“Tutti sono convinti che la globalizzazione aumenti la cultura, la conoscenza, la creatività, ma non è detto che sia vero, perché essa distrugge anche le culture, le tradizioni, le lingue, le letterature locali. Ancora nel secolo scorso in Italia c’erano scrittori, poeti e cantanti milanesi, genovesi, romani, napoletani amati e ammirati nel loro ambiente. E c’erano migliaia di laboratori artigianali, boutiques in cui trovavi degli stupendi prodotti artigianali. Oggi dovunque tu vada – a Milano, a Firenze, a Saint-Tropez, a Tokio, a Manila, a New York – trovi gli stessi vestiti, lo stesso gusto. Nelle librerie gli stessi libri, nei cinema gli stessi film, nelle televisioni gli stessi format, e senti discutere le stesse idee…".
Così scrive Francesco Alberoni lunedi 8 settembre 2008, in prima pagina, sul Corriere della Sera, concludendo, poi, che “Per tener viva la diversità culturale e conservare accesa la creatività bisogna che ciascuno partecipi e competa nel sistema di comunicazione globale, ma nello stesso tempo ogni nazione, ogni popolo, ogni città deve conservare le sue radici, la sua lingua, la sua tradizione e farle fiorire. Non dobbiamo aver paura di essere diversi, di rifiutare il tipo di arte, di cinema, di libri, di spettacoli televisivi ammirati da tutti. Dobbiamo imparare a giudicare e a scegliere con la nostra testa, e sforzarci di realizzare solo cose che consideriamo veramente belle e di valore. Certo, agire così richiede uno sforzo individuale molto più grande, ma è l’unico modo per tenerci fuori dal gregge e poter dare anche noi un contributo utile”.
Ebbene, il mio libro dal titolo insolito “Ddummànne a l’acquarùle se l’acqu’è fréscijche” – Detti, motti, proverbi e modi di dire “Tarnuìse” (poggioimperialesi) – Edizioni del Poggio, intende offrire, nel suo piccolo, l’opportunità di fermare il tempo sulle origini di una piccola comunità (Poggio Imperiale in provincia di Foggia) e immortalare in modo indelebile le sue immagini.
Un lavoro che si prefigge lo scopo di lasciare traccia del linguaggio e delle espressioni di un tempo che non c’è più, ma che rappresenta un prezioso patrimonio da non disperdere, per fornire soprattutto alle giovani generazioni testimonianza di una tradizione che deve necessariamente sopravvivere, poiché non ci può essere futuro senza memoria.
I detti, motti, proverbi e modi di dire rappresentano una sorta di banca dati ove poter attingere informazioni e ricercare le fondamenta di una civiltà, di un popolo, di una comunità.
Non costa nulla chiedersi che cosa le tradizioni ci hanno insegnato e quindi in questo lavoro vengono analizzati, in particolare, i detti, motti, proverbi e modi di dire dei tarnùise, che rappresentano uno spaccato della vita degli abitanti di Poggio Imperiale di un tempo.
I nostri detti, motti, proverbi e modi di dire rivelano un linguaggio semplice, che si traduce in quelle mille forme che rappresentano la vita nel suo molteplice manifestarsi.
Una rappresentazione della saggezza della nostra terra che si alimenta alla fonte dei ricordi e tiene sempre viva la fiamma del sentimento che sorregge il culto del passato.
La locuzione “Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche”, che è anche il titolo del libro, vuole pertanto essere semplicemente un pretesto per introdurre il lettore in un’atmosfera di ricordi di un mondo che non c’è più:
– un mondo magico fatto di cunde (racconti), di storie infinite che affascinavano adulti e bambini au frìiscijche ‘nnanz’i porte (al fresco fuori dalle proprie case), nelle calde serate d’estate illuminate dal chiaro di luna, o intorno ai camini scoppiettanti o ai vrascére (bracieri) nelle fredde serate invernali, quando le strade erano appena illuminate dalla flebile luce notturna e ai ragazzi veniva proibito di uscire di casa perché (sulla base di una fantastica diceria popolare) circolava minaccioso u pumpenàre (il lupo mannaro);
– un mondo magico fatto di giochi di gruppo all’aperto “attingolò”, “a cavalle lónghe”, “a nnammùcciùne”, “a mazzapívete”, “a gnàgnele…ticte, tacte e palùmme”, riservati per lo più ai soli ragazzi, mentre le ragazze giocavano a “zanchètte” od altro; ma anche di giochi collettivi, tipo “sèggija ferrìzze, sèggija ferrìzze, chi c’jàveze e chi ce ‘mbìzze”, improvvisati in occasione di feste come “Carnuàle” (Carnevale), “parendàte” (feste di fidanzamento), “spusalìzije” (feste di matrimonio), ecc.;
– un mondo magico fatto di profumi della nostra terra e di sapori dei nostri cibi;
– un mondo magico fatto di cummèdije (acquiloni) che si libravano nell’aria sospinti dalla leggera brezza primaverile che spazzava via le nuvole e accendeva di azzurro il cielo tarnuése, nell’incantesimo degli sguardi dei ragazzi che correvano srotolando il loro gliòmmere (gomitolo) di vammàce (cotone grezzo usato solitamente per confezionare calzettoni pesanti dei contadini).
“Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche” è un modo di dire che rappresenta, forse più di tutti gli altri, la quintessenza del modo di essere e dell’indole di noialtri poggimperialesi (tarnuíse), poiché raccoglie in poche parole il senso della più intima natura del temperamento di una comunità unica, se vogliamo, nel suo genere.
Una comunità semplice ma determinata nel raggiungimento degli obiettivi che si è prefissata di conseguire.
Una comunità che, per le note vicissitudini, ha dovuto lottare per la propria affermazione, scontrandosi con posizioni e realtà precostituite e dunque ostili al cambiamento, ma con quell’innata lealtà ed onestà intellettuale che ha sempre contraddistinto la sua azione.
Tutto questo potrebbe aver creato nel tarnuése un certo senso di diffidenza, che si manifesta attraverso quel caratteristico atteggiamento dubbioso, di sospetto, classico di chi non si fida ciecamente a prima vista e che ha bisogno di sfidare l’interlocutore per metterlo alla prova.
Ma lo fa comunque con estrema ironia e senza malizia o cattiveria. Per un tarnuése, ad esempio, è del tutto scontato che l’ortolano dirà sempre che i suoi prodotti ortofrutticoli sono freschi e che lo stesso farà il pescivendolo, anche quando i rispettivi prodotti messi in vendita non dovessero risultare propriamente tali.
E allora egli cercherà di prevenire l’eventuale fregatura ponendosi in una condizione di difesa preventiva, almeno sul piano psicologico, per evitare di passare da stupido, pronunciando battute dal sapore ironico – sarcastico nei riguardi del venditore, del tipo:“Acquarú(le)…jè fréscijche l’acque ?”, che rappresenta, per l’appunto, una vera e propria sfida ovvero una provocazione finalizzata a stimolare la reazione dell’interlocutore, che si spera sia sempre positiva.
Ma non sempre è così: a volte infatti l’interlocutore reagisce negativamente fornendo risposte a tono, anche se nella stragrande maggioranza dei casi, però, gli effetti si dimostrano invece sufficientemente apprezzabili, attraverso una maggiore attenzione e cortesia che in seguito, solitamente, viene riservata al tarnuése.
Questo è dovuto probabilmente anche al fatto che molti dei venditori ambulanti gravitanti nell’ambito del paese sono forestieri ed è un po’ come prendere le distanze per chiarire, da subito, che non ci si trova di fronte ad un allocco o ad uno sprovveduto.
“Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche”, alla lettera, significa: “ Chiedi al venditore di acqua se l’acqua è fresca”, tuttavia si tratta di un modo per rappresentare una “cosa ovvia e scontata”, come per dire che è del tutto pacifico che la risposta del “venditore di acqua” sarà positiva, nel senso che egli non dirà mai che la sua acqua non è fresca, anche di fronte all’evidenza.
Il detto è da farsi risalire al tempo in cui Poggio Imperiale era sfornito di rete idrica (e fognaria) cittadina e l’acqua potabile veniva approvvigionata direttamente presso il Pozzo comunale (da qui, via del Pozzo) ovvero acquistata da un venditore, chiamato acquarùle, che la portava in paese in barili caricati a dorso d’asino (successivamente anche con una grande botte allestita su di un carretto trainato da cavallo).
Ogni asino, attrezzato con idonea bardatura (‘a vàrde) portava quattro barili (due per parte), accompagnato a piedi da Lazzàre ‘u cecàte (Nazario Iadarola) nel percorso che conduceva dal Pozzo comunale fino all’altezza del Palazzo De Cicco, in prossimità di una delle due torrette posteriori del palazzo, in particolare di quella ubicata lato Comune, dopo aver superato il tratto della mulattiera in salita e non affatto agevole.
Presso il predetto “punto di ritrovo” i tarnuìse facevano la fila in attesa dell’acquarúle e non di rado sorgevano tra di loro liti e risse (facévane a sciàrre e ce frecàvene de botte) per la disputa delle rispettive posizioni nella fila.
Il primo della fila prendeva in mano le briglie dell’asino (‘a capézze) e “faceva strada”, precedendo l’animale da soma verso la propria abitazione per il “servizio a domicilio”, seguito da Lazzàre ‘u cecàte.
Qui i barili contenenti l’acqua potabile venivano svuotati direttamente nelle saròle, consistenti in grossi recipienti di terracotta (tipo giare con larga apertura nella parte superiore sulla quale veniva collocato un coperchio di legno). La saròle piena costituiva la provvista idrica di ogni casa e l’acqua veniva attinta con un’ apposita brocchetta in alluminio ( u secchijettélle).
La quantità di acqua richiesta all’acquarúle veniva espressa con una misura definita salma che rappresentava la capacità di acqua contenuta nei barili.
Solitamente si diceva: “Pùrteme ‘na salma d’acque”, per indicare un intero carico di quattro barili caricati a dorso dell’asino, che era sufficiente per riempire una saròle.
Si usava inoltre dire “trovare l’acqua” e più precisamente “v’a trùve l’acque” (alla lettera: vai a cercare l’acqua), indifferentemente, sia quando ci si doveva recare al Pozzo comunale, sia quando si doveva andare a far la fila dietro al Palazzo De Cicco.
Ebbene, come si è visto, da un semplice modo di dire, come “Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche”, si possono aprire scenari fantastici che consentono di immergersi con l’immaginazione in un mondo ormai trascorso, ma che ci consente di poter cogliere aspetti interessanti e sicuramente utili per il nostro futuro e quello delle future generazioni.
Il tarnuése che giovane più non è avrà l’opportunità di rinfrescare i ricordi sopiti e i giovani l’occasione per scoprire aspetti del patrimonio del passato della loro comunità poco noti.