e morto in tarda età (84 anni), sarebbe stato sepolto nella città di Tebe. Da lì le sue ossa furono trasportate a Costantinopoli dopo la metà del IV sec. e da qui nel corso dello stesso secolo o dell’VIII , trasportato a Padova nel Monastero di Santa Giustina. I monaci benedettini insediatisi prima dell’anno 1000 iniziarono così a venerare le spoglie dell’Evangelista. Nel 1354, l’imperatore Carlo IV di Lussemburgo, re di Boemia, si fece consegnare il cranio che finì nella cattedrale di San Vito a Praga dove si trova ancora oggi. Nel 1436 fu affidata al pittore Giovanni Storlato l’incarico di rappresentare, sulle pareti della cappella dedicata al santo, una serie di scene che ne narrano la vita, il trasferimento delle reliquie dall’Oriente e il suo ritrovamento a Padova. Un secolo più tardi, nel 1562, l’arca marmorea venne trasferita nel braccio sinistro del transetto, nell’attuale Basilica. All’approssimarsi del Grande Giubileo del 2000 il Vescovo di Padova, anche per motivi ecumenici, nominò una commissione di esperti per avviare una ricognizione scientifica delle reliquie di San Luca. Il 17/9/1998 fu aperto il sarcofago e si trovò in una cassa di piombo sigillata uno scheletro umano in buono stato di conservazione. I risultati definitivi delle indagini sono stati presentati nel Congresso Internazionale, svoltosi a Padova nell’ottobre dell’anno 2000. I dati scientifici – come è stato affermato al termine di quelle giornate – non smentiscono la tradizionale attribuzione a San Luca delle spoglie; si pongono piuttosto come dati precisi, complementari alle fonti scritte, attorno a cui l’indagine storica potrà muoversi con maggiore sicurezza, soprattutto per chiarire come, quando e perché sia avvenuta la traslazione del corpo da Costantinopoli a Padova.
In alto, sul
Sarcofago di San Luca si ammira la Madonna con gli angeli, la copia cinquecentesca
della “Madonna Costantinopolitana”, il cui dipinto originale – come si è detto
– viene attribuito alla mano del medesimo San Luca. Bella la pittura e bella la
lastra di rame sbalzato e dorato che inquadra i due volti. La cornice di bronzo
e i due Angeli in volo di Amleto Sartori (1960). Del medesimo sono gli otto
bracci portalampade di bronzo attorno all’abside (1961), e il disegno del
piccolo coro. L’ambone e il portacero in bronzo a sinistra dell’altare di
Giancarlo Milani.
Dagli antichi documenti viene segnalata la presenza della Immagine
della Madonna Costantinopolitana nel Monastero di Santa Giustina a partire dal
XII secolo, che divenne oggetto di viva devozione popolare. Secondo alcuni
studiosi sarebbe l’immagine mariana più antica che si conosca a Padova, di stile
nettamente bizantino, venerata e invocata dai padovani come la Salus Populi Patavini.
Lo scorso venerdì 18 ottobre, Festa di San Luca, patrono dei Medici, l’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Padova e la Pastorale della Salute della Diocesi di Padova hanno organizzano un convegno dal titolo “Il Medico tra coscienza e norma”. L’appuntamento si è tenuto nell’Aula Magna del Monastero di Santa Giustina, proprio nella Basilica dove riposa il patrono mondiale dei medici. L’Evangelista è diventato così simbolo, reale presenza, attorno a cui i medici di oggi si sono riuniti, rinnovando un’antica tradizione di incontro.
E, a proposito di venerazione delle effigi della Madonna dipinte da San Luca, famosa è anche quella custodita a Bologna presso il Santuario della Madonna di San Luca, una Basilica dedicata al culto mariano che si eleva sul colle della Guardia, uno sperone in parte boschivo a 280 m di altitudine a sud ovest del centro storico.
L’icona della Madonna di San Luca, con tantissimi devoti tra i bolognesi, scende in citta a maggio, il mese mariano; essa raffigura una Madonna con il Bambino secondo l’iconografia orientale di tipo odigitria, ossia “colei che indica la via”, appellativo greco-bizantino diffuso a Costantinopoli, nei paesi di rito ortodosso e poi anche in Italia. Secondo la tradizione, anche questa icona sarebbe la copia di un dipinto eseguito dall’Evangelista Luca.
Di questa effige, in casa ne conserviamo una copia ben incorniciata, acquistata qualche anno fa proprio a Bologna in occasione di una nostra visita al Santuario della Madonna di San Luca.