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I giorni della merla
Questi giorni di fine gennaio ed inizio febbraio, caratterizzati da un diffuso clima rigido (qui a Milano sta nevicando … ma negli Stati Uniti d’America le temperature sono scese anche a meno cinquanta gradi), sono solitamente definiti “i giorni della merla” poiché – secondo un’antica leggenda popolare – una merla e i suoi piccoli, in origine neri come i maschi della stessa specie, per ripararsi dal gran freddo di fine gennaio si rifugiarono dentro un comignolo dal quale emersero ai primi di febbraio tutti grigi a causa della fuliggine e da quel giorno tutti i merli femmina e i piccoli furono grigi.
Ma non è diminuita solo la temperatura.
L’Istat ha comunicato che nel quarto trimestre 2018 l’economia italiana ha registrato una contrazione dello 0,2%, e si tratta del secondo trimestre consecutivo di calo dopo il meno 0,1% del periodo luglio-settembre. L’Italia è entrata dunque in “recessione tecnica” dopo cinque anni di tendenziale crescita, seppure intorno agli “zero virgola”.
E, così, come in tutti i “pollai” che si rispettano, le nostre fazioni politiche hanno cominciato a beccarsi vicendevolmente, ognuna attribuendo le colpe e le responsabilità all’altra, e quindi, come sempre, per quelli che governano è colpa di quelli che li hanno preceduti e viceversa.
Ciò nonostante, il vizietto, che accomuna indistintamente e da tempo immemorabile tutte le fazioni politiche, di promettere agli ignari cittadini mari e monti nell’imminenza di competizioni elettorali, continua in maniera imperterrita a condizionare le scelte di governo soprattutto in materia economico finanziaria.
Niente di più sbagliato!
I programmi politici devono essere impostati su progetti di largo respiro e nell’interesse generale di tutti i cittadini, in una logica di universalità che deve travalicare i confini nazionali, con riguardo soprattutto all’Europa, la nostra casa comune.
Si diceva un tempo che non si potevano fare le nozze coi fichi secchi e il detto diventa ancora più attuale oggi quando si proclama di eliminare – per legge – la povertà attraverso sostegni sociali diffusi senza possederne tuttavia i mezzi sufficienti. E non solo, ma con un debito pubblico stratosferico.
Si dirà, ma la contrazione che si registra in questi ultimi mesi interessa anche altri stati europei e del mondo; è vero, ma in Italia siamo maggiormente a rischio, proprio perché abbiamo un sistema economico più fragile, dovuto soprattutto al debito pubblico elevato, in mano a creditori nazionali e esteri che detengono i titoli di stato, che maturano interessi, e che vengono continuamente rinnovati attraverso nuove emissioni. Con l’aggravante che ad ogni perturbazione interna o internazionale del mercato lo spread (differenziale rendimento azioni, obbligazioni, titoli di stato) si impenna e gli interessi passivi aumentano.
Va da sé che più stabile è l’equilibrio interno e maggiori sono le probabilità che gli investitori stranieri vengano attratti; in caso contrario la nazione viene isolata e si va verso una inesorabile debacle.
Foto di repertorio Internet
“Cambio giro”, il nuovo libro di Nazario D’Amato
La prossima domenica 30 dicembre 2018, alle ore 17,00 presso la Sala Polivalente Anziani di Corso Vittorio Veneto n. 50, a Poggio Imperiale (Foggia), Nazario D’Amato presenta il suo nuovo libro dal titolo “ Cambio Giro – Racconti di viaggio” (Edizioni del Poggio).
Ne parlano con l’autore la Dott.ssa Rossella Gravina e la Prof.ssa Antonietta Zangardi del Centro Studi Territoriale Simposio Culturale di Poggio Imperiale, con letture di Luigi Cristino del medesimo Centro Studi.
Interverrà il Dott. Giovanni Basile, Neurologo Ospedali Riuniti di Foggia
L’evento è patrocinato dal Comune di Poggio Imperiale, la Provincia di Reggio Emilia, l’Associazione Scrittori Reggiani di Reggio Emilia, l’Associazione Paese Mio di Poggio Imperiale.
Porgeranno i loro saluti il Sindaco di Poggio Imperiale Dott. Alfonso D’Aloiso e l’Editore Dott. Peppino Tozzi.
Tecnico agli impianti sonori Dino Vitale.
I proventi della vendita del libro saranno devoluti ad ARISLA Fondazione Italiana di Ricerca per la Sclerosi Laterale Amiotrofica a sostegno della ricerca sulla SLA
Dove eravamo rimasti!
Il 21 agosto 2016 Nazario D’Amato, eclettico autore di libri e poesie, ma anche di musica e canzoni, che peraltro interpreta egregiamente accompagnandosi con la sua chitarra, presentava al pubblico il suo libro (di cui mi onoro di aver scritto la presentazione e la quarta di copertina) “Terra, racconto in storie e versi, dell’appartenenza”, per i tipi delle Edizioni del Poggio: un inno di lode al suo amato paese natìo, attraverso rappresentazioni diverse che si snodano nel tempo e nello spazio, con le sfumature dei suoi sentimenti più profondi che ne impreziosiscono lo scenario, mettendo particolarmente in risalto il paradigma dell’appartenenza, che per Nazario rappresenta il leitmotiv ovvero il ritornello (visto che scrive anche canzoni) di quel suo lavoro.
Ora, a poco più di due anni di distanza, il nostro autore terranovese ritorna con la sua ultima fatica letteraria, un nuovo libro dal titolo“ Cambio Giro – Racconti di viaggio” (Edizioni del Poggio). Un titolo preso in prestito da un modo di dire del personale viaggiante delle ferrovie, ove “giro” sta per “turno di servizio” e “cambio” per “modifica del turno” per motivi di diversa natura.
Ma in verità, si tratta solamente di un pretesto, poiché il vero, effettivo e definitivo “cambio giro” di Nazario D’Amato è avvenuto un anno fa, all’atto del suo pensionamento da Capotreno di Trenitalia del Gruppo Ferrovie Italiane. Un cambio giro importante che gli ha cambiato completamente la vita e che lui ha voluto immortalare in questo libro, raccontandoci storie, incontri, situazioni, avvenimenti vissuti in prima persona nel suo lungo peregrinare, in servizio sui tanti treni, toccando stazioni ferroviarie e località, in lungo e largo per l’Italia e soprattutto incontrando tanta, tanta gente.
Ma non si tratta mai di racconti banali, ogni storia non è fine a se stessa, al contrario, l’osservazione dell’attimo in cui essa si consuma viene analizzata fin nei minimi dettagli e le considerazioni che ne conseguono mettono in risalto la profondità dell’animo dell’autore, che pone come fulcro della sua analisi l’universo dei valori umani, non solo riferiti all’etica ma anche al carattere e all’integrazione con gli altri, palesando così, ancora una volta e con malcelato orgoglio, il suo impegno sociale e cristiano, riprendendo altresì concetti a lui molto cari finalizzati alla tutela dell’ambiente (ed anche degli animali) e alla conseguente necessità di preservare la Natura dagli sconsiderati attacchi di qualunque genere dell’uomo, fra ricordi del passato che si intrecciano con episodi del presente, parlando di amicizia, solidarietà e misericordia.
A volte il racconto sembra svilupparsi tra il serio ed il faceto, ma solo apparentemente, proprio perché si tratta di storie normali, quelle di tutti i giorni, ma ecco l’acume di Nazario, il guizzo di sagacia, il barlume di perspicacia, il fiuto, l’intuizione … Cristo, Nostro Signore, lì tra gli ultimi, i diseredati, i perseguitati.
E il … Demonio … tra i finti buoni!
Complimenti Nazario per questo tuo ultimo lavoro, che ho letto (sebbene in pdf) tutto d’un fiato e che merita il dovuto successo, ed auguri per il tuo futuro da pensionato ricco di tante cose da fare, da continuare a fare o anche da iniziare a fare. Ad maiora!
Lorenzo
La cultura del cibo
Riporto, qui di seguito, la puntuale, approfondita e gradita recensione al mio ultimo libro, scritta ed inviatami dall’amica Antonietta Zangardi, scrittrice, studiosa e ricercatrice interessata particolarmente alla storia di Poggio Imperiale, nonchè animatrice del Centro Studi Territoriale Simposio Culturale di Poggio Imperiale, che coordina insieme al marito Antonio Giacò.
Tra i suoi scritti più noti: Poggio Imperiale Anno 1759 Nuovi documenti sulle origini e sulla fondazione; Federico II, Terzo Vento di Soave e la silloge Sottovoce, parole e versi in libertà.
Il 12 ottobre 2018 si è tenuta a Poggio Imperiale, presso la Sala Moltifunzionale di via Oberdan, la Festa del Simposio per la presentazione del libro Attività Conferenze Eventi (dal 29 gennaio 2015 al 24 maggio 2018).
Il 18 novembre scorso Antonietta mi informava, via Whatsapp, che … << Leggendo il tuo libro ho trovato anche la notizia del “capocanale” con la nota sull’avvocato Mario Fiore, scrittore e storico, nostro carissimo amico al quale l’altra sera , in occasione di un incontro del Comitato per la salvaguardia dei ruderi di Fiorentino, ho donato il tuo libro … >>
Ed io le ho risposto che … << E’ sempre un piacere … ricevere conferme sul fatto che “cultura” significa anche “divulgazione” a tutti i livelli, pure su argomenti che potrebbero a prima vista apparire futili e scontati. >>
Buona lettura!
La cultura del cibo
di Antonietta Zangardi
Ho letto l’ultima pubblicazione di Lorenzo Bove, “Il Cibo in Terra di Capitanata e nel Gargano tra storia, popolo e territorio. Tarranòve, pane, pemmedore e arija bbòne”.
Nel leggere un libro sono sempre mossa dalla curiosità e il titolo è una premessa importante per inserirmi in quell’atmosfera magica che mi procura la lettura. Sono sempre attenta, innanzitutto, al rispetto di chi scrive e cerca di comunicare al lettore le sue conoscenze, frutto di studi e ricerche. Quando leggo, poi, mi capita di estraniarmi dal contesto reale in cui vivo e opero, per rilassarmi e per andare alla ricerca delle stesse emozioni e degli stessi sentimenti che chi scrive vuole donarmi, senza perdermi nelle ricerche spocchiose di coloro che vogliono individuare, a tutti i costi, refusi ed errori, nel testo.
Dopo questa essenziale premessa, andiamo al libro che ho letto con vero piacere. Conosco personalmente l’autore e so che ci mette passione, determinazione e professionalità in tutte le attività che intraprende.
Mangiare è un vero rito, che unisce in modo conviviale e reca gioia e condivisione. Approvo e rifletto con piacere sulle parole che l’autore scrive: “I profumi e gli odori del cibo che ci hanno pervaso … sono indelebilmente stampati nel nostro cervello e basta solo percepire lievi sentori per associare eventi, fatti, situazioni di un tempo lontano, che fanno parte ormai di sopite reminiscenze …”
Gli abitanti del nostro Poggio Imperiale o Tarranòve, porta della Puglia e del Gargano, montagna del sole, provenivano da paesi diversi, per cui portavano con loro le usanze, i riti, i cibi, le credenze originarie, in un insieme eterogeneo. Così costruirono un’identità condivisa e una convivenza di valori essenziali. Sappiamo bene e per certo che le diversità sono delle risorse da valorizzare in ogni contesto storico, quindi il nostro Poggio, proprio perché molto eterogeneo doveva e dovrebbe conservare i valori di tutti e allontanare, per quanto possibile, i molteplici difetti.
Lasciando il Poggio per motivi di lavoro, anche l’autore ha portato con sé, nel suo bagaglio naturale e culturale, tutti quei profumi e quei riti che hanno segnato la sua fanciullezza e parte della sua giovinezza.
L’autore ribadisce che, attraverso gli odori e i sapori dei cibi, si ritrovano, riposti e nascosti nella memoria, storie e momenti di vita vissuta, ricordi di persone che non ci sono più, la cui presenza ha segnato la nostra esistenza e avvenimenti lontani ormai persi, che il tempo onnivoro divorerebbe e annullerebbe se non fossero afferrati e riportati alla luce. E questo è ciò che ha fatto Lorenzo nella sua pubblicazione.
Oltre a una certa acquolina, il libro mi ha comunicato sensazioni ed emozioni, voci e gesti che, mi hanno riportato sì, indietro nel tempo, ma hanno richiamato in me il presente che vivo giornalmente. Certe pietanze e certi cibi, infatti, io li preparo ancora, così come ho visto fare mia madre e come vedevo fare la mia nonna materna che, da buona contadina, prediligeva la genuinità dei cibi e la ricchezza di sapori. Penso alle “melanzane cu stuppele” alla “minestra di fave e cicoria”, ai “cicatelli con rape e lice”, ai “maccheroni con ricotta”, o “al forno pasticciati”, agli “spaghetti con fagiolini e patate”, alla teglia al forno con “agnello, patate, torcinelli e lampasciule”, “i ndorcele” con sugo di braciole e così via, tutti piatti “forti” della mia cucina e che, leggendo il libro di Lorenzo, ho ritrovato con immenso piacere.
Bella l’idea di fotografare i cibi e riportarli a colori nel libro, trascriverne i termini dialettali con la traduzione in italiano.
Dopo la carrellata dei cibi terranovesi, l’autore intraprende un “viaggio virtuale” sui cibi, i riti e le sagre paesane del vicino Gargano e dei monti Dauni; scandaglia, presenta e descrive pietanze, effettuando una sapiente analogia con i nostri cibi.
Conclude il suo oneroso lavoro, riportando gli articoli sul “cibo”, pubblicati negli anni scorsi nel suo blog.
Capisco benissimo che c’è un grande impegno in questa pubblicazione. So, per certo, che, dietro questa immane fatica, c’è la moglie di Lorenzo, Elvira, legata ai ricordi del suo Poggio, che è stata costretta a lasciare per ricostruire la propria vita col lavoro.
Anch’io ho voluto fissare in questo scritto i momenti conviviali con le pietanze più succulenti (saprìte) e, nello stesso tempo, rendere omaggio a due amici della mia adolescenza che, quando sono partiti e hanno lasciato il Poggio, mi sono tanto mancati e con i quali ho sempre mantenuto uno stretto legame.
“Alla prossima ricerca, Lorenzo e Elvira, in nome della nostra antica e duratura amicizia!” (Uso gli stessi termini che l’autore ha scritto sulla copia del libro in mio possesso).
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Il ricordo di un vecchio fornaio terranovese
E, così, anche Nicola, in questi giorni uggiosi di fine novembre ci ha lasciato.
L’ultimo fornaio terranovese verace, erede di una generazione di panificatori presenti a Poggio Imperiale da circa un secolo: Nicola Bonante, per tutti Necol’a Pastulle, per via del cognome della madre, Maria Bastulli, detta comunemente Mariapastulle, una donna d’altri tempi dal temperamento molto forte, la cui presenza nel panificio a volte quasi oscurava quella del marito Angelo (Ijangelille), di indole mite e piuttosto bonaria.
Ed anche Nicola, il loro ultimogenito, aveva preso molto dalla madre, con il suo carattere apparentemente scostante, forse anche a causa della particolare tipologia di attività svolta (intere e lunghe nottate trascorse a preparare pagnotte di pane pugliese), senza sosta, in tutte le stagioni, d’inverno e d’estate, concedendosi solamente qualche mattinata della domenica al mare, durante la stagione estiva, per dedicarsi al suo svago preferito: la raccolta delle cozze, che amava gustare (crude, al naturale, con una spruzzatina di limone) direttamente sul posto, sugli scogli delle Pietre Nere di Marina di Lesina, con del pane e qualche bicchiere di vino (rosso), portati appositamente da casa, dispensando il resto del pescato ad amici e conoscenti. Amava la buona compagnia, nutriva la passione per la caccia e non disdegnava l’amore per l’orticello e la campagna. Ma amava soprattutto Giovanna, sua moglie e compagna di una vita, alla quale ci stringiamo in questo momento di dolore.
Conoscevo Nicola da sempre, per via del fatto che il suo “Forno da Nicola” (e prima ancora quello dei suoi genitori), in via De Cicco, era ubicato quasi di fronte alla casa dei miei genitori, e le nostre rispettive famiglie hanno sempre mantenuto un cordiale rapporto di buon vicinato.
E con un velo di rimpianto devo ora prendere atto che, con la sua inaspettata dipartita, l’amico Nicola porta via con sé anche un frammento dei ricordi della mia vita trascorsa a Poggio Imperiale.
La scorsa estate, in una calda mattinata di luglio, nel corso della nostra consueta chiacchierata al mare, sugli scogli di Punta Pietre Nere, gli ho accennato che la sera del 4 agosto si sarebbe tenuta a Poggio Imperiale una manifestazione culturale pubblica per la presentazione del mio ultimo libro “Il cibo in terra di Capitanata e nel Gargano, tra storia, popolo e territorio – Tarranòve, pane e pemmedòre e arija bbòne” e che, per l’occasione, mi sarebbe piaciuta la sua presenza per un fattivo apporto di testimonianza, quale vecchio fornaio terranovese, facendo rivivere le usanze di un tempo, quando il Forno rappresentava un punto di riferimento nevralgico per la popolazione.
Nicola Bonante, secondo da destra, durante l’intervento di Alfonso Chiaromonte
E abbiamo così provato a ripercorrere insieme, sulla base dei reciproci ricordi, quella consuetudine dei Tarnuìse “de purtà u rote a u furne”, che consisteva nel portare per la cottura al forno del paese la teglia preparata a casa propria, analogamente a quanto si faceva già per il pane e per le pizze con il pomodoro o con la cipolla. Al forno si portavano i “rote” di patate con agnello e lampascioni; di patate e torcinelli, salsiccia e salsiccia di fegato; di melanzane al forno; ma si portavano anche i poccellati, poperati, taralli, tarallucci, biscotti e “panettèlle” di San Biagio. Per ogni teglia infornata si pagava “‘a ’mburnatura” (l’infornatura) e, per evitare disguidi, ognuno aggiungeva nel proprio “rote” un segno di riconoscimento, che comunque non sempre bastava per impedire scambi involontari, ma a volte anche provocati volutamente.
Qualche giorno dopo, superate le prime inevitabili titubanze, Nicola mi confermò la sua partecipazione alla presentazione del libro.
E, quella sera, nei giardinetti di via Attilio Lombardi, appositamente allestititi per l’occasione, Nicola ha intrattenuto il pubblico con il racconto di alcuni divertenti aneddoti tratti dalla propria esperienza di vita vissuta nel Forno, già ai tempi dei suoi genitori, facendo varcare con la mente, ai convenuti, i limiti del tempo, con un appassionato salto a ritroso nel passato del borgo di Poggio Imperiale.
I calorosi applausi e il livello di coinvolgimento dei terranovesi presenti hanno attestato il piacevole grado di apprezzamento delle sue interessanti testimonianze.
Grazie Nicola!
Ed è così, semplicemente così che ti vogliamo ricordare.
Foto di repertorio della serata
Centenario della Grande Guerra
Oggi, 4 novembre 2018, a cento anni dalla fine del primo conflitto mondiale, il Presidente della Repubblica Italiana si è recato all’Altare della Patria, a Redipuglia e poi a Trieste.
Il Presidente Sergio Mattarella è tornato a richiamare le ragioni dell’integrazione europea, parlando di rispetto dei diritti umani e delle minoranze: “Bisogna ribadire con forza tutti insieme che alla strada della guerra si preferisce coltivare amicizia e collaborazione, che hanno trovato la più alta espressione nella storica scelta di condividere il futuro nella Unione europea … Lo scoppio della guerra nel 1914 sancì in misura fallimentare l’incapacità delle classi dirigenti europee di allora di comporre aspirazioni e interessi in modo pacifico anziché cedere alle lusinghe di un nazionalismo aggressivo”.
Un richiamo alle ragioni dell’Europa, che ricorre frequentemente nei discorsi del Presidente, in questo periodo caratterizzato da forti spinte di nazionalismo e sovranismo.
Altro passaggio del discorso di Mattarella è stato dedicato ai diritti umani e alle minoranze: “La Costituzione Italiana, nata dalla Resistenza, ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie; privilegia la pace, la collaborazione internazionale, il rispetto dei diritti umani e delle minoranze”.
In mattinata il Presidente – prima di recarsi a Redipuglia e Trieste – aveva reso omaggio al Milite Ignoto all’Altare della Patria, a Roma, deponendo una corona d’alloro e aprendo la giornata di celebrazioni per la Festa delle Forze Armate che quest’anno coincide con il centenario dell’armistizio con gli austriaci che ha messo fine alla Grande Guerra.
L’estate del 1914 segnò l’inizio della prima guerra mondiale, il più grande conflitto mai visto, una carneficina che coinvolse quasi tutti i continenti, gran parte delle nazioni e dei loro abitanti, cambiandone per sempre il destino. Tante e tali sono state le novità, le implicazioni, le conseguenze di quel conflitto conclusosi nell’autunno 1918 che solo ad un secolo di distanza il mondo sembra uscire dai solchi che produsse.
Quando furono firmati gli armistizi tra i belligeranti, le vittime si contavano a milioni, mentre i sopravvissuti dovettero adattarsi ad un mondo nuovo e fortemente instabile. Crimini e orrori in vasta scala, armi nuove e micidiali, indifferenza per le spaventose perdite militari e civili hanno accomunato quasi tutti i numerosi fronti aperti.
L’italia entrò in guerra nel 1915, il 24 maggio: paese povero e impreparato, si trovò presto in trincea per difendere il proprio territorio.
La disfatta di Caporetto nell’ottobre 1917 fu il momento più difficile, ma la resistenza sulla linea del Piave consentì la riscossa fino alla resa degli austriaci a Vittorio Veneto il 4 novembre. L’entusiasmo per la vittoria durò poco, poichè molti erano stati i sacrifici imposti al Paese; un mondo era finito,e la nuova era si presentava assai fosca.
La prima guerra mondiale coinvolse le principali potenze mondiali e molte di quelle minori tra il luglio del 1914 e il novembre del 1918. Chiamata inizialmente dai contemporanei “guerra europea”, con il coinvolgimento successivo delle colonie dell’Impero Britannico e di altri paesi extraeuropei, tra cui gli Stati Uniti d’America e l’Impero Giapponese, prese il nome di Guerra Mondiale o anche Grande Guerra: fu infatti il più grande conflitto armato mai combattuto fino alla seconda guerra mondiale.
Il conflitto ebbe inizio il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell’Impero Austro-Ungarico al Regno di Serbia in seguito all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, avvenuto il 28 giugno 1914 a Sarajevo. A causa del gioco di alleanze formatesi negli ultimi decenni del XIX secolo, la guerra vide schierarsi le maggiori potenze mondiali, e rispettive colonie, in due blocchi contrapposti: da una parte gli Imperi centrali (Germania, Impero Austro-Ungarico e Impero Ottomano), dall’altra gli Alleati rappresentati principalmente da Francia, Regno Unito, Impero Russo e, dal 1915, dall’Italia.
Oltre 70 milioni di uomini furono mobilitati in tutto il mondo (60 milioni solo in Europa) di cui oltre 9 milioni caddero sui campi di battaglia; si dovettero registrare anche circa 7 milioni di vittime civili, non solo per i diretti effetti delle operazioni di guerra ma anche per le conseguenti carestie ed epidemie.
Foto di repertorio da Internet: le frecce tricolore sfrecciano sull’Altare della Patria
Festa Fogliante 2018
Si è tenuta a Firenze lo scorso sabato 27 ottobre l’annuale “Festa Fogliante” indetta dal giornale “Il Foglio” (fondato da Giuliano Ferrara) diretto da Claudio Cerasa.
La manifestazione si è svolta nel prestigioso Salone dei Cinquecento presso il “Palazzo Vecchio” in Piazza della Signoria, all’insegna dell’ottimismo, proprio come prometteva il tema della convention: “Giornata dell’Ottimismo”.
Nomi prestigiosi della politica italiana, dell’economia, della giustizia, del sindacato e del giornalismo si sono avvicendati sul palco, per esprimere le loro opinioni sul delicato e particolare momento che la nostra cara Italia sta attraversando, fra dibattiti ed interviste caratterizzati da un clima di diffusa, seppur prudente, fiducia verso il futuro.
Anch’io ho voluto partecipare, con mia moglie, all’evento, dal quale abbiamo potuto trarre alcune considerazioni.
I principi fondamentali che sorreggono l’impianto della nostra Democrazia Parlamentare sono abbastanza saldi e tali da poter sostenere l’onda d’urto del “populismo” e del “sovranismo” che hanno preso corpo anche nel nostro Paese, senza tuttavia trascurarne o sottovalutarne i rischi potenziali.
Sicuramente l’istigazione a forme più o meno latenti di razzismo, di divisione fra classi sociali e in generale di “caccia alle streghe”, non facilitano la ricomposizione di accettabili condizioni per un sereno dibattito nell’interesse generale dei cittadini, dell’Italia e dell’Europa.
L’occasione delle prossime elezioni europee della primavera 2019 potrebbe rappresentare davvero la chiave di volta per una scelta di indirizzo europeistico significativo, rispetto all’euroscetticismo dilagante.
C’è bisogno di un’Europa forte, unita e con un’economia salda per affrontare le sfide mondiali che diventano sempre più ardue.
Borsa al tracollo e spread alle stelle
Si sta consumando in queste ore di un tiepido giorno di fine settembre, l’annunciato “trionfo” della scorsa notte di una manovra economica (Def – Documento di economia e finanza 2019 – 2021), la cosiddetta “manovra del popolo”, sbandierata come strumento che eliminerà la povertà, le disuguaglianze, ma soprattutto elargirà il reddito e la pensione di cittadinanza, abbassando nel contempo le tasse (flat tax) e l’età pensionabile dei cittadini.
Oggi, venerdi 28 settembre 2018, la Borsa italiana è al tracollo e lo spread (indicatore della capacità di un paese di restituire i prestiti) alle stelle!
Una seduta del Consiglio dei ministri travagliata, con la minaccia di dimissioni del Ministro dell’Economia (fatte rientrare – a quanto pare – dall’intervento del Capo dello Stato), che cerca strenuamente di mantenere la barra dritta, a fronte di pretese assurde finalizzate esclusivamente a mantenere o procacciarsi ulteriori consensi elettorali.
Conclusioni: una manovra in deficit del 2,4% nel rapporto debito PIL (prodotto interno lordo).
Un “trionfo” annunciato in maniera inusuale e sguaiata da un gruppetto di politici, affacciati addirittura al balcone di Palazzo Chigi (sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri), ad un nugolo di simpatizzanti fatti affluire (a mezzanotte) nella piazza sottostante per osannare i vincitori con acclamazioni e bandiere.
Non si era mai vista una cosa del genere!
Ed oggi, le conseguenze facilmente prevedibili di un azzardo voluto e programmato fin nei minimi particolari, senza tener conto degli effetti e delle ripercussioni.
Si dirà ora che è opera dei “poteri forti” che manipolano i mercati e che non accettano di buon grado il cosiddetto “Governo del cambiamento”.
Ma, in verità, è già da qualche mese che a furia di proclami, annunci più o meno demagogici, perfino contro l’ordine costituito, la norme, i trattati, ecc., ci stiamo facendo male da soli: gli investitori scappano e il nostro debito pubblico aumenta sempre di più, restringendo di fatto gli scarni margini di manovra possibili. Questa è la verità.
Né è possibile, peraltro, giustificare ogni cosa “in nome del popolo”, fermandosi alla mera lettura della prima parte del secondo comma dell’articolo 1 della nostra Costituzione: “La sovranità appartiene al popolo”. Perché, subito dopo, c’è una virgola seguita del dispositivo, cioè dal modo in cui la sovranità si esercita: “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. E la nostra Costituzione è abbastanza chiara e precisa al riguardo.
Foto repertorio Borsa internet
Il quinto quarto
In matematica, la “frazione” è il rapporto fra due grandezze omogenee e commensurabili, di cui la prima (numeratore ) indica quante volte si debba prendere dell’intero una parte pari alla seconda (denominatore): per es. 7/10 (sette decimi), in cui 7 è il numeratore, 10 il denominatore.
Parlare, quindi, di 5/4 (cinque quarti) è una vera e propria eresia!
Ma, a quanto pare, così non è, poiché, al di fuori della matematica (pura), qualcuno ha fatto il miracolo di concepire anche il “quinto quarto”.
Vuoi per necessità, legata innanzitutto a ragioni di sopravvivenza (la fame), vuoi per l’ingegnosità che ha contraddistinto sempre l’essere umano, sin dalla sua prima apparizione sulla faccia della Terra, sta di fatto che il concetto matematico di frazione è stato messo in discussione, per lo meno nell’ambito della culinaria, definendo così “quinto quarto” tutto ciò che dell’animale macellato non fa parte dei quattro tagli “nobili” (i due anteriori e i due posteriori), ossia frattaglie e interiora e ogni altra sua parte secondaria; in un certo senso è il quarto nascosto perché è costituito in gran parte dagli organi interni.
Ecco un elenco (non esaustivo) delle parti che lo costituiscono:
Trippa, rognoni, cuore, polmoni, fegato, milza, animelle, intestino tenue, testicoli, mammelle, cervello,lingua, coda, zampe.
Un tempo questi tagli erano destinati esclusivamente ai meno abbienti, perché considerati elementi di scarto e quindi non degni di imbandire le tavole della nobiltà e dei ceti più agiati.
La fame non consentiva di andare molto per il sottile e, quindi, qualsiasi cosa, purchè fosse commestibile, andava bene per riempire lo stomaco.
E, questo, fin tanto che la cosiddetta cucina povera non ha rotto gli ormeggi ai quali è stata per secoli ancorata, conquistando i palati degli estimatori, dallo street food (cosiddetto cibo di strada) ai ristoranti più blasonati che hanno ripreso a raccontarla e a proporla. Si parla oggi di “dieta mediterranea”, quale modello di alimentazione tradizionale e genuina da seguire per migliorare le condizioni di salute dell’umanità.
Assistiamo oggigiorno ad una inversione di tendenze gastronomiche e molti cibi, un tempo popolari, sono tornati alla ribalta, con il recupero dei piatti della tradizione contadina, che stanno riconquistando una nuova attrattiva e nuovi percorsi, senza più distinzione di classe sociale.
Ma torniamo al nostro “quinto quarto”, un esempio significativo che dimostra l’evoluzione di un cibo, prima trascurato dai palati raffinati e che ora ha cambiato il suo status quo, trasformandosi in boccone prelibato.
Anche dalle mie parti, nell’Alto Tavoliere delle Puglie, a Poggio Imperiale (Tarranòve in vernacolo), vengono riesumati, ogni tanto, alcuni piatti della cucina povera di un tempo, alcuni dei quali ricavati con i tagli del “quinto quarto”.
Ho avuto l’opportunità di riassaggiarne alcuni, nel corso dell’estate di quest’anno trascorsa in paese, preparati in casa da mia sorella Gina.
U turcenelle d’u ijallucce
Per ferragosto è usanza preparare il galletto ripieno al sugo con le orecchiette fatte a mano. Il ripieno è fatto a base di uova (mia sorella ne ha messe 20), interiora e formaggio.
Ma la specialità vera è costituita dal torcinello preparato con le zampe del galletto precedentemente ben pulite e sbollentate, fegato e durone (u frecille), prezzemolo, aglio, formaggio e peperoncino; il tutto attorcigliato con le budelline ben pulite e lavate. Il torcinello viene cucinato al sugo insieme al galletto.
A treppozze d’a ‘gnelle
La trippa di agnellino da latte viene pulita, lavata e sbollentata preventivamente; si preparano quindi dei piccoli involtini (brascijulette), farciti con aglio prezzemolo, formaggio e peperoncino, mentre con gli altri pezzi di trippa si formano dei nodini (i nnudechille). Vengono aggiunti poi nella cottura tocchetti di patate, sedano (accije e patane) e pomodorini.
Brascijulette de coteche
Le cotenne di maiale ben pulite e sbollentate vengono tagliate a pezzi di forma quadrata; farcite poi con aglio, prezzemolo, formaggio e peperoncino e avvolte con il filo per formarne degli involtini (brascijulette). Cucinate al sugo, accompagnano un bel piatto di orecchiette, cicatelli, ‘ndorcele (troccoli) o pasta alla chitarra.
Ma tutto il nostro territorio italiano è costellato di piatti in cui il “quinto quarto” la fa da padrone. Tra i più tipici:
La trippa
La regina delle frattaglie è senza dubbio la trippa, piatto tipico italiano che si realizza con le diverse parti dello stomaco del bovino. Parliamo di una ricetta così radicata nella nostra cultura gastronomica che ne esistono molte versioni. Dalla trippa alla milanese – che il vero milanese chiama Busecca – a quella alla romana, dalla genovese alla fiorentina, dalla veneta alla piemontese e chi più ne ha più ne metta. C’è chi la prepara al sugo e chi in umido, chi la vuole più brodosa e chi più asciutta.
La finanziera e il fritto piemontese
La finanziera ha le sue radici in Piemonte e la prima versione del piatto risale a tale Maestro Martino. La variante che si è consolidata nel tempo è un vero e proprio tripudio di frattaglie e per realizzarla vengono usati più tagli di carne di diversi animali. Il vitello domina, presente sotto forma di animelle e di filoni (schienale); il resto è costituito da manzo, creste, barbigli, fegatini e ovette di pollo. Sebbene piatto della cucina contadina, la ricetta deve il suo nome alla popolarità del piatto tra la gente di borsa e di banca che lo prediligeva in quanto veloce e nutriente.
Il fritto misto piemontese si prepara invece con le animelle, i rognoni, i filoni, il cervello, il fegato e i testicoli del vitello, oltre ad avanzi di macellazione di maiale e agnello.
Il lampredotto
I chioschetti dei lampredottai sono tra le principali attrazioni di Firenze. Il capoluogo toscano non sarebbe lo stesso senza il panino al lampredotto, la cui identità è strettamente vincolata a questa città. Da piatto povero regionale, ricavato da uno dei quattro stomaci dei bovini, l’abomaso, il lampredotto è ormai un’istituzione nazionale. Al naturale con salsa verde, con fagioli all’uccelletto e salsiccia, alla cacciatora con olive nere denocciolate: sono molti i condimenti a cui si presta il panino con il lampredotto.
Il fegato alla veneziana
A Venezia, il celebre fegato alla veneziana, ricetta tipica dell’intera regione, in cui il sapore deciso del fegato si accompagna a quello delle cipolle. In origine, al tempo dei romani, al posto della cipolla venivano utilizzati i fichi.
La pajata e la coda alla vaccinara
A Roma la regina delle frattaglie è la pajata, il cui nome indica la prima parte dell’intestino tenue del vitello da latte che, pulito ed eviscerato ma non privato del latte bevuto dal piccolo bovino, è l’ingrediente protagonista di piatti cult della tradizione capitolina, come i rigatoni. Dopo anni di ostracismo legato all’annoso problema della mucca pazza, la pajata è tornata alla ribalta.
Sempre restando a Roma, un altro grande classico realizzato con il “quinto quarto” è la coda alla vaccinara: come suggerisce il nome, in questo caso delle frattaglie si prende ovviamente la coda del bovino.
‘O pere e ‘o musso
Una specialità della Campania, che tradotto significa il piede e il muso: la ricetta prevede infatti l’uso del piede di maiale e del muso di vitello.
Il morzeddhu
Altro inno al “quinto quarto” lo troviamo in Calabria. Stiamo parlando del morzeddhu un panino (si usa quasi sempre la pitta), farcito con un soffritto di frattaglie (milza, esofago, polmone ecc.) e parti meno pregiate della trippa di vitello, cotte nel pomodoro con alloro, origano e una quantità davvero notevole di peperoncino piccante. Le varianti del morzeddhu sono tante, ma per gustarlo nella sua versione più autentica occorre fare tappa a Catanzaro, la città che ha dato i natali a questa chicca dello street food nazionale.
Il pani ca’ meusa e le stigghiole
E, sempre rimanendo in tema di street food, cosa dire del pani ca’ meusa? E’ Palermo la patria dei meusari: venditori ambulanti della vastedda (pagnotta al sesamo) imbottita con pezzetti di milza e polmone di vitello, tagliati, bolliti e cotti a lungo nella sugna. Nei banchetti ambulanti della Sicilia sono d’obbligo anche le stigghiole, involtini di interiora di agnello (o di vitello) con prezzemolo, cucinati sulla brace.
Il crollo del cavalcavia Morandi di Genova
Genova piange i suoi morti, genovesi, ma anche tutte le altre persone, bambini, donne, uomini, giovani, anziani, turisti e lavoratori, che alle ore 11,50 di martedi scorso, 14 agosto 2018, si sono trovati a transitare a bordo di automezzi sul cavalcavia Morandi di Genova, o che, trovandosi nelle sue immediate vicinanze, sono stati travolti dal crollo improvviso dell’imponente manufatto, che si ergeva e svettava al di sopra dei fabbricati cittadini, ad un’altezza di novanta metri.
Un caso, una fatalità, l’imperizia o la leggerezza dell’uomo; saranno le inchieste in corso a fare piena luce sul tragico evento che ha scosso non solo gli animi dei genovesi, ma l’Italia intera, con una vasta eco che ha travalicato i confini nazionali.
Trentotto i morti accertati, al momento, e tanti feriti, alcuni dei quali in gravi condizioni, ricoverati presso gli ospedali cittadini [Ved. nota 1].
Continuano ancora le ricerche dei dispersi tra le macerie di cemento collassate, in parte, anche sul letto del sottostante Torrente Polcevera, con immane sforzo da parte della Protezione Civile, Vigili del Fuoco, Forze dell’Ordine, Militari e Volontari.
“Una tragedia annunciata”, scrivono alcuni giornali, mentre altri si affrettano con i loro giudizi sommari nel dispensare “sentenze” a carico di politici, tecnici, imprenditori, che non avrebbero correttamente svolto il loro compito di progettazione, manutenzione, affidamento degli appalti e quant’altro.
La solita dietrologia di basso cabotaggio, che andrebbe quanto meno evitata in certi momenti, per cedere piuttosto il posto al sentimento della pietà per le povere e inconsapevoli vittime.
Speculazione e sciacallaggio che sottendono il solo ed esclusivo interesse, da parte di alcuni gruppi di pressione, a procacciarsi rendite elettorali, attraverso lo strumentale spostamento di opinioni verso concezioni di natura populistica e anche sovranista, che oltre a far male al popolo italiano, generano seri problemi all’interno della Comunità Europea, con gravi ripercussioni sul Mercato e conseguentemente sul Debito Pubblico.
Ho personalmente avuto delle frequentazioni di natura professionale con Genova e la Liguria, dal 1999 al 2008, imparando via via a conoscere da vicino la sua gente e scoprendo persone affabili, alacremente impegnate nei vari settori operativi e intimamente legate alla loro terra. Le case dei genovesi e dei liguri in genere sono vistosamente colorate, perché ognuno di essi deve poter individuare e distinguere la propria dimora, il centro dei propri affetti familiari, anche da lontano … soprattutto dal mare.
Un territorio particolare, quello della Liguria, che ha richiesto nel tempo interventi di esclusiva creatività ed ingegno e che, non di rado, è stato colpito da situazioni climatiche avverse di notevole portata, dalle quali il suo popolo è sempre riuscito a risollevarsi.
Coraggio, sono certo che supererete senz’altro anche questa ennesima circostanza!
Foto di repertorio da Internet
Nota 1: I morti successivamente accertati furono 43 in totale.
Presentazione del nuovo libro di Lorenzo Bove: intervento dell’autore
Si è tenuta a Poggio Imperiale, sabato 4 agosto 2018, nell’insolito scenario dei giardinetti pubblici della locale via Attilio Lombardi, allestiti opportunamente per l’occasione, la presentazione del nuovo libro di Lorenzo Bove dal titolo “IL CIBO in terra di Capitanata e nel Gargano tra storia, popolo e territorio – Tarranòve, pane e pemmedòre e arija bbòne”, Edizioni del Poggio, 2018.
Una serata all’insegna della cultura, condotta dalla brava e bella Federica Palmieri, giornalista professionista, e resa interessante dagli interventi del giornalista, poeta e scrittore Giucar Marcone e dello scrittore di storie patrie Alfonso Chiaromonte, tra musiche e canti della tradizione popolare, con Dino Vitale alla consolle.
Le interessanti testimonianze di un vecchio fornaio terranovese, Nicola Bonante, hanno poi fatto varcare con la mente, ai convenuti, i limiti del tempo, con un salto a ritroso nel passato del borgo di Poggio Imperiale.
E la Compagnia Teatrale Terranovese, infine, con la sua consueta bravura, si è esibita in una farsa dialettale, dal titolo “Dind’a ‘na cas’a tarnuèse”, scritta dal medesimo autore del libro, riscuotendo scroscianti applausi da parte del pubblico presente, intervenuto numeroso all’evento.
La serata si è conclusa con la degustazione di pane e pomodoro terranovese e vino locale, offerti dall’autore, a cura dell’Associazione Poggio Circuito Creativo, dopo i saluti del sindaco di Poggio Imperiale Alfonso D’Aloiso, dell’Assessore alla cultura Alessandro Buzzerio, dell’Editore Peppino Tozzi e l’intervento dell’autore, che viene riportato qui di seguito:
« Il libro che stiamo qui presentando parla di cibo, ma non è un libro di cucina né tantomeno un ricettario. E’ un libro che si insinua delicatamente nella storia, nella geografia, nella filosofia e nella psicologia … un libro che esplora l’indissolubile relazione che lega il cibo, l’individuo e il territorio e cerca di dimostrarne, per quanto possibile, il fondamento.
E il cibo in terra di Capitanata e nel Gargano, l’antica Daunia, con uno sguardo prospettico alla storia, al territorio e al popolo, narrato in occasione dell’ “Anno del Cibo Italiano”, il 2018, vuole essere un atto di amore per la mia terra, prendendo le mosse da Poggio Imperiale (Tarranòve in vernacolo), il paesello dell’Alto Tavoliere che mi ha dato i natali settantatre anni orsono e con il quale ho mantenuto stretti legami, pur avendolo lasciato per attuare i miei progetti professionali e di vita, alla volta del Nord Italia.
Perché sono convinto che anche il cibo rappresenti un elemento di correlazione tra individuo e territorio, generando quei profumi e sapori con il potere e la magia di riportarti indietro nel tempo e nello spazio, legandoti senza margini di errore a un luogo e che parla della tua parte interiore e ti ricorda, quando ne hai bisogno, da dove vieni. E, a volte, basta solo percepirne lievi sentori per associare eventi, fatti, situazioni di un tempo lontano, che fa parte ormai delle tue sopite reminiscenze.
Ecco, questa è la tesi fondante del mio libro: le narrazioni (I feste recurdive: Natale, Capedanne, Pasque, U quinece d’auste, A feste du paese; U recunzele, U capecanale, A staggione quanne ce meteve, U porce appise, I commenelle, U trappide, I spusalizije, battezze e parendate), e i piatti tradizionali (i recchijetelle ku ijallucce arrechijene, i turcenelle arrestute, u panecotte, i ‘ndorcele, i cecatelle, fedech’e pelemone, i mulagnam’a rrechijene o spaccate a u furne, u panone, u cavedelle e u scijeccattamuglijere, i nevele, i cavezune, i puccellate e tand’aveti belle cose), descritti nel libro, rappresentano il mezzo, il tramite, il vettore, la via, il canale che ci aiutano ad entrare – in punta di piedi – in questo magico e affascinante mistero, celato gelosamente nello scrigno del paradigma “cibo-individuo-territorio”.
Per il cibo e l’agroalimentare italiani, il 2018 rappresenta un anno particolarmente importante: dodici mesi per sostenere la validità e la competitività delle nostre risorse, che ci consentono di tenere alto il buon nome dell’Italia nel mondo e che costituiscono motivo di orgoglio nazionale. Tante le manifestazioni, iniziative, momenti legati alla cultura e alla tradizione enogastronomica italiana.
E il 4 agosto (oggi, per intenderci) una notte bianca dedicata al cibo italiano, voluta dal passato Governo Gentiloni (Ministri: Martina dell’Agricoltura e Franceschini del Turismo), che rappresenta un’iniziativa finalizzata a sensibilizzare le piazze e le attività pubbliche e private, per dimostrare che il cibo italiano è un’esperienza di tradizione, di continuità e di sviluppo, e viene dedicata a Pellegrino Artusi, storico scrittore, gastronomo e critico letterario italiano nato proprio il 4 agosto del 1820 a Forlimpopoli in provincia di Forlì Cesena. Una buona occasione per riscoprire e valorizzare i cibi della nostra tradizione.
Ma, al di là dell’evento formale e del suo livello di riferimento su scala mondiale, ritengo – personalmente – che l’anno del cibo italiano debba stimolare un po’, ciascuno di noi, a venir fuori dagli stereotipi della culinaria modaiola e globalizzante, che ha purtroppo invaso anche le nostre tavole, riscoprendo invece i sapori e gli odori della nostra buona e sana cucina tradizionale, sebbene con qualche tocco di quella inevitabile rivisitazione che gli attuali stili di vita, per alcuni versi, ci impongono.
E, questo, anche nel nostro piccolo, senza bisogno di eclatanti manifestazioni di massa, il più delle volte ispirate da esigenze di autoreferenzialità, piuttosto che da logiche di buon senso, riportando sulle nostre tavole cibo sano e genuino italiano e soprattutto locale.
Un vecchio detto paesano di Tarranòve, recitava: “Tarranòve, pane e pemmedòre e arija bbòne”.
Un invito a prendere le cose per il giusto verso e senza eccessivo affanno. E, in effetti, l’antico detto voleva proprio invitare alla distensione e alla serenità che solo un piccolo borgo sviluppatosi alla sommità di una collinetta (poggio) immersa in una vegetazione lussureggiante poteva offrire.
Una collinetta dalla quale si riesce, da una parte, a scrutare il mare con le isole Tremiti in lontananza e il promontorio del Gargano, del quale si vanta di costituire la porta naturale e, dall’altra, il subappennino Dauno fino alle montagne del vicino Molise.
Aria buona e cibi semplici e genuini rappresentati da una fetta di pane pugliese, frutto del grano coltivato in queste floride campagne, accompagnata dai rossi e squisiti pomodori locali conditi con un olio extravergine di oliva paesano la cui fragranza non ha eguali.
Ed è in questa ottica che è sorta in me l’idea di raccogliere, in un libro, episodi, storie, racconti, avvenimenti, ove il tema di fondo è rappresentato prevalentemente dal cibo della tradizione della terra di Capitanata e del Gargano, alla scoperta di remote usanze, riti arcaici e piatti della cucina tradizionale, alcuni dei quali ancora oggi particolarmente apprezzati, seppure – come si diceva prima – con qualche lieve intervento di rivisitazione, ma senza tuttavia snaturane la sostanza.
L’ esplorazione delle tradizioni legate al cibo della nostra terra, di cui questo libro si prefigge di parlare, prende quindi le mosse dal piccolo borgo di Tarranòve, per la semplice ragione che qui sono nato, parlo il suo dialetto e conosco più da vicino usi, costumi, storia e tradizioni locali, anche sulla base di preziose informazioni raccolte negli anni dalla viva voce di persone del paese e della zona, alcune delle quali ora non ci sono più.
Il nostro cibo, sebbene con qualche variante che ne contraddistingue la specifica provenienza, dovuta a una serie di fattori di natura ambientale, sociale e storica, può, ragionevolmente, essere considerato patrimonio diffuso non solo nel territorio della Capitanata e del Gargano, che rappresenta in questo contesto il nostro perimetro di osservazione, ma anche in buona parte della Regione Puglia e forse un po’ anche della Basilicata, senza escludere con questo che, in certune parti del territorio, sia possibile ritrovare cibi o piatti esclusivi, legati a tradizioni e gusti particolari, che ne caratterizzano l’originalità. Andremo quindi a scoprire anche queste peculiarità soprattutto in alcune zone del Gargano, ma pure in alcuni borghi del subappenino Dauno, attraverso un viaggio virtuale che ci consentirà di scoprire da vicino il cibo e i piatti del passato con le possibili connessioni col presente.
Un modo intrigante di curiosare in casa nostra innanzitutto, ma un po’ anche in quelle degli altri, per cercare di scoprire cosa e come mangiavano i nostri nonni, provando magari anche ad andare un po’ più in là nel tempo e nello spazio.
L’intento è quello di offrire al lettore curiosi e interessanti spunti per fare un piacevole salto a ritroso nel passato, che si perde ormai nella notte dei tempi, ma che, paradossalmente, come d’incanto appare così vicino per via di quei delicati messaggi di amore, pace, serenità che riesce ancora a trasmetterci, oggi più che mai, in una “società liquida, dove i confini e i riferimenti sociali si perdono e i poteri si allontanano dal controllo delle persone. Occorre un forte investimento di umanità e di passione etica”, con particolare riguardo verso le nuove generazioni, facendo leva sulle nostre tradizioni consolidate e forse anche un po’ sulle nostre origini giudaico-cristiane.
E’ la forza delle nostre radici che ci consente di dialogare con il resto del mondo. E anche il cibo può fare la sua parte.
A mio modesto parere, il cibo è un solenne atto di amore.
Questo vale indiscutibilmente sia per chi lo offre e sia per chi lo riceve; ma anche per chi lo prepara, per chi lo produce e così via … all’infinito!
In questo mio ultimo libro ho inteso richiamare l’attenzione del lettore anche sul concetto di potenzialità del nostro territorio in materia di prodotti agroalimentari e di capacità di elaborazione del cibo da parte dei suoi abitanti, sin dai tempi lontani.
Quel cibo che genera un potere magico di identificazione con se stessi, la famiglia, il territorio e che ti porti dietro per tutta la vita.
I profumi e gli odori del cibo che ci hanno pervasi nel periodo della nostra infanzia, penetrando nelle narici e stimolando straordinari (e a volte anche inappagati) appetiti, sono indelebilmente stampati nel nostro cervello.
“Quando più niente sussiste d’un passato antico (…) – scriveva Marcel Proust ne À la recherche du temps perdu (Alla ricerca del tempo perduto) – l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano (…) sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo”.
Il passo riportato si riferisce al più famoso episodio di questo lungo romanzo del grande scrittore, ove il protagonista, dopo aver imbevuto nel tè la “madeleine”, una tortina che soleva mangiare da piccolo la domenica mattina, riesce a riappropriarsi di tutto il mondo della sua infanzia, di tutto il tempo vissuto a Combray quand’era bambino.
E, quindi, se così è, cosa succede a un vecchio tarnuèse quando invece della “madeleine” riassapora “ doije belle felle de pane e pemmedòre” ? ».