Una Chiesa-Abbazia di stile gotico, di cui ancora ben conservato l’elegante rosone e le monofore sulla facciata absidale.
Santa Maria di Ripalta è un complesso “cistercense” di origine medievale (XIII sec) di indubbio interesse che merita veramente di essere visitato, anche se risulta poco noto ai più, forse perché scarsamente pubblicizzato o fors’anche perché gli attuali eredi degli antichi proprietari del sito desiderano mantenere segretamente intatto il luogo, nella sua particolare autenticità.
E’ infatti accessibile solo la domenica mattina in occasione della celebrazione della Santa Messa, alle ore 9, a meno che non si riesca ad avere la fortuna di incontrare gli attuali proprietari di questo significativo monumento, gli eredi della famiglia Galante di Napoli, che saltuariamente dimorano in loco, nei loro possedimenti di Ripalta. Ed è proprio quello che è capitato a me e mia moglie nel corso delle recenti vacanze estive trascorse a Poggio Imperiale.
Un caloroso ringraziamento, dunque, non solo per la visita che ci è stata consentita di effettuare ma anche per la dovizia di particolari che ci sono stati forniti, nell’occasione, dai cortesi discendenti.
L’Abbazia è situata, come si è detto, in località Ripalta, una frazione di Lesina, in provincia di Foggia.
Si narra che qui si insediò ai primi del 1200 una comunità di Monaci Cistercensi provenienti dall’Abruzzo e, nel 1255, la favorevole situazione economica permise la costruzione di una “grangia”, in linea con le consuetudini dei complessi abbaziali cistercensi, come voluti da Bernardo, abate di Clairvaux, il quale, aspramente in disaccordo con il lusso delle chiese, si fece fautore di una sorta di Abbazia-Città, ove i monaci potevano lavorare i campi, pregare, scrivere manoscritti e produrre musica. Bernardo di Chiaravalle, in francese Bernard de Clairvaux (Fontaine-lès-Dijon, 1090 – Ville-sous-la-Ferté, 20 agosto 1153), fu un monaco e abate francese, fondatore della celebre Abbazia di Clairvaux e di altri monasteri.
Nell’architettura cistercense, con il termine “grangia” si intendeva una costruzione chiusa, un capannone in cui si conservava il raccolto ma nello stesso tempo indicava pure un’azienda agricola comprendente oltre alla grangia propriamente detta, case, terreni e pascoli. Il termine grangia deriva dal francese e designa una fattoria, un ambiente più o meno grande con annesso un podere. L’ubicazione delle grangie era variabile, ciascuna abbazia ne aveva almeno una nelle vicinanze.
Le grangie cistercensi erano poste sotto la direzione di un converso detto “magister granciae”, assistito da alcuni altri conversi, e si componevano di braccianti agricoli salariati, mentre i mercenari in genere abitavano nelle immediate vicinanze della stessa grangia. È vero che le grangie non erano monasteri in senso stretto ma, come nei monasteri si praticava molto l’ospitalità, tanto che spesso nei documenti ad esse relativi si parla di un “frater hospitalarius”.
Santa Maria di Ripalta sorge a pochi chilometri dal lago di Lesina, sulla sponda del fiume Fortore, alla sommità di una rupe (e, da ciò, forse, “ Ripa alta”), in una località dove presumibilmente esisteva già un monastero benedettino dedicato alla Madonna. Fu per l’appunto una comunità di cistercensi provenienti da Casanova d’Abruzzo che nel 1201 vi si insediò, costruendovi una nuova chiesa o riadattando quella già presente, che venne ricompresa nella piccola Diocesi di Civitate (corrispondente all’attuale vicino comune di San Paolo Civitate) ed in seguito incorporata a quella di San Severo, presumibilmente nel 1580. Caduta in commenda e abbandonata in data imprecisata, probabilmente all’inizio del XVIII secolo fu affidata ai Celestini, dato che nel 1719 risultava aggregata ad una chiesa di San Severo, convento di questi ultimi. In commenda, “in commendam”, alla lettera significa “in affidamento”, che sta ad indicare essenzialmente un “beneficio” derivante da una rendita annessa ad un grado ecclesiastico o cavalleresco. Il cavaliere che ne era principale beneficiario veniva denotato con il termine di “commendatore”. Egli amministrava i beni costituenti la commenda che erano di proprietà dell’Ordine, trattenendo una parte delle rendite quale compenso del suo servizio.
Del complesso abbaziale rimane, seppure incompleta, soltanto la chiesa di Santa Maria, la cui pianta originaria era probabilmente a croce latina. Il corpo centrale sarebbe stato costituito da tre navate di cinque campate mentre ancora riconoscibili sono transetto e abside. Quest’ultima è a forma quadrata, affiancata a destra e a sinistra da due coppie di cappelle rettangolari che si aprono sul transetto, costituito da cinque campate.
Il villaggio di Ripalta costituisce uno dei pochi villaggi agricoli antichi del Tavoliere delle Puglie ancora esistente, nato a ridosso delle sponde del fiume Fortore, probabilmente anche in funzione dello scalo fluviale di Teanum Apulum (l’attuale vicino e già citato comune di San Paolo Civitate), qui esistente sin dall’ epoca romana.
Intorno alla Chiesa si svolgevano attività agricole e di allevamento, senza dimenticare il ruolo importante che il borgo ha assunto durante i secoli per l’attività della transumanza (la mena delle pecore attraverso cui le greggi venivano portate a svernare dall’Abruzzo alla Puglia), poichè Ripalta è situata proprio sul “Tratturo Magno”, che un tempo collegava la città di L’Aquila con quella di Foggia. Per tale motivo la Chiesa di Santa Maria viene altresì definita una “Masseria-Abbazia”.
Il disastroso terremoto del 1627 fece crollare una parte della Chiesa, che fu poi ricostruita per mano dei Celestini agli inizi del XVIII secolo. Nel 1806, quando l’Ordine dei Celestini fu soppresso, Gioacchino Murat donò Ripalta al suo Ministro di Polizia, che a sua volta la passò in dote alle sue figlie.
Gianfranco Piemontese, Docente di Storia dell’Arte, in “Segni lapicidi nell’Abbazia di Càlena (Peschici – Fg)”, www.reciproca.it, rinviene delle similitudini architettoniche e costruttive tra il complesso di Santa Maria di Ripalta e l’Abbazia di Càlena di Peschici, costruita presumibilmente intorno all’anno 872 e, quindi, tra le più antiche abbazie d’Italia, all’interno della quale era peraltro conservata un’antichissima statuetta lignea di Madonna con il Bambino di origine incerta. Per lungo tempo fu sede di un convento di monaci, mentre oggi è stata trasformata in una villa privata. Similitudini vengono altresì riscontrate con l’Abazia della Santissima Trinità di Venosa (Pz), la cosiddetta “Incompiunta”, che io e mia moglie abbiamo avuto il piacere di visitare due anni orsono, oltre che con l’Abbazia di Santa Maria delle Tremiti (Isola di San Domino, Tremiti, Fg), che abbiamo visitato lo scorso anno, e con ulteriori complessi monumentali pugliesi. E, questo, soprattutto in relazione all’opera di maestri scalpellini provenienti dal Nord Europa.
Il Piemontese sostiene, tra l’altro, che “Il complesso benedettino di Santa Maria di Càlena di Peschici (Foggia) contiene nelle sue strutture murarie la testimonianza di presenza e attività di maestranze lapicide [scalpellini, tagliapietre]. Una presenza dovuta sia alle dominazioni provenienti dal Nord Europa che alla circolazione degli stessi maestri scalpellini. Questi giunsero nel Meridione d’Italia sia come artigiani specializzati che nelle vesti di componenti gli ordini monastici. E’ noto a tutti quanto la regola benedettina recitasse in materia di lavoro. Attività pratiche che coinvolgevano il campo strettamente produttivo, dall’agricolo a quello dell’acquacoltura. Attività quest’ultima fortemente legata a una dieta alimentare priva di carni ma ricca di pesce, che vedeva la presenza, in quasi tutti i maggiori complessi monastici, di impianti adatti all’allevamento ittico in terraferma, le cosiddette peschiere. Tra le attività prettamente manuali vi era quella legata all’arte del costruire, e quindi ecco fiorire negli insediamenti monastici gruppi di monaci esperti scalpellini e muratori. Maestranze non prive di conoscenze legate alle tecniche e tecnologie costruttive. Un modo di costruire che si riscontra anche in un altro complesso monastico qual è l’ex abbazia di Santa Maria di Ripalta, nei pressi di Lesina (Foggia). La possibilità che le maestranze operanti a Càlena abbiano direttamente partecipato alla costruzione o abbiano influenzato quelle operanti in Santa Maria di Ripalta, si evince sia dal modo in cui i conci lapidei sono squadrati e posti in opera, che dalle soluzioni formali e tecnologiche impiegate nelle finestre e nelle arcate. Vi sono similitudini non solo nell’apparecchiatura muraria, ma anche negli elementi floreali scolpiti e posti a coronamento di capitelli o di semplici elementi di decoro della facciata, che rimandano a quegli stilemi dell’architettura cistercense di cui Santa Maria di Ripalta e la stessa Chiesa Nuova di Càlena sono testimonianza. Una struttura architettonica, quella di Càlena, passata dalla floridezza derivatagli dai numerosi e sparsi possedimenti (terreni ed immobili accumulatisi tra l’XI e il XIV secolo), all’abbandono ed alla sua attuale riduzione quasi a rudere. L’insediamento religioso benedettino, il cui impianto rimanda ad un’epoca precedente l’XI secolo, presenta una chiesa più antica ad impianto basilicale a tre navate, suddivisa da pilastri compositi a sezione rettangolare con presenza di cupole in asse nella nave centrale. La cosiddetta “chiesa nuova”, invece, presenta anch’essa tre navate, di cui due sono oggi praticabili mentre la terza, quella centrale, risulta scoperchiata. L’interno della navata presenta i pilastri delle campate con i tipici segni della predisposizione della copertura con volte a crociera: ovvero conci predisposti per i pennacchi d’imposta della volta di partenza. Allo stato dei fatti, la chiesa sembrerebbe avere avuto sempre una copertura a falde, sostenuta da capriate lignee e copertura con manto di tegole. Questa tesi troverebbe supporto nel fatto che, nonostante l’abbandono in cui versa attualmente la chiesa, all’interno, in situ, non si ha presenza dei conci e dei relativi pezzi di costoloni che una copertura a crociera per due campate di quelle dimensioni avrebbe sicuramente lasciato a terra in forma abbondante, né vi sono tracce di reimpieghi di conci sagomati provenienti da volte a crociera nelle opere murarie circostanti. Una possibile crisi economica dell’Abbazia avrebbe causato un fermo dei lavori che si è protratto nel tempo, sino a far optare, successivamente, per una copertura degli ambienti centrali con strutture lignee. Tesi, questa, che si avvale del confronto con due altre importanti chiese: quella della Santissima Trinità di Venosa (Pz) e quella di Santa Maria di Ripalta, entrambe rimaste incompiute, e che, seppur di dimensioni maggiori di quella di Càlena, presentano forti similitudini negli elementi architettonici strutturali e negli stessi segni lapidei. Come accennavamo sopra, le strutture murarie sono a paramento liscio, con le eccezioni dei capitelli su cui s’impostano gli archi ogivali che presentano lavorazioni simili agli ornamenti di tipo cistercense presenti anche nell’Abbazia di Santa Maria delle Tremiti, da cui peraltro Càlena dipendeva. Sono numerosi gli studiosi che hanno collegato la “chiesa nuova” di Càlena all’arte francese borgognona. Noi qui rileviamo che la similitudine di lavorazione della pietra e del disegno delle due finestre trilobate, presente sul lato sud, ricorda fabbriche presenti in Puglia, non solo di tipo religioso come Santa Maria di Ripalta o la cappella della Maddalena in San Domenico a Manfredonia, ma anche civili come testimoniano i capitelli presenti in Castel del Monte (Andria, Ba). L’attenzione di chi ha potuto visitare e studiare gli spazi di questa architettura, fra l’incompiuta e l’abbandonata, è rapita da una serie di segni incisi sui conci di archi e pilastri della struttura. Tipici segni, appunto, dei maestri muratori lapicidi, ovvero di coloro che del cantiere medievale erano i veri artefici. Si va da semplici monogrammi a composizioni geometriche dove al cerchio si unisce la retta o un archetto. Si riscontrano forti similitudini tra questi segni lapidei e quelli che si trovano sui conci di pietra della fabbrica delle mura angioine della fortezza di Lucera (Fg). Nell’ambito delle architetture religiose, ricordiamo anche Sant’Antuono, in territorio di Sant’Agata di Puglia (Fg). Qui si hanno finestre simili e identica lavorazione della pietra, conci perfettamente squadrati ed apparecchiati, anche se ad oggi non è stato rilevato alcun tipo di segno lapideo come a Càlena e a Ripalta. L’ulteriore conferma dell’origine d’oltralpe di parte dei “magistri” che hanno realizzato la chiesa nuova può essere attestata dalla presenza, oltre ai segni usuali in Francia e nel resto dell’Europa centro settentrionale, di un segno simile a quello riscontrato a Notre-Dame d’Orcival. Si tratta di una lettera, una ‹A› carattere capitale, con la linea orizzontale piegata a mo’ di cuneo verso il basso, e con un tratto orizzontale sulla punta. Lo stesso segno è presente sulla navata laterale destra di Càlena. La chiesa francese, al pari di quella di Càlena, risulta essere «…letteralmente coperta di marchi di costruzione», come scrive lo storico dell’arte Raymond Oursel a proposito di Notre-Dame d’Orcival”.
Per concludere, infine, l’Abbazia di Santa Maria di Ripalta potrebbe peraltro, a parere di chi scrive, considerarsi, a buona ragione, anche un sito localizzabile sull’antico “Cammino dell’Angelo”, un viaggio (a piedi) di 2859 km tra la Francia e l’Italia, un percorso che congiungeva spiritualmente, in passato, l’Adriatico alla Manica e che collegava idealmente la Puglia alla Normandia. Uno dei più antichi pellegrinaggi dell’Europa cristiana, un camminare verso Cristo sotto la guida di San Michele Arcangelo, un vivere l’esperienza dell’abbandono e dell’accoglienza, un pellegrinare verso orizzonti interiori, un incontrare migliaia di volti nuovi, da “Mont Saint Michel” in Normandia alla “Grotta dell’Apparizione di San Michele Arcangelo”, presso Monte Sant’Angelo in provincia di Foggia, alla scoperta dei grandi Santuari dedicati a San Michele : Monte Sant’Angelo (Foggia); Castel Sant’Angelo (Roma); San Michele di Lucca; San Michele di Pavia; Sacra di San Michele (Monte Pirchiriano, Val di Susa, in Piemonte); Saint-Michel d’Aiguilhe e Mont Saint Michel, in Francia.
Il santuario di Monte Sant’Angelo ebbe così grande importanza nel medioevo da rappresentare una tappa obbligata dei pellegrini che andavano in Terra Santa (vi fece sosta anche San Francesco d’Assisi nel 1216). La lunga strada che partiva da Santiago di Compostela e giungeva a Monte Sant’Angelo prendeva nel suo tratto terminale il nome di “Via Sacra Longobardorum” (variante della “Via Francigena”). Durante il periodo delle Crociate, il Gargano con i suoi santuari era uno dei luoghi dove si potevano incontrare più frequentemente guerrieri, pellegrini e religiosi.
Il Santuario di Monte Sant’Angelo, in particolare, è uno dei tre maggiori luoghi di culto europei intitolati a San Michele, insieme alla “Sacra di San Michele” in Val di Susa, e a “Mont Saint-Michel” in Normandia. I tre luoghi sacri si trovano a 1000 chilometri di distanza l’uno dall’altro, allineati lungo una retta che, prolungata in linea d’aria, conduce a Gerusalemme.
Molto complessa è la storia delle vie di pellegrinaggio verso la grotta garganica di San Michele durante i 15 secoli della sua frequentazione. Nel medioevo il santuario garganico era anche uno dei quattro più frequentati luoghi di pellegrinaggio della cristianità, secondo l’itinerario di redenzione spirituale, noto come “Homo, Angelus, Deus”, che prevedeva la visita alle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo a Roma e di San Giacomo di Compostela in Spagna (Homo), all’Angelo della Grotta di Monte Sant’Angelo (Angelus), infine ai luoghi della Terra Santa (Deus).
Risulta che anche San Bernardo (quel “Bernard de Clairvaux”, riformatore dell’ordine cistercense, di cui si è parlato prima), in una sua visita in Puglia per far riappacificare Ruggiero II, re delle due Sicilie, con la Chiesa, volle venerare San Michele nella sua Grotta. Appare dunque logico e naturale pensare che l’abate francese abbia fatto sosta anche in un’abbazia cistercense ubicata a pochi chilometri di distanza da Monte Sant’Angelo, e cioè quella di Santa Maria di Ripalta.