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Dic

Una storia di “scarpèlle” (o “pèttele”) natalizie.

Le “pèttele” sono, in alcune parti della Puglia centro meridionale, le frittelle natalizie che in dialetto tarnuése [poggioimperialese] vengono chiamate “scarpèlle”, e vengono preparate con farina, acqua, lievito e sale in una consistenza morbida e poi, dopo la lievitazione, fritte in abbondante olio di oliva.

Una vera bontà. E non è Natale se la sera della vigilia non si consumano le scarpèlle, che possono tranquillamente  sostituire il pane.

Le scarpèlle potrebbero probabilmente discendere proprio dalle pèttele ed essere state portate a Tarranòve [Poggio Imperiale] dai pugliesi centro – meridionali che qui si sono nel tempo trasferiti.

Ed è proprio da quelle parti che prende corpo la storia che sto per raccontare.

Si racconta che, durante la transumanza, quando i pastori d’Abruzzo con le loro greggi scendevano in terra pugliese, muniti di zampogne, ciaramelle e cornamuse, suonavano per i vicoli della città di Taranto regalando, durante la loro questua itinerante, dolci melodie in cambio di cibo.

Il cibo che i tarantini donavano ai pastori era un prodotto povero e semplice, come loro del resto, ma allo stesso tempo gustoso e nutriente.

Erano delle frittelle di pasta di pane, le famose pèttele.

Il 22 novembre si festeggia Santa Cecilia: una data molto importante per Taranto, che in concomitanza con questa ricorrenza religiosa, inaugura il periodo delle festività natalizie.

Per Taranto e per i tarantini inizia l’Avvento, in anticipo rispetto a tutti gli altri calendari, che lo fanno iniziare dall’Immacolata o da Santa Lucia”.

Un’antica leggenda narra che: << Il giorno di Santa Cecilia, una donna si alzò come di consueto, per preparare l’impasto per il pane. Mentre l’impasto lievitava sentì un suono di ciaramelle, si affacciò e vide gli zampognari che arrivavano. Come ipnotizzata da quella melodia scese per strada e si mise a seguire gli zampognari per i vicoli della città. Quando tornò a casa si accorse che l’impasto era lievitato troppo e non poteva più essere usato per il pane, e che nel frattempo anche i suoi figli si erano svegliati e reclamavano la loro colazione. Senza lasciarsi prendere dalla disperazione, la donna mise a scaldare dell’olio e cominciò a friggere dei pezzettini di pasta che nell’olio diventavano palline gonfie e dorate che piacquero molto ai suoi figli, che con la loro tipica curiosità le chiesero: “Mà, come si chiaman’?”- e lei pensando che somigliavano alla focaccia ( in dialetto detta “pitta”) rispose: “pettel'” (ossia piccole focacce). Non ancora soddisfatti i figli chiesero: “E ‘cce sont?” – e lei vedendo che erano molto soffici rispose: “l’ cuscin’ du Bambinell” (i guanciali di Gesù Bambino). Quando finì di friggere tutto l’impasto, scese per strada coi suoi bambini, felici e satolli per offrire le pettole agli zampognari che con la melodia delle loro pastorali avevano reso possibile quel miracolo>>.

Il racconto è tratto dal libro di Lorenzo Bove “Ddummànne a l’acquarúle se l’acqu’è fréscijche” – Detti, motti, proverbi e modi di dire Tarnuíse, Edizioni Del Poggio, pagine 103, 104 e 105.


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