Con la “cotognata” si conclude la “rassegna” delle delizie del palato della nostra terra di Capitanata che un tempo maggiormente caratterizzavano l’autunno.
La “cotognata” completa infatti la trilogia delle “narrazioni” iniziate nei miei due precedenti articoli dedicati rispettivamente al “mostocotto” e alla “mostarda” di uva”; “narrazioni” che si rifanno naturalmente ai miei ricordi d’infanzia degli anni cinquanta del secolo scorso vissuta a Poggio Imperiale in provincia di Foggia.
Ai tempi, la frutta, in genere, non faceva in tempo a maturare sugli alberi, che veniva subito intercettata e “spazzolata via”.
Le albicocche, le pesche, le mele, le pere, le susine, i fichi, le ciliegie, le prugne, ma anche i melograni, le mandorle ed i grappoli di uva rappresentavano una facile preda e godevano di attenzioni “particolari” e al tempo stesso “indesiderate” da parte dei legittimi proprietari.
Molti lo facevano magari solo per fame, considerato il periodo di ristrettezze economiche abbastanza diffuse nell’immediato dopoguerra.
E non era solo impresa di ragazzi, ma anche di persone adulte, quella di dilettarsi a fare man bassa della frutta degli alberi altrui.
Ricordo che gli alberi da frutta della nostra vigna, che si trovava a poche centinaia di metri di distanza dal paese, venivano frequentemente “ripuliti” dai soliti ignoti (o forse anche noti).
Gli unici alberi che non venivano mai toccati erano quelli di melecotogne.
In primo luogo perché la loro maturazione si protraeva oltre l’estate fino ad autunno inoltrato, ed in secondo luogo perché il loro sapore restava sempre alquanto acidulo e poco gradevole, sebbene emanassero un profumo forte ed intenso.
E quindi, man mano che si staccavano dai rami e cadevano per terra, le melecotogne venivano raccolte e conservate in ambienti asciutti e ben areati in attesa della loro completa maturazione.
A volte ci si azzardava anche a mangiarne qualcuna, non senza pentirsi di averlo fatto; il suo sapore non era infatti eccezionale.
Le melecotogne erano invece ottime se passate al forno e spolverate con lo zucchero.
Ma la loro naturale predestinazione era sicuramente quella di finire in “cotognata”.
A pezzi oppure spalmata sul pane o anche nella farcitura dei dolci tipici paesani: così gustavamo questa deliziosa leccornia.
Anche oggi è possibile rivivere quei dolci momenti, a condizione che si riesca ancora a reperire sul mercato una quantità di melecotogne sufficienti per preparare un po’ di “cotognata” in vasetti oppure a pezzi.
Magari non sono più le melecotogne di una volta, tuttavia tentar non nuoce.
Come si prepara una buona cotognata casalinga?
Cominciamo con il procurarci circa 3 Kg di melecotogne, che verranno pazientemente sbucciate e private dei torsoli, tagliando poi la polpa a fettine molto sottili.
Aggiungere lo zucchero (300 gr. circa per ogni Kg di polpa: una quantità non eccessiva di zucchero lascia più spazio al sapore intenso delle cotogne), spremervi sopra mezzo limone e lasciare macerare per tutta la notte in un capiente recipiente, mescolando ogni tanto.
Versare il composto in una pentola adeguata e far cuocere a fuoco lento per un paio d’ore, mescolando attentamente per evitare che si attacchi sul fondo.
Aiutandosi con una forchetta, schiacciare ben bene il composto in modo da renderlo il più omogeneo possibile, anche se la consistenza della “cotognata” è diversa da una normale marmellata, che si presenta invece più fluida.
Versare la “cotognata” ancora calda nei vasetti di vetro e tapparli subito con gli appositi coperchi a chiusura ermetica, indi capovolgerli e lasciare raffreddare.
Passare infine i vasetti a bagnomaria.
Opzioni:
La prima opzione consiste nel “passare” il composto, a tre quarti di cottura, al fine di ottenere una marmellata più fluida, che verrà poi ugualmente conservata nei vasetti di vetro.
La seconda opzione consiste invece nel versare il composto “passato” su di un piano di marmo preventivamente unto con olio di oliva, formando uno spessore di qualche centimetro; si lascia raffreddare e, non appena indurita, si taglia la “cotognata” a cubetti che, a piacimento, potranno essere spolverati con lo zucchero. I pezzi di cotognata vanno singolarmente avvolti in fogli di carta oleata. Ma oggi sono in commercio anche dei comodi e simpatici “pirottini” da pasticceria che possono risolvere ogni problema.
Nella “cotognata” si ritrovano la semplicità e l´esperienza antica in grado di trasformare quello che forse è uno dei più rudi frutti della terra, le melecotogne, in una prelibatezza.
Le origini del Melo Cotogno (Cydonia Oblunga), piccolo ma robusto albero appartenente alla famiglia delle Rosacee Pomoidee, sono antichissime; giunse in Italia, forse nel nostro Salento, dall´Asia minore, e subito divenne quasi un simbolo di questa terra pugliese (si ritrova persino nei decori barocchi a scalpellino, come segno distintivo del Barocco Leccese).
Cresce nelle campagne in piccole zone alluvionali, e in tempi antichi veniva coltivato come albero da ornamento nei giardini delle case padronali. I frutti sono nodosi e duri, maturano tra la fine dell´estate e l´autunno inoltrato ed hanno un sapore astringente, con un torsolo al centro e piccoli semi neri, esattamente come le mele. La cotognata veniva un tempo consumata soprattutto in inverno per difendersi dal rigore del freddo, infatti la cotognata e’ ricca di vitamine e di zucchero.
Una curiosità
Nel 1982 la Comunità Europea ha deciso che la denominazione di “marmellata” può essere attribuita solo alle marmellate a base di agrumi, mentre quelle fatte con altri tipi di frutta devono definirsi “confetture”.
Curiosa, come decisione, poiché la parola “marmellata” deriva dal portoghese “marmelo”, che vuol dire cotogno.