Si rinvengono nella storia “tarnuése” ricordi legati ad avvenimenti particolari, tipo Carnevale, ove i giovani si travestivano “ce mascijcuriàvene” (si mascheravano) ed in gruppi andavano di casa in casa improvvisando scenette esilaranti con curiosi strumenti musicali.
Ad esempio, l’assicella di legno per la lavatura dei panni “a lavatóre” veniva utilizzata come chitarra sfregando su e giù sulla parte intagliata un pezzo di legno che fungeva da plettro (detto anche penna); così il mortaio di legno per macinare il sale grosso “u murtàle” con il suo pestello “u pesature” fungeva da tamburo ed i coperchi delle pentole da piatti, con invenzione ed esecuzione estemporanea di stornelli paesani.
In verità c’erano anche bravi "tarnuíse" che suonavano strumenti musicali veri, tipo chitarra, fisarmonica, armonica a bocca, ecc. (a Poggio Imperiale un tempo c’era una Banda musicale molto apprezzata, diretta dal Maestro Colella)*.
Il padrone di casa offriva da bere (solitamente vino rosso paesano) e “rócchijle de sausicchije e de fedacazze, vendrésche, supprescijate, fèlle de cascijcavalle e àveti còse da rróste e da magnà”.
Si diceva che “jévene facènne a rrùste”, andavano cioè in giro per raccogliere salsiccia, fegatazzo (salsiccia di fegato), pancetta ed altra roba da arrostire e mangiare in compagnia.
Lo stornello che i gruppi ritmavano con il loro strumenti improvvisati faceva così:
Rrùste
Rrùte
Rrùste, rrùste e rrùste
E ddàcce ‘nu pòche de rrùste
Ka se tu mó ‘n ‘nge la vù dà
Nuije da sùle ce la jàmme a peglijà”.
(Arrosto…arrosto…dacci della carne da arrostire….perchè se non lo fai…ce la prendiamo da soli).
In tarda serata, alla fine della questua i gruppi si riunivano e facevano “a cummenèlle”, consistente in un vero e proprio banchetto che terminava all’alba del giorno dopo con una “passatèlla” (tipico gioco collettivo ove il vino viene distribuito in modo disuguale secondo l’arbitrio delle persone favorite da una combinazione vincente in un gioco di carte, dalla quale la maggior parte dei presenti veniva fuori con una sbornia colossale.
Eccezionalmente, i pochi che ne uscivano ancora sobri lo dovevano al solo fatto che “jévene state fatte ùlme” in quanto, colpiti dalla malasorte, i “padroni del gioco” li avevano tenuti a bocca asciutta.
* Nella nota 13 a pag. 47 del libro è riportato erroneamente "Maestro Cicolella" anzichè "Colella".
Dal libro di Lorenzo Bove
“Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche” – Detti, motti, proverbi e modi di dire Tarnuíse
Edizioni del Poggio, 2008