Author Archives: Lorenzo
Barocco Siciliano (prima parte)
Un viaggio in Sicilia per ammirare il “Barocco Siciliano” è a dir poco entusiasmante, se si ama scoprire le bellezze del passato e apprezzare nel contempo opere d’arte caratterizzate da decorativismo (predominanza di motivi decorativi), senso scenografico e cromatico.
Siamo atterrati all’aeroporto di Catania Fontanarossa e abbiamo fissato il nostro punto di riferimento nel centro storico di Catania; luogo strategico dal quale poterci poi spostare in auto presa a noleggio nelle varie località di nostro interesse.
Naturalmente il primo giorno lo abbiamo dedicato alla visita di Catania, rigorosamente a piedi.
Il centro storico di Catania si presta per sua natura ad un bel giro, sia diurno che notturno, per le belle strade lastricate di pietra lavica, in un’area non troppo estesa, ricca di monumenti ed attrazioni turistiche.
Dopo un primo approccio tipico catanese con granita e brioche col tuppo, in una delle belle pasticcerie del centro, partiamo da piazza del Duomo, nella cui parte centrale troneggia il simbolo della città, l’elefante che i catanesi chiamano “liotru”, che fa bella mostra di sé proprio di fronte alla Cattedrale e al Palazzo del Comune.
La Cattedrale, realizzata sulle rovine delle Terme Achilliane di epoca romana, più volte distrutta e riedificata dopo i terremoti e le eruzioni vulcaniche che si sono susseguiti nel tempo è dedicata a Sant’Agata, martire e patrona di Catania. Sorge sul lato est di Piazza Duomo ed è uno dei luoghi di culto più frequentati dai visitatori e dai catanesi, devoti alla Santa. Il prospetto principale è in stile barocco siciliano con un imponente facciata marmorea e due ordini di colonne di granito prelevate dall’anfiteatro romano di Catania. Il sontuoso interno contiene la Cappella di Sant’Agata, collocata nell’abside destra, che custodisce il ricettacolo con il busto in argento e le reliquie della santa, mentre, di fronte al primo altare si trova il monumento funebre del musicista Vincenzo Bellini. Altri monumenti funebri ricordano i vescovi Orlando, Dusmet e Galletti. Dal transetto destro si accede, invece, alla Cappella della Vergine dell’Incoronazione, con la tomba di Costanza d’Aragona e dei reali aragonesi che risiedettero a Catania. Nell’abside centrale si ammira, invece, il prezioso altare maggiore in stile normanno, circondato da uno stupendo coro ligneo di trentaquattro stalli, opera cinquecentesca di Scipione di Guido. Numerosi sono inoltre gli affreschi e le tele, tra cui la raffigurazione della disastrosa colata lavica del 1669.
Da qui, procediamo lungo la Via Vittorio Emanuele, con una sosta alla bellissima Chiesa della Badia di S.Agata del Vaccarini e, poi, davanti la sede dell’Arcivescovado, fino all’imbocco di Via Landolina che porta alla Piazza Teatro Massimo; il Teatro, opera degli architetti Scala e Sada è dedicato al più importante esponente della musica lirica catanese Vincenzo Bellini: fu inaugurato nel 1890 con la rappresentazione della “Norma” del medesimo Bellini.
Un salto alla Basilica della Collegiata, progettata da Stefano Ittar nel 1768, e quindi attraversiamo l’incrocio con Via Etnea (la Via più importante di Catania, ove si trovano le vetrine dei negozi alla moda), detto “Quattro Canti” e saliamo fino all’incrocio di Via Crociferi. Questa salita diventa palcoscenico di uno dei momenti più vibranti dei festeggiamenti di Sant’Agata quando il fercolo preceduto dalle “Candelore” (cerei votivi) percorre a gran velocità questo tratto della salita.
All’incrocio con Via Crociferi, alla destra in fondo alla via, è ubicata Villa Cerami, che è sede della Facoltà di Giurisprudenza.
Via Crociferi, realizzata nel XVIII secolo, è una delle strade più belle del barocco siciliano, e nel breve spazio di circa 200 metri sono presenti ben quattro chiese.
La Chiesa di San Giuliano, considerata uno degli esempi più belli del barocco catanese, è attribuita all’architetto Giovambattista Vaccarini, con un prospetto convesso e delle linee pulite ed eleganti.
A seguire incontriamo il Collegio dei Gesuiti, vecchia sede dell’Istituto d’Arte, con all’interno un bel chiostro con portici su colonne ed arcate.
Proseguendo raggiungiamo la Chiesa di San Francesco Borgia alla quale si accede tramite due scaloni. Le due chiese sono separate da una piccola via che conduce al Palazzo Asmundo Francica-Nava, su Piazza Asmundo. Poi la Chiesa di San Benedetto, collegata al convento delle suore benedettine dall’arco omonimo che collega la Badia grande alla Badia piccola. Ad essa si accede a mezzo di una scalinata ed è contornata da una cancellata in ferro battuto.
Ci rechiamo successivamente al Teatro Romano per accedere alla visita archeologica del sito. I resti del grandioso Teatro Romano, costruito su vestigia greche, sono conservati abbastanza bene, tant’è che l’area è sede di spettacoli artistici. Attualmente è quasi interamente visitabile, ad eccezione delle parti in via di restauro, e la visita sbalordisce di sicuro il visitatore.
Proseguendo arriviamo a Piazza Dante per ammirare il Convento dei Benedettini, eccezionale costruzione, perfettamente conservata, sede di alcune Facoltà Universitarie. In Via Sant’Anna, al civico n° 18, si trova la residenza catanese di Giovanni Verga, il più noto scrittore catanese.
Una piccola deviazione ci consente di ammirare il Castello Ursino. Voluto da Federico II di Svevia sorse, fra il 1239 ed il 1250, all’interno di un più complesso sistema difensivo costiero della Sicilia orientale (sono riconducibili allo stesso progetto il castello Maniace di Siracusa e quello di Augusta) e come simbolo dell’autorità e del potere imperiale svevo in una città spesso ostile e ribelle a Federico. Il progetto e la direzione dei lavori furono affidati all’architetto militare Riccardo da Lentini che lo realizzò su quello che allora era un imprendibile promontorio di roccia sul mare, collegata con un istmo alla città e alle mura cittadine. I terremoti e le colate laviche delle eruzioni dell’Etna finirono per inglobarlo completamente al resto della città, allontanandolo di fatto dal mare e vanificandone dunque le finalità strategiche.
Nelle vicinanze, si trova il Monastero di Santa Chiara con il suo Chiostro, oggi adibito ad uffici comunali; datato 1760, è stato progettato da Giuseppe Palazzolo ed il portale realizzato da Francesco Battaglia. Lo scrittore Giovanni Verga ambientò in questo monastero nel 1869 il famoso romanzo “Storia di una capinera”, trasformato poi in un film di grande successo, nel 1993, dal regista Franco Zeffirelli.
Rientriamo sulla Via Garibaldi e, attraversando Piazza Mazzini – scenograficamente molto interessante, con i suoi quattro blocchi di portici, posti ad ognuno dei (quattro) cantoni della piazza – ritorniamo al punto di partenza e cioè in Piazza Duomo, scoprendo a destra la Fontana dell’Amenano (l’Amenano è il fiume sotterraneo di Catania, un tempo scoperto e successivamente coperto dal magma dell’Etna), proprio di fronte alla Cattedrale. La Fontana rappresenta un’opera di notevole spessore e l’acqua che scende sembra un velo, tant’è che i catanesi la chiamano “o linzolo”.
Alle spalle della Fontana, si apre il tipico, unico e speciale mercato del pesce catanese “la Pescheria”, che si allarga più avanti anche alle bancarelle della verdura, frutta, carne, formaggi, ecc.; un insieme di colori, odori, e sapori di rara bellezza.
Nel pomeriggio, shopping lungo la Via Etnea con sosta all’Anfiteatro Romano e ai grandiosi Giardini Pubblici di fronte all’imponente monumento dedicato a Giuseppe Garibaldi e, per finire, una messa serale nella Collegiata prima di cena.
Catania offre una vasta gamma di opportunità culinarie, che vanno dalla cucina classica italiana a quella tradizionale siciliana e più specifica catanese. C’è solo l’imbarazzo della scelta, per tuffarsi nei sapori e nelle tradizioni locali, tra piatti di pesce, verdure (la famosa “caponata”), carni, dolci e vini esclusivi (la Pasta alla Norma, le Sarde a Beccafico, la Tunnina Ammarinata, i Cannoli alla ricotta, i minni di Sant’Agata, la Cassata) … e tanto ancora!
Fine della prima parte
Quattro Papi in Piazza San Pietro
Il vero miracolo, di quelli richiesti per le cause di beatificazione e di canonizzazione, è proprio questo: domani mattina, 27 aprile 2014, in Piazza San Pietro a Roma, saranno presenti contemporaneamente quattro Papi.
Papa Francesco con il Papa Emerito Benedetto XVI e Papa Giovanni XXIII con Papa Giovanni Paolo II, i primi due in “carne ed ossa” e gli altri due presenti solamente in “spirito”, ma tutti e quattro legati indissolubilmente da un connubio di continuità verso quella strada tracciata proprio da Papa Roncalli ispiratore del Concilio Vaticano II.
Un avvenimento davvero unico nella storia della Chiesa Cattolica e per questo degno di speciale interesse a livello mondiale. Si stima che oltre due miliardi di persone, tra quelle presenti a Roma (forse più di ottocentomila) e quelle collegate con maxi schermi, televisioni, radio, ecc., assisteranno all’evento, destinato a rimanere nella storia. Un grande concentramento di fedeli è previsto anche a Sotto il Monte in provincia di Bergamo, paese natale di Angelo Giuseppe Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII e a Cracovia in Polonia, ove Karol Józef Wojtyła, futuro Papa Giovanni Paolo II, è stato prima Vescovo e poi Cardinale.
Si dirà che è roba da medioevo; riti per bigotti incapaci di affrontare la vita nel senso più materialistico del termine, che si rifugiano in credenze non dissimili da quelle “pagane” che gli stessi cristiani, sin dai primordi, intendevano contrastare e, per questo, venivano perseguitati e martirizzati.
Ma, così non è!
Il carisma dei due uomini, ciascuno nella sua peculiarità, di questi due Papi che hanno caratterizzato la storia del secolo scorso, si è propagato oltre i confini di Roma e della Chiesa Cattolica, toccando località e persone lontane, a volte anche di altre professioni religiose.
Angelo Giuseppe Roncalli, Papa Giovanni XXIII, ha rappresentato lo spartiacque tra il vecchio e il nuovo modello della Chiesa Cattolica, un uomo illuminato che ha saputo aprire la Chiesa Cattolica alle novità e al futuro con il Concilio Vaticano II; il Papa Buono, il Papa del … “portate una carezza ai vostri bambini e dite questa è la carezza del Papa”.
Karol Józef Wojtyła, Papa Giovanni Paolo II, ha saputo invece cogliere le opportunità di apertura e di cambiamento, contribuendo alla distensione tra i popoli attraverso il superamento della c.d. “guerra fredda” tra i due blocchi Russia – Stati Uniti, concretizzatosi con la caduta del “muro di Berlino”; il Papa dei giovani, delle adunate oceaniche della gioventù; il Papa del … “se mi sbaglio, mi corriggerete”; il Papa del … “non abbiate paura, spalancate le porte a Cristo”.
E la contemporanea canonizzazione di Papa Giovanni XXIII e di Papa Giovanni Paolo II, proposta dall’allora Papa Benedetto XVI, al secolo Joseph Aloisius Ratzinger, e condivisa poi dal suo successore Papa Francesco, alias Jorge Mario Bergoglio, rappresenta dunque un’occasione speciale di riflessione riguardo alla vita e alle opere dei due novelli Santi, elevati agli onori degli Altari, nel contesto dell’epoca in cui sono vissuti, dimostrandosi personaggi positivi, soprattutto per l’apporto costruttivo e proattivo che hanno saputo rendere all’Umanità intera, e quindi non esclusivamente alle persone di fede Cattolica.
Una strada da continuare , un percorso da non interrompere, due esempi da seguire!
Foto di repertorio: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-25/verso-canonizzazione-due-papi-domani-roma-notte-bianca-preghiere-e-liturgie-105547.shtml
Il profumo della primavera e della Pasqua di un tempo!
La primavera avanza e la Pasqua è ormai prossima, mancano solo pochi giorni alla fine della Quaresima.
Sembra l’annuncio di un programma televisivo!
C’è un tale clima di appiattimento dei valori, dei sentimenti e delle tradizioni, verso una globalizzazione dei modi di essere e di porsi, che non si riesce più a capire chi siamo, da dove veniamo e dove siamo diretti.
Un tempo, in effetti, i vari passaggi, compresi quelli sopra “annunciati” erano un tantino più marcati e si percepivano già in termini di cambio climatico (si dirà … però non esistono più le mezze stagioni!), ma anche di profumi della vegetazione che si diffondeva dai campi e di odori dei cibi che caratterizzavano il particolare periodo dell’anno.
Metaforicamente parlando, dopo l’inverno freddo e buio ecco la luce e la frizzante primavera, il ritorno alla vita dopo la morte, sebbene solo apparente.
Ed anche la Quaresima, i quaranta giorni che precedevano la Pasqua, era vissuta come momento di riflessione, di preparazione e di trepida attesa.
E’ forse la nostalgia di un tempo che non c’è più che fa tornare alla mente i ricordi di un ragazzo in un paesino della Capitanata, con la sua famiglia, i suoi parenti e i suoi amici, negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale.
I riti della Settimana Santa vissuti intensamente, non da semplice “spettatore” ma da “protagonista”, da chierichetto e giovane dell’”azione cattolica”, in una cornice di partecipazione popolare fatta di semplicità, amore e carità cristiana.
E gli odori che provenivano dai forni e dalle case, ove venivano preparati i dolci pasquali, in particolare i “pucc(e)llat(e)”, una sorta di grandi trecce spalmate con il rosso d’uovo che, una volta sfornati, assumevano, maestosi, il colore del mogano; dolci che non potevano tuttavia essere toccati fino al giorno della Santa Pasqua, e solo dopo la benedizione del prete. Ai bambini erano riservati i “panarell(e)”, preparati con lo stesso impasto, ma a forma di panierini con un uovo sodo intrecciato.
E, poi, il pranzo pasquale, caratterizzato dal piatto tipico denominato “brodetto”, un misto di agnello, asparagi di campo, uova e formaggio pecorino. Tutti ingredienti rigorosamente locali.
Per la raccolta degli asparagi selvatici si percorrevano chilometri tra le alture della zona fino a raggiungere il “bosco” prossimo al mare. Era una sfida che interessava tutti, grandi e piccini, e c’era sempre qualcuno che ne aveva trovati tanti e di belli, ma che non voleva rivelare il posto, tenuto gelosamente segreto.
Gli agnelli si acquistavano direttamente presso le masserie, da pastori abruzzesi, eredi e testimonianza della “transumanza” che aveva, nei tempi, caratterizzato la “mena delle pecore” dall’Abruzzo alla Puglia (per lo svernamento) e viceversa (in estate). E, dagli stessi pastori venivano acquistate anche le forme del loro squisito pecorino.
Per le uova, non c’era bisogno invece di rivolgersi ad altri, poiché quasi tutte le famiglie avevano la loro scorta di uova provenienti dalle galline allevate in proprio.
Ora, non è più così, il consumismo e la globalizzazione hanno cancellato le atmosfere di un tempo.
Una buona e serena Pasqua a tutti!
Foto: il “brodetto pasquale” di agnello, asparagi di campo, uova e formaggio pecorino (l.b.)
Recuperare l’Abbazia di Santa Maria di Kàlena sul Gargano!
Nei giorni scorsi, la Prof. Antonietta Zangardi ha pubblicato su “Gazzettaweb.net” un interessante articolo riguardante l’antica “Abbazia di Càlena o Kàlena” di Peschici, che versa attualmente in condizioni di completo abbandono, con l’intento di sensibilizzare la pubblica opinione intorno alla delicata questione concernente il recupero dei nostri beni culturali più preziosi, evitando che le nostre radici finiscano inesorabilmente nell’oblìo.
E, ciò, è fondamentale al fine di poter offrire alle future generazioni la testimonianza più autentica del nostro “glorioso” passato.
Anch’io ho avuto modo di parlare dell’Abbazia di Kàlena in un mio articolo pubblicato nel settembre del 2012 sul Sito/Blog www.paginedipoggio.com e successivamente replicato anche su Gazzettaweb.net.
L’articolo si intitolava “Ripalta (di Lesina) un piccolo gioiello gotico, tutto da scoprire”, e in quel contesto tracciavo, tra l’altro, alcuni parallelismi proprio tra i “ruderi” dell’Abbazia di Santa Maria di Ripalta e quelli di Kàlena.
E’ un vero peccato assistere a questo ingiustificato abbandono!
Mi associo quindi all’esortazione della cara amica Antonietta “Salviamo Kàlena dall’oblìo”, e alle tante voci che negli ultimi tempi si sono levate da Peschici (tra cui la Prof. Teresa Maria Rauzino, presidente dell’associazione “Giuseppe Martella”), dal Gargano, dalla Provincia di Foggia e da tutta la Puglia, affinchè un po’ di buon senso e di logica illumini gli “addetti ai lavori” per il recupero di beni che appartengono non solo a noi pugliesi, ma all’intera umanità.
L’articolo della Prof. Antonietta Zangardi “Salviamo Kàlena dall’oblìo”, è alla pagina: http://www.gazzettaweb.net/it/journal/read/SALVIAMO-KALENA-DALL-OBLIO.html?id=962
Il mio articolo “Ripalta (di Lesina) un piccolo gioiello gotico, tutto da scoprire” è alla pagina: http://www.paginedipoggio.com/?p=3620.
L’articolo di Teresa Maria Rauzino dal titolo “L’Abbazia di Kàlena non deve morire!”, con il quale l’autrice lancia una petizione, evidenziando che in “In Italia non si sgretolano soltanto Pompei o il Colosseo … ma anche monumenti- simbolo del Gargano come l’Abbazia di Santa Maria di Kàlena, in agro di Peschici (Foggia)”, è alla pagina:
www.change.org/it/petizioni/nichi-vendola-l-abbazia-di-k%C3%A0lena-non-deve-morire
Dal medesimo sito internet è tratta anche la foto di repertorio.
La grande bellezza … ancora un Oscar al cinema italiano!
Nella notte degli Oscar 2014 di domenica scorsa, a Los Angeles negli Stati Uniti d’America, “La grande bellezza”, il film di Paolo Sorrentino, si è aggiudicato l’ambìto riconoscimento di miglior film straniero. Ancora una volta un film italiano ha vinto il Premio Oscar, dopo le indimenticabili opere realizzate da Benigni, Salvatores, Tornatore ed altri nostri geniali connazionali. Ma soprattutto Fellini e De Sica rappresentano gli autentici geni della cinematografia italiana, che a Los Angeles di Oscar ne hanno collezionati ben quattro per ciascuno.
E, forse, per alcuni aspetti, il bravo regista italiano Paolo Sorrentino proprio a Fellini si è ispirato in questo suo ultimo e fortunato film, molto apprezzato soprattutto oltre i confini nazionali.
Si, proprio così, la critica italiana non si è dimostrata subito benevola con Sorrentino, giudicando il film una pessima scopiazzatura di Fellini “8½” e “La Dolce vita”, oltre che sconclusionato e noioso. Solo ora – ad Oscar conquistato- è venuto fuori il patriottismo, l’orgoglio nazionale e tutti inneggiano al novello eroe nostrano che aiuta l’Italia a riscattarsi, in campo internazionale, in questo particolare momento di crisi e di recessione. Un vezzo tutto italiano, come in occasione delle partite di calcio nelle competizioni internazionali; attacchi violenti ai nostri, fino alla denigrazione, che si trasformano poi in acclamazioni e delirio collettivo in caso di vittoria.
Un po’ di equilibrio in più non guasterebbe, soffermandoci magari a valutare con maggiore obiettività e con spirito proattivo l’impegno, lo sforzo, la volontà e l’estro profusi dagli interessati nell’affrontare progetti complessi ed originali, anche quando tali iniziative sembrano discostarsi dai modelli tradizionali.
E, in effetti, “La grande bellezza”, piaccia o non piaccia, si discosta dai film tradizionali, quasi ad apparire, almeno in prima battuta, un insieme di spezzoni di riprese cinematografiche disarticolate tra loro, alla maniera di uno spot pubblicitario piuttosto che di un film. Ma così non è, perché pian piano si delineano storie, volti, personaggi e viene fuori l’intrigante e ambiziosa trama del film.
Vengono raccontate le vicissitudini di uno scrittore e giornalista, Jep Gambardella, autore di un unico romanzo scritto una quarantina di anni prima, che ora, a 65 anni splendidamente e inutilmente portati, nel vortice della vita mondana di Roma, vede con sempre più spietata lucidità tutta la disillusione che la vita gli ha riservato. La ricetta che viene offerta – sin dall’inizio – con una citazione del poeta Céline, è quella di considerare “il viaggio che ci è dato interamente immaginario … tutto inventato” e dunque di considerare il film e la vita come nient’altro che una finzione, come un “trucco” per la sopravvivenza di un uomo che abbia perso il gusto dell’esistere.
Ma una battuta del film, enuncia: “Che cosa avete contro la nostalgia? L’unico svago che resta per chi è diffidente verso il futuro”,.
Sembrerebbe dunque che la sorte delle nostre speranze sia quella di trapassare inevitabilmente in disillusioni, fino a dire, appunto, che tutto in fondo è illusione. Ma ciò rappresenta con tutta evidenza la sconfitta delle nostre aspettative; una delusione che, in qualche modo, aveva già toccato anche Jep, nel momento di grazia della sua giovinezza, attraverso lo sguardo di una ragazza, che era stato per lui la grande promessa di una bellezza che può riempire il cuore e rispondere al suo desiderio di felicità.
Ma tante volte è per dimenticare questo sguardo, che si chiacchiera a vuoto; ed è per non ascoltare più questa urgenza del cuore che ci si agita, come i tanti personaggi del film la cui occupazione principale sembra essere quella di stordirsi per sopportare la vita, cercando così di tacitarla.
E, quando suor Maria, una Santa centenaria e un po’ grottesca fa il suo ingresso sulla scena di questo teatro di veri e propri personaggi in cerca di autore, ella non darà prescrizioni o consigli morali, ma dirà alla sua maniera che la grande bellezza può manifestarsi solo seguendo quell’incontro iniziale di grazia, che ogni uomo ha sperimentato almeno una volta nella vita, innamorandosi, e che qui riaccade nella stupefacente, surreale presenza di uno stormo di fenicotteri rosa in volo verso una qualche loro terra promessa, che sostano un momento sulla terrazza di Jep, con vista Colosseo. Perché la bellezza è grande quando ci mostra il significato ultimo per cui siamo al mondo, che possiamo ritrovare solamente nelle nostre “radici”, come dice la vegliarda (la Santa si nutre esclusivamente di radici e così spiega: “Sapete perché? Perché le radici sono importanti”.
La bellezza è il senso che ci lega a noi stessi e al mondo intero. Essa fa andare il tempo, gli dà un senso, una direzione; e senza di essa noi restiamo come condannati a “perdere il tempo”, sprecandone tutte le occasioni, per il solo motivo che esse hanno perso il loro vero motivo.
Per questo “La grande bellezza” racconta, nella forma di una finzione poetica, una storia di notevole spessore.
Per Jep, lo scopo della sua esistenza era stato quello di divenire non solo “un” mondano ma il “primo” dei mondani, come lui stesso confessa: “Quando sono arrivato a Roma, a 26 anni, sono precipitato abbastanza presto, quasi senza rendermene conto, in quello che potrebbe essere definito il vortice della mondanità. Ma io non volevo essere semplicemente un mondano. Volevo diventare il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire”.
Sentiva che nella sua vita non c’era più nulla in cui credere, né qualcosa da comunicare ad altri che vivevano come lui, ai quali diceva: “Siamo tutti sull’orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che farci compagnia, prenderci un po’ in giro”.
La povertà di contenuti che continua a scorgere in queste feste trash e volgari lo induce infine, in un momento di ebbrezza, a un’amara confessione a cuore aperto: “Mi chiedono perché non ho più scritto un libro. Ma guarda qua attorno. Queste facce. Questa città, questa gente. Questa è la mia vita: il nulla. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul nulla e non ci è riuscito: dovrei riuscirci io?”. Sembra il segno di un fallimento durato un’intera vita.
Ma proprio nel momento in cui le speranze sembrano abbandonarlo definitivamente, ecco che l’illuminazione arriva: dopo un incontro, spinto da Dadina (la direttrice nana del giornale per il quale egli scrive) che vuole ottenere un’intervista, con una Santa, una missionaria cattolica nel terzo mondo, Jep si reca all’Isola del Giglio per un reportage sul naufragio della nave da crociera Costa Concordia. E proprio qui, ricordandosi del suo primo incontro con Elisa, la ragazza della sua giovinezza, che si riaccende in lui un barlume di speranza: il suo prossimo romanzo è finalmente pronto per venire alla luce.
Sullo sguardo finalmente sereno di Jep, che osserva sorridente l’alba romana, si chiude il film … e scorrono i titoli di coda.
Jep Gambardella pronuncia nel film alcune altre frasi molto significative, tra cui:
– “A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: ‘La fessa’. Io, invece, rispondevo: ‘L’odore delle case dei vecchi’. La domanda era: ‘Che cosa ti piace di più veramente nella vita’?
– Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella”.
– “Oggi a 65 anni non ho più tempo da perdere con cose che non ho voglia di fare”.
Il personaggio di Suor Maria, la Santa.
Suor Maria, la Santa, non dorme a letto ma per terra e mangia solo radici. A questo proposito, dice: ”Sai perché mangio solo radici? Perché le radici sono importanti!”
E, dunque, “l’odore delle case dei vecchi” e “le radici” rappresentano le parole chiave del film; un film che cerca le radici di una vita e guida gli spettatori nei meandri più riposti di se stessi.
La Santa è stata portatrice di trasformazione e rinascita, una specie di angelo annunciatore di buona novella nei confronti del protagonista … come una levatrice di conversione, di un grande cambiamento interiore.
“La grande bellezza” è un film sulla crisi di identità, sulla ricerca delle proprie radici. E la Santa apre una porta al protagonista e quindi al racconto cinematografico.
Il personaggio, seppur secondario, guida le sequenze che portano alla risoluzione del conflitto drammatico impostato fin dall’inizio. In estrema sintesi, il personaggio della Santa impreziosisce il film, anche perché ben costruito e ottimamente interpretato. Magistrale il soffio che fa volar via tutti gli uccelli, di cui la Santa conosceva i nomi di battesimo; lo stare tutta rattrappita, sdraiata per terra e un po’ bambina, che dondola i piedi seduta sulla grande poltrona; e l’ascesa con le ginocchia nude della Scala Santa, dove traspare la sofferenza e il dolore; ed infine il respiro pesante che risale dalle viscere, come un animale che lotta per la vita, fino alla fine.
Il film è una netta contrapposizione fra il lato storico e poetico di Roma con la sua parte più squallida, composta da personaggi dell’alta borghesia fondamentalmente tristi e annoiati che nascondono sotto una patina di volgarità e di chiacchiericcio un vuoto, che il protagonista del film inizia sempre di più a odiare, cercando dei nuovi stimoli nella propria vita e iniziando a criticare le persone che lo circondano. I personaggi rappresentati nel film spaziano da ricchi imprenditori, mogli di politici e dive in declino, mostrandoli nel loro lato più disinibito e volgare, criticando una certa parte di società e mettendola a confronto con la vera bellezza di Roma che proprio questi personaggi contribuiscono ad affossare.
Le mie personali considerazioni dopo aver visto il film.
Si diventa adulti quando si smette di fare solo le cose che ci piacciono … e non è mai troppo tardi provare a farlo.
Le radici, le proprie radici, sono imprescindilmente il punto di partenza e di arrivo di ciascuno di noi. Senza radici non ci può essere futuro e quindi anche la speranza svanisce. Un albero senza radici è destinato a seccare.
La grande bellezza è nelle cose semplici, ma il nostro pensiero è altrove, immaginiamo che il bello, il meglio sia sempre in altri lidi e non sappiamo riconoscere le opportunità che ci vengono offerte.
L’articolo rappresenta la sintesi di critiche, analisi e servizi tratti da giornali, riviste e vari siti internet.
Foto di repertorio da sito internet.
Il Governo Renzi
In queste ore il nuovo Governo Renzi è in Parlamento per il passaggio istituzionale di fiducia che, a quanto pare, dovrebbe essere data per concessa sia al Senato che alla Camera.
Una bella squadra composta da tanti giovani, la metà dei quali donne, alcuni di età inferiore ai 40 anni, con una media di 47 (sono purtroppo i 64 anni del ministro Padoan che la influenzano negativamente). Sedici in tutto, un Governo snello – dunque – con un Presidente del Consiglio di 39 anni, neanchè l’età prevista per poter occupare un seggio al Senato. Un solo Governo contava un numero inferiore di ministri, 15 per la precisione, ma bisogna tornare indietro al Governo De Gaspari ter.
L’Italia si presenta come un Paese diviso; i risultati delle elezioni dello scorso anno non hanno decretato un vero vincitore per cui si è reso necessario ricorrere ad un Governo di larghe intese, retto da Enrico Letta, che si è andato man mano sfaldando, anche per le via delle significative trasformazioni intervenute nei due principali partiti politici che lo sostenevano, il PD ed il PdL. Nel primo, le primarie avevano incoronato nuovo Segretario Matteo Renzi e determinato conseguentemente nuovi rapporti di forza nel suo interno. Nel secondo, invece, il Partito era stato sciolto a favore di una nuova formazione politica, che riprendeva l’originaria denominazione di Forza Italia del 1994, nel mentre un gruppo di dissidenti si costituiva in autonoma formazione denominata Nuovo Centrodestra, che decideva di mantenere il proprio appoggio al Governo Letta, a differenza di F.I. che, al contrario, passava all’opposizione.
L’accelerazione che il nuovo Segretario del PD intendeva dare al processo di riforme di cui l’Italia ha davvero tanto bisogno e l’intervenuta sentenza della Corte Costituzionale con la quale veniva spazzata via la vigente legge elettorale, segnavano di fatto la fine del Governo Letta e aprivano le porte a due scenari possibili: scioglimento delle Camere con indizione di elezioni anticipate senza una nuova legge elettorale oppure il tentativo di salvare la Legislatura con l’impegno di portare avanti, una volta per tutte, le attese riforme costituzionali unitamente alla nuova legge elettorale.
Il Presidente della Repubblica ha optato coerentemente per la seconda ipotesi, conferendo l’incarico di formare il nuovo Governo al neo Segretario del PD Matteo Renzi.
Dalle immagini televisive circolate nelle scorse ore si è avuta netta l’impressione che Enrico Letta abbia giudicato l’operazione come una pugnalata alle spalle da parte di Matteo Renzi e quindi una scorrettezza nei suoi confronti e del suo Governo; significativo è il filmato della cerimonia del “campanello” (passaggio di consegne) nel corso della quale Letta si presentava accigliato e visibilmente contrariato. Circolano voci di una probabile volontaria fuoruscita di Letta dal PD verso una nuova formazione politica.
Riuscirà veramente Renzi ad assicurare quella discontinuità con il passato, indispensabile per assicurare una svolta efficace del nostro Paese?
La storia parlerà di un giovane con spiccate qualità e capacità che è stato in grado di “cambiare il verso dell’Italia” oppure del solito arrivista ed opportunista di turno?
Ai posteri l’ardua sentenza.
Tra i tanti articoli dei giornali letti nella giornata odierna, ho trovato interessante quello di Francesco Alberoni, pubblicato su “Il Giornale”, che riporto testualmente, qui di seguito.
Un Paese diviso: c’è chi pedala e chi, invece, frena.
Al di là dei nomi e degli schieramenti le forze in campo sono solo due
Tutte le formazioni sociali si formano attraverso i movimenti in cui le gente confluisce spontaneamente, mossa dal desiderio ardente di cambiare il vecchio mondo, la vecchia società e crearne una più giusta. È così che sono nati il partito Comunista, Socialista, Liberale, Repubblicano e Democristiano che hanno scritto la nostra Costituzione. Una Costituzione in cui non è il popolo a eleggere il governo, ma il Parlamento (Camera più Senato) che potrebbe perciò cambiarlo anche ogni mese. Oggi tutti questi partiti storici sono scomparsi, e al loro posto ci sono delle formazioni nate da altri movimenti: Lega, Italia dei valori, Forza Italia a cui da ultimo dobbiamo aggiungere i Grillini, e i Renziani.
Ma c’è un movimento di Renzi, visto che Renzi è segretario del Pd e presidente del Consiglio, quindi una istituzione? Certo, è un movimento anomalo senza sigle e bandiere, ma che ha moltissimi seguaci e potenziali elettori un po’ dovunque, nel Pd, nei centristi, in Forza Italia, perfino fra i grillini, gli incerti e gli astenuti. Renzi è un capo carismatico e stanno con lui tutti quelli che vorrebbero un maggior dinamismo e una riforma costituzionale che riduca i poteri paralizzanti del Parlamento e dia all’esecutivo il potere di rimodernare dalle fondamenta l’apparato costosissimo e sclerotizzato dello Stato. Corrispondentemente si trova contro tutti i partitini che temono di sparire, la burocrazia inefficiente e costosa che vuol continuare a crescere e a spendere e, infine, i grillini che vogliono tutto il potere per instaurare una dittatura totalitaria.
Sono queste le due coalizioni reali, le reali potenze politiche che, al di là dei nomi dei partiti o delle sigle, si stanno scontrando nel Parlamento e, un giorno, si scontreranno alle elezioni. E se le elezioni verranno condotte con un sistema che elegge un governo certo, stabile e forte, l’Italia prenderà slancio. Se invece verranno fatte ancora con il metodo tradizionale o il proporzionale, resteremo nella palude parlamentare limacciosa in cui ci troviamo da decenni.
Foto tratta dal sito internet: https://www.google.it/search?q=il+governo+renzi+foto&tbm
HIC OBIIT STUPOR MUNDI
Ospito con piacere sul mio Sito/Blog un articolo pubblicato lo scorso 8 febbraio su www.gazzettaweb.net dall’amica Antonietta Zangardi, concernente la presentazione a Torremaggiore dell’ultimo libro del noto storico della Capitanata Mario A. Fiore, che tratta della lunga vertenza legale tra le città di Lucera e Torremaggiore per il possesso del locale sito archeologico di Fiorentino, dove dettò le sue ultime volontà e morì Federico II di Svevia.
“HIC OBIIT STUPOR MUNDI”
Il grande imperatore Federico II di Svevia finì i suoi giorni a Fiorentino in terra di Capitanata, sito archeologico e monumentale, storico e ambientale nel territorio di Torremaggiore.
Sabato 1 febbraio nell’Aula Magna del Castello Ducale di Torremaggiore, gremita da un folto pubblico di studenti, studiosi e appassionati di storia, è stato presentato l’ultimo lavoro dello storico della Capitanata Mario A. Fiore, “Hic obiit Stupor Mundi”, Roma 2013, a margine della vicenda giudiziaria, che ha visto contrapposti il comune di Lucera e quello di Torremaggiore, pertinente il sito storico-archeologico di Fiorentino in Capitanata.
Ha introdotto la serata il sindaco di Torremaggiore, dott. Costanzo di Iorio, ha proseguito la dirigente alla cultura Maria A. De Francesco e quindi l’Assessore alla cultura Marcella Bocola. L’autore, avv. Mario A. Fiore ha deliziato il pubblico con un suo ampio e documentato intervento.
Prima di presentare il lavoro dell’avvocato Fiore, mi corre l’obbligo di introdurre brevemente la figura di Federico II, sovrano tanto amato, che ha affascinato moltissimo le numerose generazioni di studenti con i quali ho vissuto la mia esperienza scolastica come docente. A causa della mancanza di notizie sui libri di testo di Storia, decisi di scrivere nel 2001, per i tipi delle Edizioni del Poggio, una breve biografia dell’Imperatore Svevo, “Federico II Terzo Vento di Soave”, in veste epistolare, frutto di studi personali e dedicata ai giovani lettori che avrebbero voluto conoscere più approfonditamente questo carismatico personaggio, ancora vivo nel nostro territorio.
I consensi a quella pubblicazione da parte dei ragazzi, dei giovani e dei docenti sono stati molteplici e gratificanti.
Oggi, grazie al lavoro dell’avv. Fiore e dopo aver ricevuto, con mio sommo piacere, la copia n. 49 delle sole n. 99 stampate, mi ritrovo a scrivere ancora sul fulvo imperatore e precisamente mi soffermerò sulla conclusione della diatriba legale tra le civiche amministrazioni di Lucera e Torremaggiore, con esiti positivi per quest’ultima.
“Hic obiit Stupor Mundi” cioè a Castel Fiorentino finì i suoi giorni lo Stupore del Mondo, Federico II.
Tanti sono gli appellativi attribuiti al grande imperatore svevo Federico II, oltre a Stupor Mundi, anche Puer Apuliae, Sol justitiae, Terzo vento di Soave, vero imperatore europeo, abile diplomatico, politico accorto, stratega e cosmopolita, mecenate, colto letterato, astronomo, sovrano illuminato. Fu un personaggio mitico e controverso che finì i suoi giorni nel nostro territorio di Capitanata, a Fiorentino, per cui le luci non potranno mai spegnersi e il sipario non potrà mai calare su questo personaggio entrato ormai nella leggenda, anche perché la letteratura si è impossessata della sua storia trasformandola in mito.
L’avv. Mario A. Fiore ha seguito la vicenda giudiziaria del sito storico-archeologico di Fiorentino, territorio preteso dalla città di Lucera e nel libro riporta sia la vicenda legale sia la ricerca storica.
Per vari lustri le civiche amministrazioni di Torremaggiore contrastarono le mire ambiziose di quelle di Lucera per il possesso di “ … un sito cospicuo per valore storico, monumentale e archeologico, intriso di sacertà tale da poter essere a ragione riguardato qual patrimonio dell’umanità, ove finì il suo peregrinare terreno, l’astro fulgente dell’immarcescibile Puer Apuliae.”
A Castel Fiorentino e “… non a Firenze doveva avverarsi l’oracolo che egli sarebbe morto sub flore” riporta lo studioso tedesco Hernst Kantorowicz, autore della più completa biografia dell’Imperatore. Le ultime volontà nel testamento fridericiano, atto normativo che, insieme alle Costituzioni di Melfi rappresenta uno dei documenti di maggior momento per la storia dell’Occidente europeo, furono dettate “ … Apud Florentinum in Capitinata”.
La contesa legale tra le città di Lucera e quella di Torremaggiore è andata avanti per svariati lustri per “ … la proprietà, il possesso di un sito storico monumentale e archeologico, quasi sconosciuto ai profani, (che) rappresenta per gli specialisti e gli addetti, e per molteplici istanze, un riferimento ragguardevole per la conoscenza dei podromi del vissuto presente.”
I numerosi giudizi legali affrontati sono finiti tutti con verdetti favorevoli al comune di Torremaggiore, ultimo quello della Corte d’Appello di Bari.
L’introduzione del libro chiarisce il ruolo svolto dall’autore per un ventennio, gravato dall’onere ma anche gratificato dall’onore di assistere e rappresentare la comunità della borgata dauna di Torremaggiore “… sia nelle Curie di Giustizia sia in incontri e simposi storico- giuridici.”
L’autore si rammarica per la rivendicazione materiale di quelle gloriose rovine e auspica di coltivare e favorire la ricerca di un’armonia fra le popolazioni in nome del fulvo Svevo.
A Fiorentino in Capitanata, un ermo poggio a cavaliere del Tavoliere di Puglia, si realizzò una pagina di storia alla quale l’Europa odierna e i cittadini delle diverse Nazioni che la costituiscono “ … devono moralmente sentirsi appartenere ed essere tributari.”
Federico II, alla continua ricerca del giusto, del bello e dell’armonia tra i popoli, con la sua lungimiranza concepì l’idea dello Stato unitario in cui dovevano convivere le diverse caratteristiche dei popoli.
La pubblicazione riporta, oltre alle disposizioni testamentarie del nostro, anche il valore storico del “testamento” dal diritto giustinianeo, alla legislazione longobarda e a quella normanno-sveva. L’incipit – protocollo del testamento fissa l’etica fridericiana, “ ribadendo sotto il profilo escatologico, la corruttibilità ontologica della natura umana”, concetto della dottrina di S. Agostino.
L’autore riporta quindi un’analisi storica del territorio di Torremaggiore. Il “ viaggio storico nei tempi andati …” per presentare lo Stupor Mundi, ci vede procedere “ … verso il futuro non cessando mai di guardare al passato”.
Dopo la morte dell’imperatore, Fiorentino decadde lentamente secondo alcuni storici, mentre secondo altri, presa d’assedio e disfatta dalle truppe papaline, la città fu declassata e abbandonata da molti abitanti che si rifugiarono a Torremaggiore.
La storia di Fiorentino prosegue con i de Sangro e quindi con l’interesse mostrato dagli studiosi per questo sito archeologico e la denuncia per l’abbandono: “ … a vivere nel deserto, diventa deserto anche la fantasia! ”.
Belle e preziose pagine di storia e di giurisprudenza quelle dell’avv. Mario A. Fiore!
Auspichiamo che Fiorentino sia riportata allo splendore del suo reale valore storico e che divenga patrimonio dell’umanità.
Non dobbiamo mai permettere che si cancellino vestigia e reperti e che si impedisca la ricerca della verità storica perché se sparirà il passato, non sapremo più progettare un futuro migliore e sarà veramente faticoso ripartire da zero.
Poggio Imperiale 3 febbraio 2014
Antonietta Zangardi
La cassoeula
In questi giorni di freddo, pioggia e neve che imperversano nel Nord Italia, Lombardia compresa, qualche piatto caratteristico lombardo di stagione, come ad esempio la cassoeula, proprio non guasterebbe.
La cassoeula è un pietanza tipica della tradizione popolare e della cucina milanese e lombarda e rappresenta il principe dei piatti invernali, preparato per celebrare quello che restava dalla macellazione del maiale.
Sicuramente non proprio un piatto leggero, eppure molto amato dai vecchi milanesi e lombardi in genere, ma anche dai buongustai di qualunque provenienza.
La cassoeula è detta anche bottaggio (termine derivante probabilmente dal francese potage).
Pare, in proposito, che il grande musicista Arturo Toscanini ne fosse molto ghiotto.
Il piatto, così come viene preparato, risalirebbe all’inizio del XX Secolo, ma le sue varianti più antiche sono di origine incerta e controversa.
Gli ingredienti principali della cassoeula sono le verze, che la tradizione prevede vengano utilizzate solo dopo la prima gelata, e le parti meno nobili del maiale, come la cotenna, i piedini, la testa e le costine.
Oggigiorno, nell’attuale preparazione, sia in casa che nei ristoranti, si ha la tendenza ad alleggerire in qualche modo i condimenti e a utilizzare esclusivamente costine (magre), salamini da verza (altrettanto magri) e solo qualche pezzo di cotenna (ben sgrassata), al fine di rendere il piatto meno pesante e maggiormente digeribile, oltre che più salutare.
Generalmente è un piatto unico, servito con una buona polenta fumante.
Il termine cassoeula potrebbe derivare dal cucchiaio con cui la pietanza viene mescolata durante la sua preparazione (“casseou” in dialetto lombardo) o dalla pentola in cui si prepara (casseruola).
Un’altra ipotesi farebbe risalire la cassoeula alla tradizione di prepararla in occasione della costruzione delle case, quando l’edificio giungeva al tetto, e il nome sarebbe da attribuire all’attrezzo utilizzato per rimestarla, per l’appunto la “cazzuola” (l’attrezzo proprio dei muratori).
Secondo alcuni, il piatto è legato alla ritualità del culto popolare di Sant’Antonio Abate, festeggiato il 17 gennaio, data che segnava, un tempo, in Lombardia, la fine del periodo delle macellazioni dei maiali. I tagli di carne utilizzati per la cassoeula erano quelli più economici e avevano lo scopo di insaporire la verza, elemento invernale basilare della cucina contadina lombarda nei secoli scorsi. Per altri, invece, il piatto, di origine barocca, prevedeva l’utilizzo di diversi tipi di carne e che vi sia stata, poi, una successiva semplificazione e riduzione di ingredienti. Ma è anche ritenuto plausibile che i due piatti, la versione “povera” e la versione “ricca”, avessero origine diversa e che, via via, vi sia stata una sorta di convergenza che ha portato, alla fine, al piatto come è attualmente conosciuto.
Nella tradizione culinaria popolare europea si rinvengono piatti con ingredienti simili, come le diverse forme di “Potée” francesi (minestre a base di cavolo e maiale) o la “Choucroute alsaziana”, a sua volta derivata dal “Sauerkraut” tedesco (entrambi i piatti sono basati su crauti e carne di maiale e sono preparati però con ingredienti già passati da un procedimento di conservazione). Altro piatto della tradizione tedesca è il “Kasseler” (“càssola” nella pronuncia tedesca), consistente in tagli di maiale affumicato servito con un contorno di cavolo verza
Una ulteriore leggenda vuole infine che la cassoeula sia da far risalire ad un soldato spagnolo che invaghitosi di una giovane donna milanese, cuoca di una famiglia nobile, le abbia insegnato la ricetta e che in seguito la giovane abbia proposto con successo il piatto alla famiglia presso cui prestava servizio.
Ma, comunque siano andate le cose, ritorniamo ora ai tempi attuali e diciamo pure che una buona cassoeula non si può rifiutare, soprattutto in questi periodi di temperatura polare … “semel in anno licet insanire” !
Visitare il “MoMa” a New York
Andare a New York e non visitare il “MoMa” (acronimo di “Museum of Modern Art”), è un po’ come mangiare una pizza senza il pomodoro e la mozzarella.
E’ un’opportunità da non perdere, sia per l’originalità delle esposizioni ma anche per la mole delle opere di qualunque genere messe in mostra.
Io e mia moglie abbiamo avuto il piacere e l’occasione di maturare nel 2009 questa interessante esperienza, e devo dire che ne è valsa la pena: siamo rimasti veramente entusiasti.
Il “MoMa” viene dai più considerato il primario museo di arte moderna del mondo intero, con le sue 150.000 opere, gli oltre 22.000 film e i 4 milioni di fermi immagine presenti e considerati, a giusta ragione, la miglior collezione di capolavori di arte moderna esistente.
Il “MoMa” nacque nel lontano 1929, da un’idea molto originale della moglie del miliardario John D. Rockefeller e due sue amiche, all’epoca denominate “Le Signore” o “Le ardite Signore” o anche “Le Signore adamantine”, che inizialmente realizzarono uno dei primi musei interamente dedicato all’arte moderna e di avanguardia, in un palazzo molto modesto di New York, preso in affitto.
Immediato fu il successo, tant’è che importanti personaggi dell’arte e della cultura vennero subito chiamati a far parte del gruppo dirigente del nuovo museo, accrescendo lustro e fornendo nel contempo lo slancio necessario per la sua affermazione in campo internazionale.
E la collezione del museo, che in origine era composta di sole otto stampe e un disegno, avuti grazie ad una donazione, si ampliò velocemente.
Già nel mese di novembre dello stesso anno di fondazione, si tenne la prima mostra di successo, in cui furono esposte opere di Van Gogh, Gauguin, Cézanne e Seurat.
Il museo, dapprima trasferito momentaneamente in sei stanze tra gallerie e uffici al dodicesimo piano del Manhattan’s Heckscher Building, all’angolo tra la 5ª Avenue e la 57ª Strada, nei suoi primi dieci anni di vita si spostò in altre tre sedi provvisorie.
Attualmente il “MoMa” si trova a Midtown Manhattan a New York, sulla 53ª strada, tra la Quinta e la Sesta Avenue.
La collezione del museo propone un’incomparabile visione d’insieme dell’arte moderna e contemporanea mondiale, poiché ospita progetti d’architettura e oggetti di design, disegni, dipinti, sculture, fotografie, serigrafie, illustrazioni, film e opere multimediali.
La biblioteca e gli archivi del “MoMA” raccolgono più di 300.000 libri e periodici e le schede personali di oltre 70.000 artisti.
Il museo aumentò la propria fama a livello internazionale con la celebre retrospettiva dell’opera di Picasso del 1939-40, organizzata in collaborazione con l’Art Institute of Chicago. Grazie alla varietà delle opere esposte rappresentò una significativa reinterpretazione dell’arte del pittore spagnolo, apprezzata dagli studiosi d’arte e dagli storici.
L’edificio che ospita il “MoMa” è stato sottoposto a notevoli lavori di restauro e ammodernamento tra il 2002 e il 2004. Il palazzo è stato ridisegnato dall’architetto giapponese Yoshio Taniguchi. L’opera di rinnovamento ha quasi raddoppiato gli ambienti a disposizione producendo quasi 58.000 m² di nuovi spazi.
Il Peggy and David Rockefeller Building sul lato occidentale ospita le gallerie dell’esposizione principale, mentre il The Lewis B. and Dorothy Cullman Education and Research Building sul lato orientale accoglie sale per conferenze, concerti, laboratori per gli insegnanti d’arte, la biblioteca del museo e gli archivi.
Tra i due edifici si trova, anch’esso ampliato, l’Abby Aldrich Rockefeller Sculpture Garden, dove si trovano due sculture di Richard Serra.
Il numero dei visitatori del “MoMa” è salito fino a 2,5 milioni all’anno a fronte dell’1,5 che entravano nelle sue sale prima del rinnovamento, con una stabilizzazione intorno ai due milioni di visitatori l’anno.
Tra le tante cose belle e interessanti da scoprire, al “MoMa” è possibile ammirare anche molte delle celebri opere dei più significativi artisti conosciuti, quali (solo per citarne qualcuno) De Chirico, Picasso, Dalì, Cézanne, Monet, Van Gogh … e tante, tante altre opere di diversi importanti artisti statunitensi e di ulteriori paesi del mondo.
La visita al “MoMa” non delude proprio nessuno, ce n’è per tutti i gusti … basta avere tempo a sufficienza e soprattutto la voglia di “scandagliarlo” in ogni suo angolo, sala dopo sala, piano per piano, senza paura di stancarsi!
Cathédrale Notre Dame de Paris, samedi 14 décembre 2013
Ho avuto il piacere di assistere con mia moglie a Notre Dame di Parigi, la sera di Sabato 14 dicembre scorso, alla Santa Messa prefestiva delle 18,30 (Temps de L’Avent et de Noël 2013) celebrata dal Mgr Patrick Jacquin, chanoine et recteur-archiprête de la Cathédrale, preceduta alle 17,45 dai Vespri , “Les Vêpres”, a loro volta celebrati dallo chanoine Patrice Sicard, chapelain.
Due cerimonie religiose di suggestivo interesse in un contesto storico – architettonico di esclusiva bellezza, quale la Cattedrale di Notre Dame di Parigi, impreziosite da solenni quanto soavi musiche e canti.
Ed ancora più unico che raro è stato poi il concerto d’organo che ha avuto inizio, sempre in Cattedrale a partire dalle ore 20,00.
« Audition au Grand Orgue de Notre Dame de Paris »
Concertiste : Yuka Ishimaru /Japon
• Johann Sebastian Bach (1685 – 1750), Prélude et fugue en ut mineur
• Camille Saint Saens (1835 – 1921), Fantaisie en mi bémol majeur
• César Auguste Franck (1822 -1890), Priére
• Louis Vierne (1870 – 1937), Final de la Symphonie n° 1
Nella Cattedrale di Notre Dame di Parigi si trovano due organi a canne :
L’Organo Maggiore (in francese: Grand Orgue), situato sulla cantoria in controfacciata, con 132 registri distribuiti su cinque tastiere e pedaliera;
L’Organo del Coro (in francese: Orgue de Choeur), situato sulla sinistra del coro, con 30 registri distribuiti su due tastiere e pedaliera.
La Cattedrale di Notre Dame è il principale luogo di culto cattolico di Parigi, sede vescovile dell’Arcidiocesi di Parigi, il cui Arcivescovo metropolita è anche primate di Francia.
L’imponente monumento è ubicato nella parte orientale dell’Île de la Cité, proprio nel cuore della capitale francese, nella omonima piazza e rappresenta una delle costruzioni gotiche più celebri del mondo.
E’ monumento storico di Francia dal 1862 e Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO dal 1991.