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7
Nov

Il Sito Archeologico dell’Isolotto di San Clemente

 

Il Sito Archeologico dell’Isolotto di San Clemente nel Lago di Lesina è visibile e raggiungibile a piedi, sin dall’estate 2016, attraverso una suggestiva e comoda  passerella che lo collega alla terraferma sul lungolago di Lesina.

 

Una bella passeggiata, anche in notturna  – se si vuole – considerato che il complesso è sufficientemente illuminato, per ammirare un panorama davvero avvincente, sia sotto il profilo paesaggistico e sia dal punto di vista storico e geografico.

L’isolotto del “mistero”, non solo per gli abitanti di Lesina, ma anche per molte altre persone che, come me, nato a Poggio Imperiale a  pochi chilometri di distanza, hanno sognato e immaginato negli anni della loro fanciullezza, l’esistenza di una città sommersa dalle acque in occasione di un tremendo terremoto e maremoto che avrebbe inondato completamente la preesistente antica città, della quale la sola croce posta alla sommità del campanile della Chiesa di San Clemente fosse rimasta visibile, a pelo d’acqua.

Quanti racconti fantasiosi sono nati intorno all’origine dell’isolotto e quante emozioni, di volta in volta, essi suscitavano in noi ragazzi di un tempo lontano, suggestionati un po’ forse anche dalle avventure fantastiche narrate da  Giulio Verne  in “Ventimila leghe sotto i mari”, che contribuivano non poco ad accendere e stimolare la nostra immaginazione.

Oggi che le moderne tecnologie consentono di avviare e portare avanti ricerche archeologiche approfondite che, il più delle volte, permettono di approdare a risultati tangibili, possiamo finalmente prendere atto che l’arcano “mistero” è stato finalmente svelato.

Sicuramente eventi catastrofici, come terremoti e maremoti, hanno modificato l’assetto del territorio, trasformando la preesistente laguna aperta (tipo golfo) in laguna chiusa da un istmo (Isola del Bosco); e sicuramente il sito interessato dall’isolotto, in origine faceva parte di un promontorio prospiciente la laguna stessa. L’insediamento, collocabile all’età classica, riguarderebbe, per lo più, una villa-peschiera romana. Le tracce di strutture murarie ed i reperti relativi a frammenti ceramici e vasi parzialmente integri, rilevano la presenza di uno storico stabilimento per la produzione del “Garum” (1), una sorta di salsa di pesce ottenuta dalla lavorazione delle interiora lasciate macerare all’interno delle vasche sotto il sole e grazie al calore delle fornaci: un prelibato prodotto che veniva esportato con navi, attraverso tutto il mediterraneo, in anfore (2) del tipo “Dressel” (3). E pare che gli antichi romani ne fossero molto ghiotti.

E, dunque, per il momento, ancora nessuna città sommersa è venuta alla luce … e per quanto riguarda la presenza della “Croce” in mezzo lago … nessuna traccia della Chiesa di San Clemente!

La Croce è senz’altro opera degli abitanti di Lesina e dei suoi antichi pescatori che, per “devozione”, hanno voluto erigere questo segno tangibile della loro fede.

Ma noi ragazzi di un tempo, ed ora attempati e maturi ultrasettantenni, continueremo a sognare una città sommersa … che seguita a sopravvivere  in eterno, avvolta nel suo alone di “mistero”!

Qui di seguito vengono riportate le informazioni relative al Sito Archeologico dell’Isolotto di San Clemente, così come risultano dalla cartellonistica apposta lungo il percorso delle visite.

“” LESINA isolotto di San Clemente (Unione Europea – Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo – Regione Puglia)

Inquadramento Geografico del Sito

Sei all’interno del Lago di Lesina, in Latino Pantanus, un bacino lacustro salmastro situato a Nord della Puglia, tra il Tavoliere della Puglia e in Promontorio del Gargano.

Mediante due canali la laguna comunica con il mare, da cui la separa una duna, il Bosco Isola.

Dallo studio cartografico storico del XVII sec. D.C. abbiamo notizie dello tsunami che colpì la laguna nel 1627.

Il sistema lagunare era all’epoca aperto rispetto al mare semi – aperto. Attualmente la laguna di Lesina ti appare come un sistema chiuso rispetto al mare, tuttavia dallo studio della cartografia antica emerge che, il rapporto tra bacino idrografico lagunare ed il mare Adriatico, non è rimasto immutato nel tempo. Eventi catastrofici come terremoti e tsunami, ne hanno infatti modificato l’aspetto.

All’interno di questo bacino idrografico, a circa 400 m. a Nord dall’abitato di Lesina, puoi ammirare un importante sito archeologico, presso un piccolo isolotto lacustre, meglio noto con il nome di Isolotto di San Clemente (donde il nome attribuito anche al sito). L’isolotto in origine faceva parte di un promontorio prospiciente la laguna.

Qui una prima campagna di scavo fu condotta tra il 1999 e il 2000, in questa sede vennero messi in evidenza sia livelli di battuto e strutture murarie, interpretate come resti di un’antica villa-peschiera di età romana; sia frammenti ceramici e vasi parzialmente integri, interpretati ancora una volta come reperti relativi ad una frequentazione antropica del sito collocabile all’età classica.

Le informazioni provenienti da questa campagna di scavo, seppure esigue, hanno tuttavia creato il presupposto per la ripresa dei lavori in situ.

Comune di Lesina

Sito Archeologico

Villa Romana II sec. d.C.

(ruderi)

GARUM

In questo storico stabilimento si provvedeva alla trasformazione della materia prima nel GARUM.

Si trattava di salsa di pesce, ottenuta dalla lavorazione delle interiora, lasciate macerare all’interno delle vasche, sotto il sole e grazie al calore delle fornaci. Questo prodotto veniva esportato con navi, attraverso tutto il mediterraneo, in Anfore del tipo DRESSEL “”

Note

(1) Garum (Enciclopedia Treccani): “Era una salsa di pesce usata dai Romani che ne erano molto ghiotti e la adoperavano in molti modi. Si preparava buttando in un recipiente le interiora dei pesci che si volevano adoperare e mescolandovi pezzi di pesci o pesci minuti; si otteneva così il liquamen, una poltiglia che si esponeva, affinché fermentasse, al sole, rivoltandola più volte. Quando la parte liquida si era molto ridotta, s’immergeva in un recipiente pieno di liquamen un cestino; il liquido che vi filtrava dentro era garum, e veniva conservato in anfore nelle cantine. Il garum era carissimo; ve n’erano molti centri di produzione; il più fine veniva dalla Spagna”.

(2) Nel mondo antico le principali derrate alimentari (olio, vino, salse di pesce) furono oggetto di particolari attenzioni perchè erano di vitale importanza per le varie popolazioni, sia quelle produttrici che quelle consumatrici. La città di Roma, ad esempio, in epoca imperiale veniva, per la maggior parte, mantenuta dai prodotti che giungevano dalle varie regioni dell’Impero: grano dall’Africa, olio e salse di pesce dalla Spagna, vino dall’Italia, dalla Grecia e dalla Francia. Ecco la descrizione del flusso di navi mercantili ad Ostia, porto di Roma, lasciata da Elio Aristide nel II sec. d.C.: “Durante tutto l’anno, dopo ogni raccolto, arrivavano così tante navi che trasportavano carichi provenienti da ogni dove, che la città sembrava il magazzino del mondo… è incredibile come il mare, per non parlare del porto, sia abbastanza grande per tutte queste navi mercantili”. I contenitori alimentari tipici per i trasporti marittimi e fluviali in epoca romana furono le anfore. L’anfora è un manufatto eseguito a tornio in parti separate – corpo, collo / orlo, puntale, anse – poi assemblate fra loro fintantochè l’argilla è ancora malleabile. L’oggetto quindi viene fatto seccare in luogo aerato e poi cotto in una fornace …” (http://www.centuriazione.it/quaderni_win.asp?id=162)

(3) “Il primo studioso di questi recipienti fu, nel 1872, Heinrich Dressel. Studiando i cocci presenti sulla collina romana nota come monte Testaccio, antica discarica di questi contenitori, cominciò a catalogare e datare le anfore romane” (https://it.wikipedia.org/wiki/Anfora).

Foto di Lorenzo Bove

26
Ott

Fratel Ettore, il “Folle di Dio” !

Avviato il processo di beatificazione e canonizzazione di Fratel Ettore, soprannominato il “Folle di Dio”, l’umile Camilliano che dedicò la propria esistenza ai diseredati  e ai senza tetto di Milano.

Una vecchia utilitaria di colore bianco, una Fiat 127, con una statua della Madonna di Fatima fissata sul tettuccio, circolava per le strade di Milano e soprattutto nelle zone più degradate ove stazionavano barboni e diseredati di ogni sorta, con un folle alla guida che recitava il Santo Rosario, diffuso attraverso un gracchiante altoparlante. “Porto la Mamma con me”, rispondeva a chi gli domandava del perchè di quell’abitudine considerata da molti alquanto eccentrica. Si fermava, caricava a bordo i bisognosi e li portava in quel “Rifugio” che era riuscito a metter su nei pressi della stazione centrale di Milano, in uno dei tunnel che corrono trasversalmente sotto la ferrovia. E li lavava,  li curava, li accudiva e dava loro da mangiare.

Si dice che i ”Santi” siano anche un po’ “matti”!

Capelli bianchi, piuttosto scapigliati, abito talare nero lungo fino ai piedi, sdrucito, con una grossa croce di tessuto rosso cucita sul petto (proprio dell’Ordine dei Camilliani). Questo era “Fratel Ettore”, al secolo Ettore Boschini, il Camilliano molto noto a Milano, che ha speso la sua vita accanto agli ultimi nella metropoli lombarda,  a favore del quale l’Arcivescovo di Milano  ha dato il via libera alla pubblicazione dell’Editto per  l’avvio dell’iter che potrebbe portarlo agli onori degli altari.

La mattina di sabato scorso, 21 ottobre 2017,  la Diocesi di Milano ha annunciato l’apertura ufficiale della fase diocesana del processo di beatificazione e canonizzazione di Fratel Ettore, la cui missione era stata a suo tempo sostenuta dal Cardinale Carlo Maria Martini ed era conosciuta da San Giovanni Paolo II. “L’Arcivescovo di Milano, Mons. Mario Delpini – si legge nel comunicato diffuso dalla Diocesi – ha incaricato la Curia Arcivescovile di pubblicare l’Editto per l’apertura del processo di beatificazione e canonizzazione del Servo di Dio Fratel Ettore Boschini. Da questo momento in conformità all’art. 43 dell’Istruzione Sanctorum Mater della Congregazione delle Cause dei Santi, i fedeli ambrosiani potranno far pervenire al Servizio per le Cause dei Santi della Curia Arcivescovile di Milano testimonianze o scritti sulla figura del sacerdote in vista dell’inizio dell’istruttoria diocesana che avverrà martedì 19 dicembre”.

Ho avuto personalmente il piacere, ma soprattutto il privilegio e l’onore di incontrarlo, in diverse occasioni, per via del fatto che il Centro di accoglienza di Milano era ubicato in area ferroviaria, giurisdizione della Direzione Compartimentale delle FS, della quale all’epoca  facevo parte.

Aveva sempre bisogno di qualcosa e non si serviva di intermediari, si rivolgeva direttamente a chiunque potesse offrire aiuti per far fronte ai bisogni della sua comunità. L’approccio era rapido e molto sbrigativo, non si perdeva in preamboli: ti stringeva la mano, ti baciava su entrambe le guance, ti porgeva un “santino” … un segno di croce, un breve preghierina e ti prospettava subito il problema, che consisteva sempre in una richiesta di sostegno di qualunque genere. Era impetuoso e trascinante al tempo stesso … e non gli si poteva mai dire di no!

Fratel Ettore, era nato nel mantovano il 25 marzo 1928 e più precisamente presso la frazione Belvedere del comune di Roverbella, da una famiglia di agricoltori, trascorrendo la fanciullezza in ristrettezze economiche familiari. In età adolescenziale dovette abbandonare gli studi per andare a lavorare nei campi e nelle stalle, alle dipendenze di piccoli proprietari terrieri del luogo. A 24 anni,  la vocazione – che era già viva in lui – si fece più insistente, per cui scelse di entrare nell’Ordine dei Camilliani, venendo accolto il 6 gennaio 1952 e pronunciando i voti temporanei come Fratello, il 2 ottobre del 1953.

Nei primi anni Settanta Fratel Ettore era appena approdato a Milano, dopo 25 anni trascorsi a Venezia, destinato alla clinica camilliana “San Pio X”, quando nel capoluogo lombardo scoprì le miserie che si nascondono nella vita metropolitana delle grandi città. Desideroso di stare vicino ai  diseredati, senza tetto, immigrati, persone sole senza affetti, prese ad istituire dei “Rifugi” – del tipo di quello che creò nelle vicinanze della stazione ferroviaria centrale – luoghi ospitali organizzati per soccorrerli al meglio, prima da solo, poi con l’aiuto di volontari attratti dal suo carisma camilliano.

I milanesi lo ricordano  mentre percorreva in lungo e in largo Milano, alla ricerca dei bisognosi, offrendo aiuto concreto e spirituale.  La vita di Fratel Ettore era cambiata nel 1977, la notte di Natale, quando si era recato al dormitorio pubblico di viale Ortles con qualche bottiglia di spumante e dei panettoni, per festeggiare con gli ultimi. C’era un clochard che non aveva voglia di prendere parte alla festa; aveva i piedi congelati, le sue scarpe erano letteralmente marce e non aveva neanche le calze. Fratel Ettore si era tolto le sue scarpe e gliele aveva offerte, sentendosi dire: “Tu metti le mie se non ti fa schifo”. E così era tornato alla “San Pio X” con le luride calzature del barbone, decidendo che da quel giorno la sua vita – fino a quel momento dedicata ad assistere i malati  in ospedale – sarebbe stata totalmente dedicata ai poveri, ai senzatetto, a quelli di cui nessuno si prende cura.

Oggi, la sua opera ha Rifugi aperti a Seveso, Affori, Colle Spaccato di Bucchianico (Chieti), Grottaferrata (Roma) e a Bogotà in Colombia, e suor Teresa Martino – sua prima discepola – è alla guida della comunità.

Ed è proprio suor Teresa Martino la più tenace sostenitrice della beatificazione e canonizzazione di Fratel Ettore; lei che lo ha seguito da vicino in quella sua intrepida opera di comunione con gli ultimi, testimoniando le imprese di quel “Folle di Dio” che girava i bassifondi delle città alla ricerca dei senza tetto, nella  convinzione che – questo è quanto egli sosteneva –  “Amare significa non nascondere, perché non c’è nulla che non possa essere redento”.

Una passione e uno stile pastorale non sempre compreso e apprezzato. Ma nonostante le fatiche, le incomprensioni e i maltrattamenti (molto spesso veniva aggredito e picchiato dai suoi stessi ospiti dei rifugi), egli è diventato per moltissimi milanesi, e non solo, il “simbolo di una vera e difficile solidarietà”, come lo definisce anche il comunicato ufficiale dell’Arcidiocesi Ambrosiana che dà l’annuncio dell’avvio delle procedure a livello Diocesano.

Fratel Ettore morì il 20 agosto 2004 a 76 anni, nella clinica camilliana “San Pio X” a Milano, dove aveva iniziato la sua missione pastorale. Aveva scritto poco prima di morire: “Penso che quest’opera per gli ultimi, i diseredati, gli emarginati, sia stata proprio voluta dal Signore. Egli fa cose ben più grandi, anche solo con una mascella d’asino, dunque perché stupirci se ha fatto queste belle cose con un poveraccio come me? Ma io mi stupisco ancora, e richiedo: ma è vero, tutto vero, ciò che sto osservando, tutto ciò che si sta compiendo? E mi rispondo così: chi confida nel Signore non manca di nulla”.

Una lapide posta dai cittadini del Quartiere Greco di Milano, vicino alla stazione centrale, ricorda  la visita che anche Santa Madre Teresa di Calcutta volle fare al primo Rifugio di Fratel Ettore, in occasione di una sua venuta a Milano.

Foto di repertorio da Internet

16
Set

I pennacchi di San Michele

Durante le recenti vacanze estive, mi è capitato di  vedere in una vetrina di un negozio di ricordini di Monte Sant’Angelo, la foto di un variopinto “pennacchio”, corredato di una eloquente descrizione; il tutto ben incorniciato e messo lì in bella mostra. La curiosità mi ha spinto a soffermarmi per osservare e dare una scorsa veloce a quello che c’era scritto, che riporto integralmente qui di seguito:

« I pennacchi di San Michele sono un antico simbolo che i pellegrini portavano con sé in ricordo della venuta a Monte Sant’Angelo.

Posti come ornamenti sul bastone del pellegrino, o sui carretti a bordo dei quali le compagnie dei fedeli viaggiavano, il pennacchio è di origine antichissima.

“Il pellegrino medioevale, soprattutto il pellegrino che compiva il viaggio per penitenza comminata dall’autorità ecclesiastica, doveva riportare un segno tangibile del suo iter: la Palma da Gerico, la Conchiglia da Compostela, le Chiavi da Roma, la Fiala della Manna da Bari, la Piuma da San Michele del Gargano”.

 Anna Maria Tripputi, I Pellegrinaggi in età moderna e contemporanea, in AA.VV., l’Angelo la Montagna il Pellegrino, Claudio Grenzi Editore,  Foggia, 2003, pag. 311) ».

E’ presto detto che la curiosità che mi spingeva a scrutare il quadretto era stimolata da lontani ricordi, ricordi di quando ancora bambino a Poggio Imperiale assistevo esterrefatto al  passaggio delle compagnie di fedeli  che tornavano dai loro lunghi pellegrinaggi a Monte Sant’Angelo alla Grotta di San Michele Arcangelo.

Canti, preghiere, carretti trainati da cavalli e pennacchi colorati, tanti pennacchi variopinti ostentati sugli abiti degli uomini, delle donne e dei bambini, ma anche sulle teste dei cavalli, infilati nei loro finimenti.

Piume al vento che la brezza accarezzava dolcemente facendone risaltare le sfumature più intense.

Sono ricordi degli anni cinquanta del secolo scorso, quando i pellegrinaggi erano ancora  viaggi avventurosi, avvolti da misteri e da imprevisti, per via dei tragitti impervi e dei  mezzi di trasporto arcaici. Viaggi che richiedevano impegno e tanto sacrificio, accettati solo in quanto sostenuti da una fede vera e profonda.

 

30
Ago

La Malàndra (il fegato di polpo)

Abbiamo scoperto soltanto nei giorni scorsi che il polpo fresco, appena pescato, può offrire – oltre alla variegata gamma di manicaretti per lo più conosciuti – una “leccornia” esclusiva, che solo a pochi eletti è dato conoscere.

Un bocconcino prelibato davvero squisito e delicato riservato a palati ricercati che sanno apprezzare prodotti genuini, semplici e soprattutto legati alla tradizione popolare … la cosiddetta “cucina povera”.

L’opportunità si è presentata al mare, presso la Punta Pietre Nere di Lesina Marina, al  rientro in spiaggia dalla sua consueta mattinata di immersioni, di un nostro carissimo amico che aveva pescato una discreta quantità di polpi, stanandoli dai loro nascondigli, in profondità sotto gli scogli.

Io e mia moglie eravamo stati appena omaggiati di un bel polpo ancora vivo e nel mentre io mi accingevo alla sua (seppur crudele!) sbattitura su di uno scoglio, per renderlo più morbido, ci veniva consigliato di procedere preliminarmente allo svuotamento della sacca della testa, avendo cura di mantenere integra la borsa del fegato, da tenere da parte per preparare un prelibato “patè” da spalmare su crostini di pane od anche per condire spaghetti, linguine, riso od altro.

E’ seguita naturalmente la ricetta, che semplicemente prevede di scaldare in una padellina l’olio con uno spicchio d’aglio, immergervi il fegato di polpo (avvolto ancora nella sua delicata “borsa”, che con il calore si disfa facendo fuoruscire il contenuto piuttosto cremoso), aggiungere un pizzico di sale, pepe o peperoncino e lasciar cuocere per pochi minuti.

E, dunque, grazie ai nostri amici, lui per il polipo e lei (sua moglie) per la ricetta, abbiamo avuto l’opportunità di preparare e gustare degli ottimi crostini al patè di fegato di polpo, che abbiamo voluto “sperimentare” anche su di un piatto di riso in bianco per farne esaltare maggiormente la fragranza.

Esperimento riuscito: direi eccezionale!

Ho provato poi a fare qualche ricerca veloce su Internet e ho appreso che l’usanza di  cucinare il fegato di polpo è prettamente pugliese, soprattutto della zona di Bari.

Viene denominata “malàndra”, pare per via del suo colore scuro: etimologicamente deriverebbe dalla parola “melandryon” e cioè dalla tunica nera che veniva fatta indossare ai “malandrini” prima di salire alla “gogna”.

Un cibo povero ma gustoso, che si caratterizza per sapore unico e apporto nutritivo; per tradizione alimento dei pescatori che conservavano, per loro, le sole interiora poiché il pesce doveva invece essere  venduto per ricavare il denaro necessario per poter tirare a campare.

Recentemente di “malàndra” se ne è parlato anche in televisione nella nota trasmissione Master Chef, ove i massimi esperti di cucina internazionale hanno esaltato la sua esclusività (http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/video/mediagallery/717182/La-malandra-di-polpo-conquista-MasterChef.html).

Le “malàndre” possono essere anche consumate fritte, come riporta Sandro Romano, studioso di gastronomia storica, regionale e del mondo; presidente di E.N.D.A.S. Gusto e Tradizioni Comitato Provinciale di Bari; assaggiatore O.N.A.V.; autore del libro “Assaggio di Puglia”; realizzatore di eventi e rievocazioni storiche a tema gastronomico-culturale; presidente e animatore della “Compagnia della Lunga Tavola”:

« Le “malàndre”, in dialetto barese, sono le interiora del polpo contenute nella testa dello stesso.

In Puglia, il polpo appena pescato,  viene ”arricciato” per prepararlo al consumo sia crudo che cotto e, prima di tale operazione, lo si priva delle interiora. Infarinate e fritte in ottimo olio extra vergine d’oliva “Terra di Bari”,  le “malàndre” sono una prelibatezza se servite ancora calde intingendovi del buon pane casereccio.

Non lasciatevi ingannare dal nero che le colora nel momento in cui, durante la frittura, si rompe la sacca dell’inchiostro. Sono ottime, racchiudono davvero il sapore del mare » (http://www.taccuinistorici.it/ita/ricette/contemporanea/pesci/Malandre-fritte.html).

30
Lug

A Poggio Imperiale, la presentazione di un nuovo libro di Alfonso Chiaromonte

Una bella serata all’insegna della cultura, attraverso la ricerca delle tradizioni, storie, leggende e miti, per riscoprire le nostre radici e quelle più profonde del nostro territorio.
L’occasione è stata offerta dalla presentazione dell’ultimo libro del Prof. Alfonso Chiaromonte, “scrittore di storie patrie ed autore di apprezzati studi e saggi che non tralasciano nessun aspetto della micro-storia di Poggio Imperiale e del suo territorio”, avvenuta sabato 29 luglio 2017 presso il “Centro polivalente Anziani”, in viale Vittorio Veneto, 50 di Poggio Imperiale.
“Poggio Imperiale, il fiumicello Caldoli e il culto di san Nazario Martire”, per i tipi delle Edizioni del Poggio, questo è il titolo del saggio pubblicato, del quale l’autore ha voluto, nel suo intervento, tratteggiare i passaggi più salienti. La parola è poi passata ai tre relatori che hanno colto, dalla loro analisi del testo proposto,  aspetti inediti e molto interessanti.

La serata è stata allietata da canti della tradizione popolare, con la rievocazione anche di testi e musiche di Matteo Salvatore, il noto e mai dimenticato “cantore apricenese”.
Il Sindaco di Poggio Imperiale e l’Editore delle Edizioni del Poggio hanno infine, con il loro saluto, chiuso la piacevole serata, che ha fatto registrare una notevole partecipazione di pubblico.

Riporto, qui di seguito, la mia relazione integrale svolta nell’occasione, in veste di relatore.

Relazione presentazione libro di Alfonso Chiaromonte
Poggio Imperiale, 29 luglio 2017

di Lorenzo Bove

Il Prof. Alfonso Chiaromonte presenta un suo nuovo libro dal titolo “Poggio Imperiale, il fiumicello Caldoli e il culto di san Nazario Martire” per i tipi delle Edizioni del Poggio.
Con dovizia di particolari e con la consueta precisione di riferimenti, questa volta l’autore ci conduce per mano nei dedali della mitologia per approdare poi agli albori del Cristianesimo, alle persecuzioni e all’affermarsi infine di questa nuova religione nell’impero romano, fornendoci nel contempo elementi di conoscenza riguardo alla trasformazione di antichi templi dedicati agli Dei pagani in chiese, basiliche, abbazie, santuari consacrati ai Martiri del Cristianesimo e ai suoi Santi, con particolare riferimento al nostro territorio della terra di Capitanata, Daunia e del Gargano.
Intrigante, coinvolgente ed affascinante al tempo stesso il mistero che avvolge la Montagna Sacra del Gargano e la Grotta di San Michele Arcangelo di Monte Sant’Angelo. La fede, le credenze, i rituali cristiani e quelli pagani che si intrecciano tra di loro rischiando di generare disorientamento e i tanti dubbi che affiorano dalle analisi condotte dal Chiaromonte sulla base delle numerose fonti consultate. Ma chi non ha dubbi? … ci rammenta ogni tanto papa Francesco. E’ la fede la sola che ci sorregge e che ci indica la Via.
Ma, al di là di ogni considerazione, la Grotta di San Michele Arcangelo rappresenta, per molti di noi, forse ancor più che il Santuario di San Giovanni Rotondo dedicato al Santo Pio da Pietrelcina, il punto di riferimento spirituale della nostra fede e della nostra speranza di salvezza del mondo intero, oggi così barbaramente martoriato da eventi di una gravità tale da far accapponare la pelle. Una citazione di Padre Pio: “Prima di recarvi qui da me… andate a Monte Sant’Angelo e invocate l’aiuto e la protezione dell’Arcangelo Michele”.
Monte Sant’Angelo è uno di quei posti in cui torniamo sempre volentieri, per via della sacralità che si respira, per il mistero che impregna i luoghi, il cui culto traspira davvero dalle stesse rocce che lo costituiscono; un luogo esclusivo sia per la sua storia che per la fortissima spiritualità che aleggia al suo interno. Nello scendere nelle viscere della terra, per raggiunge la Grotta, si è pervasi da un qualcosa di mistico, un qualcosa che sfugge alle normali possibilità di conoscenza e che diviene quindi enigmatico e misterioso. Anche lo stesso San Francesco d’Assisi è sceso fin laggiù. A destra dell’ingresso della Grotta si trova un piccolo altare che ricorda la sua visita, compiuta nel lontano 1216, e San Bonaventura narra che San Francesco non si ritenne degno di entrare al cospetto del Principe delle Celesti Milizie: si fermò a pregare dinanzi all’entrata della Grotta dell’Arcangelo Michele.


In questo suo ultimo libro, il Prof. Alfonso Chiaromonte si sofferma sul fiumicello Caldoli che scorre nel territorio di Poggio Imperiale nei pressi del Santuario di San Nazario, tracciando un profilo, per quanto possibile attendibile, del Santo molto venerato nel nostro territorio e soprattutto dagli abitanti di Poggio Imperiale e dei comuni limitrofi di San Nicandro Garganico, Apricena e Lesina.
Nel fiumicello Caldoli scorrono placide acque “termali”, un tempo ritenute prodigiose nella cura del corpo e anche dello spirito, nelle quali – forse – anche il nostro Santo, al tempo un legionario romano, avrebbe lavato e purificato le sue piaghe.
Le abbondanti informazioni che l’autore mette in luce sono desunte da una vasta gamma di fonti ricercate in maniera certosina, consultate ed analizzate approfonditamente. Ed anche qui riappaiono dubbi, equivoci, supposizioni, sui nomi, sulle date, sui ritrovamenti e quant’altro ci è stato tramandato nei tempi.
Ma la devozione al nostro Santo rimane solida … oltre ogni ragionevole dubbio.
Lo stesso autore del libro sottolinea, nella sua Premessa, che “Scrivere di epoche così lontane, senza essere confortato da documenti che possono riempire tanti vuoti e capire come si sono svolti alcuni eventi, è cosa ardua e difficile”.
E gli si deve dare atto di come egli sia riuscito ad elaborare un saggio abbastanza minuzioso, nel quale si ricompongono man mano – come in un “puzzle” – tutte le “tessere” di questo stupendo mosaico che è la storia del nostro territorio, della nostra gente con le sue tradizioni e le sue credenze. Un saggio che ha il pregio di raccogliere e sviluppare in un unico volume le poche e frammentarie informazioni sul nostro Santuario, sul nostro Santo Martire e sul fiumicello Caldoli disseminate qua e là in fonti più disparate, scritte e di tradizione orale con qualche leggenda.
Il testo è di facile lettura anche se, a prima vista, i riferimenti mitologici e storici, in greco e in latino potrebbero destare, per il lettore, qualche iniziale titubanza. Ma giusta la scelta di riportare tali terminologie nel contesto in cui sono state inserite.
Un excursus storico, politico, religioso e di fede, che si perde nella notte dei tempi fino ad arrivare ai giorni nostri, con esami comparativi finalizzati a mettere a confronto nomi (Nazario, Nazzario, Nazzaro, Lazzaro (Lazzare), Eleazzaro, presunte date di nascita, di martirizzazione per decapitazione (68 d.C. sotto Nerone, 76 o 78 d.C. sotto Vespasiano o 304 sotto Diocleziano), del rinvenimento dei corpi, ecc.
Il culto sul territorio di San Nazario Martire, a partire da quando? Sorgeva in precedenza un antico tempio pagano dedicato a Podalirio? E poi la lotta tra Lesina e Poggio Imperiale per il predominio sulla Cappella dedicata al Santo, fino al sogno dello sviluppo del Santuario e lo sfruttamento delle acque termali del Caldoli.
Questo il nuovo libro dell’amico Alfonso.


Tuttavia l’occasione consente anche qualche piccola divagazione che attiene non tanto alla storia del Santuario di San Nazario, quanto invece a qualche mio personale ricordo dei luoghi riferito ad eventi risalenti ad oltre mezzo secolo fa.
Ebbene, procediamo con ordine.
Ricordo le “levatacce” mattutine di alcune domeniche per servire la Santa Messa al Santuario di San Nazario celebrata dal parroco Don Giovanni Giuliani senior per le famiglie dei contadini delle campagne limitrofe; si andava con una “giardinetta” gialla con la reclame della Pasta Ghigi. La Cappella era presenziata da un eremita che fungeva da guardiano e sagrestano e dimorava in un pagliaio attiguo circondato da un orto ben fornito. In prossimità della ricorrenza della Festa di San Nazario del 28 luglio di ogni anno venivano eseguiti degli interventi preparatori per rendere la Chiesa agibile ed accogliente da parte della molteplicità di pellegrini che vi sarebbero confluiti nel corso dei festeggiamenti solenni dedicati al Santo. E, poi, gli addobbi dell’altare e il “tusello” ove veniva collocata la (vecchia) statua di San Nazario, una sorta di trono tappezzato di drappi colorati e nastri dorati. In tutte queste operazioni, non mancava la presenza del sacrestano tarnuese Antonio Imperiale conosciuto meglio come ‘Ndonije ‘u sarijestane, un personaggio di molteplici capacità e di spiccata intelligenza. S’intendeva di elettricità, idraulica, meccanica e di tutto quanto potesse occorrere per risolvere problemi di qualunque natura. Era impressionante vederlo salire e volteggiare su lunghe scale a pioli per sostituire una lampadina o riparare un guasto in chiesa, nonostante i suoi problemi di difficoltà di deambulazione dovuti ad una poliomelite infantile, che lo costringevano a servirsi delle stampelle per poter camminare. E noi ragazzi del tempo fungevamo da suoi aiutanti oltre che fare i chierichetti. Personalmente devo ancora oggi dire grazie a lui se riesco ad arrangiarmi con qualche lavoretto manuale fai da te.
Con l’avvento di don Nannino (don Giovanni Giuliani junior) i giovani dell’Azione Cattolica, la GIAC, fummo letteralmente investiti da una spinta propulsiva che ci coinvolgeva pienamente facendoci veramente sentire protagonisti e portatori di un messaggio nuovo da divulgare con la forza dell’esempio in mezzo alla gente.
Anche in occasione della Festa di San Nazario i giovani della GIAC hanno sempre assicurato il loro fattivo contributo di partecipazione sul piano del volontariato. Ma il primo anno di avvio della loro partecipazione, che risale – come già accennato prima – ad oltre mezzo secolo fa, resta davvero memorabile, almeno nei miei ricordi terranovesi di gioventù, e sicuramente anche in quelli di Alfonso, autore del libro.
Partimmo da Poggio Imperiale qualche giorno prima dei festeggiamenti del Santo ed iniziammo i lavori di preparazione sotto la guida del sagrestano ‘Ndonije ‘u sarijestane. La pausa pranzo era allietata dalla consumazione collettiva di uno squisito “pancotto” preparato a cura dell’eremita del Santuario, con i sui ortaggi. Pernottamento … in Chiesa … distesi sui banchi di legno e … bagni di acqua “sorgiva e tiepida” nel vicino fiumicello Caldoli.
Baldoria, giochi e canti la sera; ricordo di un gioco … a passarci la palla a mano … ma invece della palla ci passavano dei meloncini, naturalmente dell’orto dell’eremita. Ma anche qualche scherzo più audace, del tipo … prendere di peso qualcuno per le mani e per i piedi … dondolarlo un po’ e poi lanciarlo nel fiumicello. Sorte che capitò, suo malgrado, anche all’ignaro eremita, originario di San Nicandro.
Nei due giorni di festa, ci si alternava tra noi nelle varie incombenze e presso i nostri “stands” a vendere giocattoli o bibite o ricordini o candele, senza alcuna interruzione notturna, poiché i pellegrini, accampati nelle adiacenze del Santuario, continuavano a circolare senza sosta anche di notte.
Mi sovviene in proposito un avvenimento curioso del quale sono stato … incauto artefice.
Era il mio turno di vendita delle candele all’ingresso del Santuario, insieme ad un altro compagno di avventura, ed avevamo notato che i pellegrini arrivavano in chiesa già con la candele in mano e quindi le nostre candele non si vendevano. Dopo un po’ scoprimmo l’arcano: i venditori “professionisti” di candele, per lo più forestieri ed esperti in materia, avevano la prontezza di andare incontro ai pellegrini all’arrivo dei “torpedoni” o delle carovane di carretti e quindi riuscivano a “piazzare” subito le loro candele.
E, allora, mi feci ardito e, all’arrivo del primo “torpedone” mi portai nei paraggi, con il mio pacco di candele, aspettando che i pellegrini cominciassero a scendere ed in effetti la cosa funzionava … stavo cominciando a vendere anch’io le prime candele.
Ma avevo fatto i conti senza l’oste. Infatti uno dei venditori “professionisti”, battuto sul tempo da un ragazzino come me, non poteva sopportare tale affronto e con uno scatto felino era in procinto di saltarmi addosso per scansarmi da quel posto e suonarmele magari di santa ragione. Ebbi la prontezza di schivare il colpo e di scappare velocemente verso il Santuario dove trovai riparo e informai immediatamente di quanto successo don Nannino, il quale fece rintracciare il suddetto individuo e lo diffidò sonoramente, richiamando nel contempo noi ragazzi a rimanere con le candele all’ingresso della chiesa senza allontanarci.
Nel pomeriggio inoltrato dell’ultimo giorno, dopo che tutti gli “stands” erano stati smobilitati ed in attesa del ritorno in paese, io e Fernando, il fratello minore di Alfonso, ci sdraiammo un attimo all’ombra di un poderoso albero di olivastro, cedendo le forze ad Hypnos, il dio del sonno della mitologia greca.
All’arrivo delle macchine che dovevano riportarci a casa, mancavamo all’appello io e Fernando e quindi cominciò una ricerca affannosa, temendo addirittura che fossimo annegati nel fiumicello Caldoli. A furia di sentire urli e richiami, finimmo con lo svegliarci e raggiungemmo così i nostri compagni di avventura … che naturalmente si mostrarono davvero furibondi e non affatto benevoli nei nostri confronti.
Ed io continuai poi a casa mia una lunga dormita rigeneratrice, che sicuramente durò molte ore, e mia madre mi fece dormire e non venne a svegliarmi neanche quando i miei amici … preoccupati … vennero a cercarmi.

Concludo, complimentandomi con l’amico Alfonso Chiaromonte per l’ottimo lavoro di ricerca eseguito e per le preziose informazioni che, con questo suo ultimo libro, ha voluto ancora una volta fornirci.
Un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio alla ricerca delle tradizioni, storie, leggende e miti, per riscoprire le nostre radici e quelle più profonde del nostro territorio.

 

19
Lug

Poggio Imperiale, il fiumicello Caldoli e il culto di san Nazario Martire

Un viaggio a ritroso nel tempo, alla ricerca delle tradizioni, storie, leggende e miti, per riscoprire le radici del nostro antico territorio: la terra di Capitanata, Daunia e del Gargano.

“Poggio Imperiale, il fiumicello Caldoli e il culto di san Nazario Martire”, il titolo del nuovo libro di Alfonso Chiaromonte, per i tipi delle Edizioni del Poggio, che vuole essere un excursus storico, politico, religioso e di fede, che si perde nella notte dei tempi fino ad arrivare ai giorni nostri.

Intrigante coinvolgente ed affascinante il mistero che avvolge la Montagna Sacra del Gargano, ma anche la fede, le credenze, i  rituali cristiani e quelli pagani che si intrecciano tra di loro, riferiti non solo alla Grotta  di San Michele Arcangelo ma anche ad altri meno noti Siti presenti nei dintorni, come l’antica Cappella dedicata a San Nazario Martire lambita dal  fiumicello Caldoli, le cui acque “termali” erano un tempo ritenute prodigiose nella cura del corpo e  anche dello spirito. E dove, forse, anche il Santo – venerato dagli abitanti di Poggio Imperiale e dei paesi vicini di San Nicandro Garganico, Apricena e Lesina – avrebbe lavato e purificato le sue ferite.

La presentazione del libro si svolgerà a Poggio Imperiale, alle ore 20,00 del giorno 29 luglio 2017, presso il Centro Polivalente Anziani, in viale Vittorio Veneto n. 50.

Dopo i saluti del Sindaco Alfonso D’Aloiso, del Consigliere con delega alla Cultura Alessandro Buzzerio e dell’Editore Peppino Tozzi, prenderanno la parola i relatori:

  • Giucar Marcone, Giornalista e Scrittore
  • Don Giuseppe Giuliani, Parroco di Poggio Imperiale
  • Lorenzo Bove, Scrittore e Blogger, appassionato di tradizioni e storia locale
  • Alfonso Chiaromonte, Autore del libro

La serata sarà allietata da canti della tradizione popolare.

La manifestazione è patrocinata dal Comune di Poggio Imperiale e promossa dall’Associazione Culturale “Circuito Creativo di Poggio Imperiale, l’AVIS di Poggio Imperiale e le Edizioni del Poggio di Poggio Imperiale.

27
Mag

Le Mont-Saint-Michel, la “Merveille”

Questo luogo meraviglioso che sorge tra la Normandia e la Bretagna è meta di turisti provenienti da ogni parte del mondo.

Il “Mont-Saint-Michel” dista 400 Km circa dalla capitale, Parigi, e figura tra i luoghi maggiormente visitati della Francia: una semplice visita o un week-end rappresentano un’esperienza indimenticabile. Esperienza che io e mia moglie abbiamo voluto provare a fare personalmente nei giorni scorsi, traendone vivo entusiasmo e grande soddisfazione, al netto di qualche inevitabile disagio che il viaggio e la visita nel complesso comportano.

Il Mont-Saint-Michel è soprannominato ”La Merveille” (La Meraviglia): la Meraviglia dell’Occidente; un misto di fortezza e spiritualità, costruita incredibilmente nel bel mezzo di un’immensa baia, famosa per le sue maree, le più alte d’Europa; un’enorme massa rocciosa che sostiene un borgo antico e la sua imponente abbazia.

Mont-Saint-Michel è forse l’emblema della Francia del nord, con il suo profilo inconfondibile che si staglia sulla candida distesa di sabbia provocata dalla marea. A tal proposito, lo scrittore Victor Hugo diceva: “Il Mont-Saint-Michel è per la Francia ciò che la Grande Piramide è per l’Egitto”.

Questa meraviglia architettonica, costruita secondo la leggenda nel punto in cui l’arcangelo Michele apparve al vescovo di Avranches, è Patrimonio Mondiale dell’Unesco dal 1979 ed ogni anno viene visitata da oltre 3 milioni di persone (è il terzo sito turistico più visitato in Francia dopo la Tour Eiffel e la Reggia di Versailles).

Oltre alla bellezza del complesso monastico e della città medievale in miniatura che si snoda intorno all’abbazia, gran parte del fascino di questo luogo senza tempo è dato dalla particolare posizione in cui esso si colloca. Immerso nella natura incontaminata, Mont-Saint-Michel gode del poderoso e spettacolare fascino delle maree che si muovono a seconda dell’attrazione gravitazionale esercitata dalla luna: periodicamente (durante gli equinozi di primavera e autunno)  le acque del mare circondano e inondano il sito facendolo diventare un’isola, ovvero si ritraggono anche per 15 metri lasciando un paesaggio lunare di una suggestione infinita che si accende con i colori del tramonto.

Mont-Saint-Michel è un luogo cristallizzato, immobile, immutato da millenni, quasi sospeso tra terra, mare e cielo. E, attraversata la prima cerchia delle possenti mura sul fianco sud della roccia, ai piedi dellimponente abbazia, si snoda il piccolo borgo: un tripudio di antiche case normanne, viottoli, scalini e tanti locali per ospitare i turisti, hotel, ristoranti, negozi, ecc.

E c’è dunque molto da “scarpinare” … salite e scale, tante scale!

Fino a qualche anno fa, il collegamento di Mont-Saint-Michel alla terraferma era assicurato da una strada lunga 2 km (si trattava di un terrapieno rialzato), oggigiorno sostituita da un ponte (tipo passerella) che consente alle maree di poter agevolmente defluire al di sotto di esso. Infatti, a causa dell’accumulo esponenziale di sabbia (dovuto alla presenza del suddetto terrapieno), la particolare e davvero unica conformazione di questo isolotto rischiava di scomparire, con una conseguente riduzione del fenomeno delle maree. E’ stato così deciso di intervenire con una faraonica opera infrastrutturale per salvare la baia, attraverso la costruzione di una nuova diga sul fiume Coüenson e la sostituzione della strada con un ponte pedonale, oltre alla realizzazione di un moderno Centro visitatori con parcheggio a circa 2,5 km dall’isola. La diga di Coüenson, inaugurata nel 2009, regolando la portata dell’acqua ridona al fiume la forza di portare i detriti al largo, lontano dal Mont Saint-Michel, oltre a garantire un’importante funzione idraulica, fondendosi  armoniosamente nel percorso di avvicinamento al sito di Mont-Saint-Michel e facendosi essa stessa opera d’arte e punto riferimento per l’accoglienza dei visitatori.

I collegamenti dall’area di parcheggio, attigua al funzionale Centro visitatori, pensato per orientare il turista e rendere più agevole la visita del Mont-Saint-Michel, ma anche della baia e delle Regioni della Normandia e della Bretagna, vengono assicurati da comode navette su gomma “Le Passeur” che portano fino al capolinea, a 350 metri circa dal Mont-Saint-Michel (10 minuti circa di percorrenza, a seconda dell’affluenza dei visitatori). Ma è anche possibile fare a piedi l’intero percorso di avvicinamento (attraverso la passerella). In molti si azzardano addirittura ad affrontare il percorso a piedi nudi o muniti di stivali via mare nei periodi di bassa marea.

Le Mont Saint-Michel, un capolavoro di architettura.

Vera e propria prodezza della tecnica, audace capolavoro, ambizione spirituale, questa abbazia benedettina dedicata a San Michele Arcangelo sfida la roccia e la gravità e presenta un’incredibile varietà di architetture religiose, dall’epoca carolingia fino alle forme più eleganti dell’arte gotica fiammeggiante (l’ultima fase del gotico è detta flanboyant ovvero fiammeggiante; un esempio di gotico fiammeggiante è la facciata pentagonale di Saint-Maclou a Rouen, capitale della Normandia, in cui il volume pieno si dissolve in una polifonia di ornati e pinnacoli). Ricco esempio della vita monastica, la vista si snoda su più livelli mostrando gli spazi dedicati alla vita quotidiana (refettorio, chiostro, scrittorio, ecc.), religiosa (chiesa abbaziale, cappelle, cripte), e all’accoglienza dei pellegrini (sala dell’elemosiniere, sala degli ospiti, ecc.).

Milletrecento anni di storia.

Dalla visione di Sant’Auberto, vescovo di Avranches, al quale San Michele apparve per tre volte nel 708, alla visita dei re di Francia da Filippo Augusto a Francesco I, l’abbazia di Mont-Saint-Michel è stata anche chiamata “la Bastiglia dei mari” e totalmente trasformata in prigione dal 1793 al 1863. Considerata da Napoleone III come un monumento storico di fondamentale importanza, è stata al centro di un attento piano di restauro e continua a incantare con una programmazione di eventi culturali destinati a ogni tipologia di pubblico.

Vero fiore all’occhiello del Patrimonio Mondiale dell’Unesco.

Primo monumento di Francia ad essere iscritto, nel 1979, nel patrimonio mondiale dell’umanità, il Mont-Saint-Michel e la sua baia testimoniano, con le loro straordinarie ricchezze naturali e architettoniche, tutti gli eccezionali valori universali difesi dall’Unesco. Nel 1998, ha ottenuto una seconda classificazione come tappa del Cammino di Santiago di Compostela in Francia, affermandosi quale luogo di grande spiritualità. Qui, da tutto il mondo, convergono pellegrini e turisti che restano estasiati di fronte alla meraviglia del panorama, visibile esclusivamente dalla terrazza ovest dell’abbazia.

Forme e colori che cambiano con le stagioni.

Il picco roccioso sorto dalla spiaggia di ciottoli, le pietre per le costruzioni importate dalle isole Chausey (un arcipelago formato da piccole isole e scogli al largo della costa della Normandia, nel canale de la Manica) e le case a graticcio si mescolano nelle architetture del villaggio e della sua cinta muraria, come nel complesso di edifici monastici di questa “Meraviglia dell’occidente”, la cui edificazione risale principalmente al XIII secolo. La vita qui è scandita dal respiro delle potenti maree dell’Oceano Atlantico, lungo la costa francese al confine tra la Normandia e la Bretagna. Ogni giorno la luce imprime il proprio marchio con colori cangianti le cui variazioni, stagione dopo stagione,  illuminano le inconfondibili forme del Mont-Saint-Michel.

Un viaggio nella storia sotto le ali dell’Arcangelo.

E’ un po’ come rivivere l’avventura dei pellegrini del Medioevo ammirando dall’alto, dopo la salita verso l’abbazia, una delle baie più belle del mondo, il villaggio e le fortificazioni giunte fino a noi attraverso i secoli. La roccia, il complesso abbaziale, le cappelle, le cripte, il chiostro e le sale gotiche rappresentano un indimenticabile viaggio nella storia.

L’abbazia di Mont-Saint-Michel e le sue leggende.

La visita-pellegrinaggio all’abbazia di Mont-Saint-Michel dovrebbe rappresentare, secondo la tradizione, l’ultima tappa del “cammino” (ovvero la prima se il percorso viene intrapreso nel senso inverso) che prende il suo avvio a migliaia di chilometri di distanza, in Italia, e per la precisione, in Puglia, da Monte Sant’Angelo, un’altura nel Gargano su cui sorge il Santuario di San Michele Arcangelo – il più antico luogo di culto micaelico dell’occidente  –  con una tappa intermedia in Piemonte, in Val di Susa, dove si erge lo spettacolare complesso denominato “Sacra di San Michele”, gemello italiano della più famosa abbazia normanna di Mont Saint-Michel. Questi tre siti si trovano sulla stessa linea retta, a distanza di 1.000 Km l’uno dall’alto, che proseguendo porta infine a Gerusalemme.

La leggenda narra che ad unire in un’unica traiettoria le Basiliche di Mont-Saint-Michel in Normandia, la Sacra di San Michele in Piemonte e Monte Sant’Angelo in Puglia (verso la Terra Santa), sarebbe stata proprio la spada che San Michele usò durante la lotta contro il diavolo. Una fenditura invisibile, ma presente, localizzata tuttora sulla superficie terrestre.

Nel corso del Medioevo, migliaia di pellegrini, per assicurarsi una buona morte (l’Arcangelo era presentato anche come l’accompagnatore delle anime nell’eterno), percorrevano la via tracciata dall’Arcangelo e chiamata dai fedeli “Via Michelita”, detta pure “Via Angelica”.

Si narra che nel 708 l’Arcangelo Michele sia apparso al vescovo Auberto di Avranches, chiedendogli di erigere una chiesa sulla cima montuosa di una penisola costiera che emergeva dalle acque della Manica, un tempo collegata al continente da una lingua di terra boscosa. Il vescovo ignorò per ben due volte la preghiera del Santo, che risentito gli bruciò il cranio con un tocco del suo dito, provocandogli un foro rotondo, ma senza conseguenze per la sua salute (il cranio è tuttora conservato nella cattedrale di Avranches). Dopo l’accaduto, il vescovo obbedì e dando una forma tondeggiante all’iniziale progetto, volle farlo somigliare ai sotterranei della chiesa del Gargano in Puglia.

Ebbene, per noi, originari di Poggio Imperiale in provincia di Foggia, distante solo poche decine di chilometri da Monte Sant’Angelo, la visita alla Grotta dell’apparizione dell’Arcangelo Michele rappresenta ogni anno, nel corso delle vacanze estive, una tappa inderogabile. Risiedendo, poi, da tanti anni in Lombardia, non abbiamo esitato ad avventurarci lo scorso anno – il 29 settembre proprio in concomitanza della festa di San Michele Arcangelo – fino all’imbocco della Val di Susa, in Piemonte, per inerpicarci tra i sentieri e visitare la monumentale abbazia della Sacra di San Michele. E, dunque, Mont-Saint-Michel, in Normandia, era ormai divenuta una meta (quasi) obbligata per concludere  questo avvincente ed emozionante itinerario.

Missione compiuta!

Foto di Lorenzo Bove

Per maggiori approfondimenti:

Lorenzo Bove: “L’Abbazia Sacra di San Michele della Chiusa”, 24 ottobre 2016, www.paginedipoggio.com

Lorenzo Bove: “A Ripalta (di Lesina) un piccolo gioiello gotico, tutto da scoprire”, 7 settembre 2012, www.paginedipoggio.com

 

 

 

 

 

28
Apr

A Roma una mostra su Steno, uno dei padri della commedia all’italiana!

Martedi 11 aprile 2017 è stata inaugurata a Roma, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, la mostra «Steno, l’arte di far ridere. C’era una volta l’Italia di Steno. E c’è ancora», che si protrarrà fino a tutto il 4 giugno p.v.

L’evento, organizzato in occasione del centenario della nascita di Stefano Vanzina , in arte “Steno”, nato il 9 gennaio 2017, rappresenta un percorso fatto di fotografie, cimeli, carteggi, testimonianze dei tanti attori con i quali ha lavorato: da Totò ad Aldo Fabrizi, da Alberto Sordi a Vittorio De Sica, dalla coppia Tognazzi-Vianello a quella Franchi-Ingrassia, da Renato Pozzetto a Diego Abatantuono, da Mariangela Melato a Monica Vitti, da Enrico Montesano a Gigi Proietti, tra i protagonisti dell’indimenticabile film cult “Febbre da Cavallo”.

Lo scorso 19 aprile, io e mia moglie abbiamo avuto l’opportunità di  visitare l’originale e interessante rassegna in corso nella Capitale, non solo per amore di cultura ma anche per rivivere momenti della nostra infanzia e prima giovinezza, trascorsa a Poggio Imperiale, quando il “cinema” svolgeva, insieme alla radio, un ruolo importante di svago e forse anche di formazione-informazione. E, in tutta sincerità, le nostre aspettative non sono andate deluse; al contrario: è stato un vero tuffo nel passato denso di ricordi e di emozioni.

L’esposizione è impostata sulla base del “Diario futile”, una vera e propria opera pop in cui l’influente e prolifico regista incollava ritagli di giornale, vignette, appunti e foto dei collaboratori, e analizza la filmografia del regista, contestualizzandone il periodo storico, sociale e culturale in cui ha operato.

Sono presenti continui parallelismi con il cinema degli esordi (il cinema comico) e la nascita della “commedia all’italiana”, attraverso riviste umoristiche, come “Marc’Aurelio”, attori, sceneggiatori e registi che hanno fatto la storia del cinema italiano.

Nei “ricordi di celluloide” di Steno emergono alcuni “siparietti” molto simpatici; di questi ne ho annotato uno in particolare che voglio qui riportare. Si tratta di un episodio che si è verificato nel corso della lavorazione dell’immemorabile film “I due marescialli” con Totò e Vittorio De Sica del 1962, mentre veniva girata la famosissima scena della “carta bianca”, che vedeva Totò (finto maresciallo) in un’accesa discussione con un ufficiale tedesco delle SS. Ricorda Stefano Vanzina che … “Totò doveva rispondere: Ha carta bianca? E allora ci si pulisca il …! Si rifiutava di dire quella parola, faticai a convincerlo, finché con fatica la disse”.

Regista tra i più eclettici del panorama italiano, insieme a Monicelli, Risi e Comencini, Stefano Vanzina è da annoverare tra i padri della cosiddetta “commedia all’italiana”.

Attraverso materiale inedito di famiglia, grazie ai figli Enrico e Carlo Vanzina, con la collaborazione degli archivi Studio EL Cinecittà, Latitudine, la mostra ricostruisce la storia professionale e privata di uno dei più grandi registi italiani: dall’infanzia fino all’ultima opera cinematografica.

Steno, nome d’arte di Stefano Vanzina, nato a Roma il 19 gennaio 1917 e morto a Roma il 13 marzo 1988, è stato regista e sceneggiatore del cinema italiano, ricordato soprattutto per la sua professionalità e per l’ampia e poliedrica carriera cinematografica.

Figlio di Alberto Vanzina, giornalista del Corriere della Sera, emigrato in Argentina in gioventù e di Giulia Boggio, a tre anni rimase orfano del padre con la famiglia che versava in gravi difficoltà economiche. Completò gli studi liceali e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza non terminando gli studi universitari (in una bacheca è esposto, tra le altre cose, anche il suo libretto universitario).

Diplomatosi scenografo all’Accademia di Belle Arti, entrò, verso la metà degli anni trenta, al Centro Sperimentale di Cinematografia e iniziò a disegnare caricature, vignette e articoli umoristici adottando lo pseudonimo di “Steno”, che utilizzerà anche al cinema tranne in due occasioni nelle quali si firmò col suo vero nome, dapprima alla  Tribuna Illustrata, quindi entrando nella redazione del celebre giornale umoristico Marc’Aurelio, vera fucina di nomi in seguito importanti come Marcello Marchesi e Federico Fellini, dove rimase per cinque anni, scrivendo nel medesimo tempo anche copioni radiofonici e testi per il teatro di avanspettacolo.

Da lì le porte del cinema si aprirono grazie a Mario Monicelli, che lo volle come sceneggiatore e spesso come aiuto regista in molti suoi film, scrivendo copioni anche per Simonelli, Bragaglia, Freda e Borghesio, oltre ad apparire come attore in due film. Nel 1949, con “Al diavolo la celebrità” fece il suo esordio alla regia dirigendo otto film in collaborazione con  Mario Monicelli, già suo fedele compagno di sceneggiature sin dall’immediato dopoguerra. A partire dal 1952, con “Totò a colori”, firmò da solo le sue pellicole.

Nei trenta anni seguenti diresse un grande numero di film che ottennero spesso strepitosi successi con tutti gli attori cari al grande pubblico, tra i quali quelli più grandi, Totò e Alberto Sordi, ma anche Aldo Fabrizi, Renato Rascel, le coppie Tognazzi – Vianello e Franchi – Ingrassia, Jonny Dorelli, Bud Spenser, Lando Buzzanca, Gigi Proietti, Enrico Montesano, Renato Pozzetto, Paolo Villaggio e Diego Abbatantuono e tanti altri; nonché attrici celebri del calibro di Marisa Allasio, Silva Koscina, Edwige Fenech, Ornella Muti ed  altre ancora.

Sposato con Maria Teresa Nati, ebbe da lei due figli entrati con successo nel mondo del cinema: i fratelli Vanzina, Enrico come sceneggiatore, Carlo come regista e produttore.

Nel 2008, vent’anni dopo la sua scomparsa, venne presentato alla Festa del Cinema di Roma il documentario a lui dedicato “Steno, genio gentile”.

È sepolto nel Cimitero Flaminio di Roma.

 

Foto di Lorenzo Bove

24
Mar

Europa: 60 anni dei Trattati di Roma del 25 marzo 1957

Domani, 25 marzo 2017, ricorre il 60° dei Trattati di Roma istitutivi della Cee e dell’Euratom, che diedero avvio ad una nuova Comunità tra Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Olanda e Lussemburgo; una prima piccola Comunità Europea che si è poi sviluppata fino a comprendere ben 28 Stati (ora 27 per via della c.d. Brexit comportante la fuoriuscita del Regno Unito).

E’ già storia e persone della mia età, che all’epoca di anni ne avevano 12, cominciano a rendersi conto di aver vissuto, seppure da spettatori inconsapevoli, l’alba dell’Europa.

Ricordi sfumati di un avvenimento importante che si stava celebrando a Roma, la giornata di vacanza a scuola (cum gaudio magno per noi ragazzi!), la cerimonia ripresa in eurovisione (e seguita soltanto da chi la tv ce l’aveva, a meno di vederla al bar o presso associazioni, amici e parenti).

A Roma, nella medesima sede del Campidoglio di allora, i 27 Capi di Stato e di Governo si sono dati dunque appuntamento per il 25 marzo 2017, al fine di sugellare e rilanciare (ci auguriamo) quei Patti di 60 anni orsono; una ricorrenza pervasa tuttavia da qualche corrente di euroscetticismo, fomentata da cittadini europei, sia dei sei Paesi fondatori che degli Stati dell’ex blocco socialista. E  la Gran Bretagna che avvierà l’iter per l’uscita dall’Eu il 29 marzo prossimo, soli quattro giorni dopo l’appuntamento di Roma. Una Roma superblindata, per l’occasione, per garantire la sicurezza dei partecipanti ed il corretto svolgimento dei lavori.

Per l’Italia, Altiero Spinelli viene soventemente citato come padre fondatore dell’Europa, per la sua influenza sull’integrazione europea post bellica.

Fondatore nel 1943 del Movimento Federalista Europeo, poi cofondatore dell’Unione dei Federalisti Europei, membro della Commissione europea dal 1970 al 1976, poi del Parlamento italiano (1976) e quindi del primo Parlamento europeo eletto a suffragio universale nel 1979. Fu promotore di un progetto di trattato istitutivo di una Unione Europea con marcate caratteristiche federali che venne adottato dal Parlamento europeo nel 1984. Questo progetto influenzò in maniera significativa il primo tentativo di profonda revisione dei trattati istitutivi della Cee e dell’Euratom, l’Atto unico europeo. Fu membro del parlamento europeo per dieci anni come indipendente e rimase uno degli attori politici principali sulla scena europea.

Nel giugno del 1941, durante il soggiorno forzato sull’isola di Ventotene, Spinelli, con la collaborazione di Ernesto Rossi e di Eugenio Colorni, scrisse il documento base del federalismo europeo: il Manifesto per un’Europa Libera e Unita, meglio conosciuto come Manifesto di Ventotene.

Spinelli fu liberato da Ventotene dopo l’arresto di Mussolini, ai primi di agosto del 1943. Di fronte a quella che era stata la catastrofe europea, a causa del nazi-fascismo, Spinelli aveva maturato la convinzione che solo un’organizzazione federale europea avrebbe potuto garantire, per il futuro, la pacifica convivenza dei suoi popoli.

Il 27 e il 28 agosto 1943, in casa di Mario Alberto Rollier in Via Poerio, a Milano, dove una lapide ricorda l’evento, si tenne il congresso di fondazione del Movimento Federalista Europeo.

Ma non dovremmo neanche dimenticare che l’idea d’Europa – nel dopoguerra – nasce (anche) con la dichiarazione Schuman, con la quale l’omonimo ministro degli Esteri francese il 9 maggio 1950 propose, in un celebre discorso a Parigi, il superamento del contrasto secolare tra Francia e Germania e l’avvio dell’integrazione economica e, in prospettiva, anche politica tra i vari Stati europei.

Orbene, lo scenario che si prospetta oggi in Europa vede l’approdo federalista, per il momento, ancora lontano con il rischio che possa allontanarsi sempre di più. Personalmente, penso che ciò sia dannoso in tutti i sensi per l’Italia e per tutti gli altri Stati membri.

Il nazionalismo esacerbato e la pretestuosa difesa ad oltranza della propria sovranità nazionale non va da nessuna parte; potrebbe al più comportare una ineluttabile marcia indietro verso il passato fatto di limitazioni, divieti, intrighi, lotte e guerre senza quartiere.

Vuoi mettere … la moneta unica (l’euro), il libero scambio delle merci, la libertà di movimento delle persone, lo scambio e l’integrazione culturale (Erasmus), ecc.

E non può (e non deve) la paura delle infiltrazioni terroristiche giustificare limitazioni di sorta in materia, ricostituendo le vecchie barriere ai confini degli Stati o addirittura erigendo novelli muri (di Berlino).

Bisogna, al contrario, andare avanti, combattendo naturalmente il terrorismo, ma senza chiuderci a riccio, verso un’Europa compiuta, un’Europa dei cittadini europei senza frontiere in tutti i sensi. E i nostri giovani che studiano e che lavorano all’estero e che si sposano tra di loro e che mettono al mondo bimbi europei, sono già più avanti di alcuni nostri politici (o presunti tali) che parlano di uscita del proprio Paese dall’euro, dall’Europa, ecc.

Il federalismo tra gli Stati membri, al quale a mio avviso bisogna puntare,  riesce  a contemperare l’esigenza di rappresentare nel mondo una Confederazione unitaria forte e sovrana, nel rispetto delle identità territoriali dei singoli Stati.

Una Carta Costituzionale Europea, un Presidente della Confederazione Europea ed un Parlamento Europeo eletti da tutti i cittadini europei, una Banca Centrale Europea, un Esercito Europeo, ecc.

Una precisa individuazione e demarcazione dei “poteri centrali” e dei “poteri territoriali”.

Un Organismo di controllo super partes (Corte Costituzionale Europea) per dirimere i conflitti.

Il  contestuale “alleggerimento” dei “poteri” degli  Stati membri (sia in termini di rappresentanza elettiva che di competenze  e quindi con contenimento dei costi della politica).

Non è mai troppo tardi … diceva il maestro Alberto Manzi (in televisione, nel corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta degli anni ’60).

Foto di repertorio (Internet)

Roma, Campidoglio

Trattati di Roma, 25 marzo 1957

6
Feb

LA POESIA VINCE IL TEMPO E RENDE IMMORTALI. ”Dal vernacolo a Shakespeare: tanti poeti tante poesie”.

Il Centro Studi Territoriale – Simposio Culturale di Poggio Imperiale, coordinato dalla  Prof.ssa Antonietta Zangardi, inizia il cammino del suo terzo anno di vita con una nuova Conferenza – Evento sulla tematica della poesia “che vince il tempo e rende immortali”, che si terrà a Poggio Imperiale il prossimo 16 febbraio.

Riporto, qui di seguito, l’articolo pubblicato dalla medesima Prof.ssa Antonietta Zangardi su www.gazzettaweb.net  il giorno 1/2/2017, con il quale vengono divulgati i dettagli della manifestazione culturale in parola che, a parer mio, riscuoterà senz’altro il successo che merita.

 « Riprendono, Giovedì 16 febbraio 2017, le Conferenze del Centro Studi Territoriale – Simposio Culturale di Poggio Imperiale; è il primo appuntamento del terzo anno di studi di questo centro che, se pur con fatica, caparbietà e molti sacrifici dei sui componenti e dei Coordinatori, ravviva culturalmente la popolazione di Poggio Imperiale.
La Conferenza – Evento si terrà presso la sala multifunzionale, ex palestra in via Oberdan a Poggio Imperiale, alle ore 18,30 .la Conferenza ha per titolo: LA POESIA, vince il tempo e rende immortali “dal vernacolo a Shakespeare, tanti poeti tante poesie”.

Il percorso di studio del CST, Simposio culturale, comprende tematiche accattivanti e interessanti.

Si partirà dalla Scuola Poetica Siciliana di Federico II di Svevia, per proseguire con poeti e poesie napoletane e romanesche, quindi giungere alle poesie scritte con i nostri dialetti locali, il vernacolo terranovese e quello lesinese.

Le poesie e i poeti esistono ancora e restano nel Tempo, grazie alle piccole Case Editrici come” Edizione del Poggio” con la collana “Emozioni” diretta da Giucar Marconi.
La scelta delle poesie estere è ricaduta su due Sonetti del grande W. Shakespeare, a quattrocento anni dalla sua morte, che ancora attualmente, trattano e incantano per il loro contenuto: la poesia che vince il tempo e rende immortali.

Per i poeti italiani sono stati scelti alcuni per il modo con cui trattano il tema della “sera” e per il concetto di “poesia eternatrice”.

Gli intermezzi musicali, con la voce di Stefania Cristino accompagnata da Primiano Schiavone, Gino Maselli, Primiano Schiavone, Dino Vitale, arricchiranno e faranno da cornice alla serata, magistralmente preparata dalla coordinatrice, Antonietta Zangardi.

Relatori della serata: Antonietta Zangardi, Rossella Gravina, Giuseppe Izzo, Titta Romano, Stefania Cristino, Nicla Simeone, Angela Chenet, Bove Luciana, Luigi Cuccitto, Luigini Vincenzo.

Direzione tecnica: Antonio Giacò, Peppino Tozzi, Nazario Mazzarella ».

Poesia Conferenza Evento 16 febb 2017

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