Masada è una delle più emozionanti riscoperte storico-archeologiche del ventesimo secolo.
Un viaggio a Masada rappresenta un’esperienza indimenticabile in una terra infausta, attraversando i territori di Israele e Cisgiordania, dove il pericolo di attentati, agguati e atti dimostrativi di forza sono all’ordine del giorno.
Bisogna fermarsi ai vari “ceck-point” e sottoporsi con molta pazienza ai continui controlli dei militari, ma ne vale veramente la pena.
L’esperienza della mia visita a Masada risale alla primavera dello scorso anno, in occasione del viaggio in Terra Santa con mia moglie.
Masada (o Massada o, in ebraico, Metzada) era un’antica fortezza israeliana che sorgeva su un altopiano di circa sei km² situato su una rocca a 400 metri di altitudine rispetto al Mar Morto, nella Giudea sud-orientale, l’attuale Palestina.
Mura alte cinque metri – lungo un perimetro di un chilometro e mezzo, con una quarantina di torri alte più di venti metri – la racchiudevano, rendendola pressoché inespugnabile.
La fortezza divenne nota per l’assedio dell’esercito romano durante la prima guerra giudaica e per la sua tragica conclusione: il suicidio collettivo dei suoi difensori.
Provenivamo dalla fertile e lussureggiante Galilea, ove avevamo soggiornato dopo essere giunti in aereo dall’Italia ed atterrati all’aeroporto di Tel Aviv.
Ora, in pullman, ci stavamo avventurando nel deserto giudaico costeggiando, sulla sinistra, il Mar Morto che giace in una depressione di circa 390 metri sotto il livello del mare e, sulla destra, montagne aride e spettrali: quasi un paesaggio lunare.
Ecco apparire finalmente questo grande sperone roccioso culminante in un ampio pianoro a forma di nave, che si innalza sulla costa nord ovest del Mar Morto, in uno scenario arido e selvaggio.
Ai suoi piedi è attrezzata un’ampia area di parcheggio con locali di ristoro e negozietti di souvenir ed un unico sentiero si inerpica lungo la parete rocciosa che costeggia la fortezza sul lato ovest.
Dal basso non si riesce davvero a capire come quel sentiero così ripido possa superare la parete.
Ma c’è un modernissimo impianto di Funivia che risolve ogni problema, lasciando agli impavidi scalatori il gusto di farsela a piedi.
Prima di accedere alla Funivia i visitatori vengono fatti accomodare in una sala attrezzata ove vengono proiettati filmati che ripercorrono la storia e gli eventi che hanno caratterizzato la storia di Masada.
Con la Funivia si raggiunge una buona quota dello sperone roccioso, mentre l’ultimo tratto bisogna farlo a piedi. Ma il percorso è comodo ed agevole poiché è servito da comode passerelle in metallo.
Masada servì da roccaforte militare fin dal secondo secolo a.C., ma fu Erode il Grande – quello che perseguitò a morte Gesù alla sua nascita – a fare di Masada una fortezza militare di prim’ordine.
La superficie pianeggiante di Masada, ampia una decina di ettari, in tutto il suo perimetro fu munita di un muro a casamatta e nei 6,5 metri che correvano tra i due muri della casamatta furono ricavati circa un centinaio tra depositi, arsenali e abitazioni: tra l’altro, lungo il lato occidentale dello stesso muro trovò posto anche una sinagoga, una delle più antiche della Palestina.
Sulla spianata, che all’occorenza poteva essere anche coltivata per procurare prodotti freschi, furono costruiti grandi magazzini in duplice serie: 6 erano lunghi 20 metri e 11 erano lunghi 27 metri. Essi circondavano da tre lati un grande stabilimento termale, inimmaginabile in pieno deserto, con muri affrescati a finto marmo e con ambienti riscaldati a diversa temperatura.
E poi furono costruiti laboratori, edifici a “colombaia”, una piscina all’aperto, numerose cisterne per la raccolta delle acque piovane (12 solo sul lato nord-ovest dalla capacità media di 3.500 m3 di acqua) ecc., e due palazzi.
Il primo palazzo sorse a occidente: serviva probabilmente per l’amministrazione del regno e per la rappresentanza, come dicono i grandi spazi e i raffinati mosaici pavimentali. Il secondo palazzo – più villa privata di Erode che palazzo pubblico – fu ricavato su tre terrazze a diversa altezza nella punta settentrionale della “nave” di Masada (l’aspetto che l’osservatore percepisce è in effetti quello di un’enorme nave).
Ed è proprio questa villa a tre gradini, sospesa sul deserto, con mosaici, intonaci a finto marmo e stucchi, con colonne scanalate e capitelli dorati, con un piccolo impianto balneare, con due scale scavate nella roccia che congiungevano i tre piani, che sorprende e stupisce il turista moderno, nello scenario già di per sé unico di Masada.
Ma cosa ha reso celebre Masada nella storia?
Nel 76 d.C. era scoppiata la rivolta generale in Palestina contro il dominio Romano. Gerusalemme fu presa e completamente distrutta, fin dalle fondamenta, dall’esercito romano guidato da Tito.
Solo la fortezza di Masada resistette ancora a lungo e fu espugnata solamente dopo 4 anni dalla presa di Gerusalemme.
Vi erano due vie di accesso: una detta “il serpente”, stretta e a strapiombo e dunque pressoché impraticabile, l’altra più agevole ma sbarrata da una grande torre.
In questa fortezza si rifugiarono un gruppo di Giudei irriducibili, detti Zeloti (fondamentalisti) con le rispettive famiglie, in tutto poco più di un migliaio di persone, guidati da un capo deciso e intrepido di nome Eleazar Ben Yair.
Contro di essa mosse un esercito romano di circa 7.000 uomini guidato da Flavio Silva; l’assedio durò oltre due anni.
I Romani insediarono il campo ai piedi del colle e cominciarono a costruire un grosso terrapieno (”vallo”) sul quale venne poi costruita una piattaforma di grossi blocchi di pietra sulla quale fu realizzata una torre con rivestimenti di ferro in modo da pareggiare e superare l’altezza delle mura della fortezza.
Su di essa furono piazzate le catapulte con le quali lanciarono proiettili di ogni tipo in modo da impedire agli Zeloti di restare sulle mura a difesa. Nel contempo, con un potente ariete, sferrarono l’attacco alle mura che cominciarono a sgretolarsi.
I difensori Zeloti avevano però eretto dietro di esse un altro muro, costituito da un terrapieno tenuto in piedi da un sistema di grossi pali, che riusciva ad assorbire i colpi d’ariete senza grossi danni.
Ma i Romani, esperti di ogni astuzia nell’arte degli assedi, gettarono spezzoni incendiari contro le impalcature di legno che tenevano insieme il terrapieno e le fiamme presero a divampare alte e vigorose.
Ad un tratto, dal deserto si alzò il vento che diresse le fiamme verso il fronte romano con il pericolo che venissero incendiate le macchine da guerra dei Romani.
Per un attimo le speranze degli entusiasti difensori, che avevano interpretato la circostanza favorevole come un intervento divino, cominciarono a prendere consistenza.
Vana fu tuttavia la loro speranza, poiché di li a poco il vento cambiò direzione, così che le fiamme si rivolsero verso il muro disgregandolo definitivamente.
Calò la notte e i Romani si limitarono ad impedire ogni eventuale fuga degli Zeloti, rimandando l’attacco decisivo all’alba del giorno seguente, per evitare interventi al buio in luoghi sconosciuti.
E fu proprio nella notte che i difensori presero una tragica decisione, alla quale si erano preparati da tempo, trascinati da un appassionato discorso del loro comandante Eleazar Ben Year nella Sinagoga.
Per evitare di cadere vivi nelle mani dei propri nemici ed essere uccisi fra tormenti e umiliazioni e che i propri familiari subissero l’onta della schiavitù decisero, come atto estremo, di incendiare le loro postazioni e togliersi la vita in massa.
Dunque, un suicidio collettivo.
Ciascun uomo doveva uccidere di suo pugno i propri familiari, ritenendo la morte mille volte preferibile alla schiavitù.
Ognuno di essi allora strinse la sua sposa fra le braccia e la trafisse con la spada, poi alzò i figli in alto fra le braccia e trafisse anche loro.
In seguito, ciascuno si distese al fianco dei propri cari e dieci uomini estratti a sorte passarono e tagliarono loro la gola.
Dei dieci ultimi superstiti ne venne estratto uno a sorte, che ebbe il compito di tagliare la gola agli altri nove che si erano, a loro volta, distesi volta a terra.
Alla fine, l’ultimo superstite incendiò tutte le loro cose e si gettò sulla propria spada.
Solo due donne anziane e cinque bambini che si erano nascosti nei cunicoli scamparono alla morte.
All’alba i Romani andarono all’assalto aspettandosi un’ultima disperata resistenza degli Zeloti, ma trovarono solo morte e silenzio e fiamme dovunque.
Appresero dalle donne superstiti quello che era avvenuto: la loro esultanza per la vittoria lasciò il posto alla commiserazione e all’ammirazione per un tale e disperato proposito.
Lasciarono un piccolo presidio nella fortezza e si ritirarono.
Dopo quasi duemila anni l’episodio di Masada è tornato di attualità quando, dopo la fondazione dello Stato di Israele, negli anni 50 del secolo sorso gli archeologi ritrovarono le rovine di Masada.
Esso ha peraltro assunto un particolare significato per gli israeliani; un valore patriottico che è divenuto un mito nazionale.
Le giovani reclute giurano infatti “MAI PIU’ MASADA CADRA’” come il proponimento di non lasciarsi più massacrare dai nemici e Eleazar Ben Year è divenuto un eroe nazionale.