Author Archives: Lorenzo

8
Apr

A zèlle e u zellùse a Tarranòve

Ogni tanto mi affiorano alla mente ricordi di un tempo che fu, trascorso da ragazzo nel mio paesello di nascita, nell’Alto Tavoliere della Puglia, come dei flashback che si inseriscono nella mia quotidianità per lasciar spazio alla rievocazione di avvenimenti del passato.

E ricordo che a Tarranòve (Poggio Imperiale, in terra di Capitanata), in situazioni ove si verificavano circostanze che presupponevano condizioni di competitività, come ad esempio nel gioco delle carte, ma anche in situazioni analoghe, si poneva soventemente in risalto qualche individuo (quasi una macchietta) che, in maniera loquace, prolissa e ciarliera, attribuiva al compagno di gioco (a coppie) l’incompetenza e lo scarso concentramento che pregiudicavano i risultati della partita oppure, all’avversario, il fatto di avere una fortuna smisurata e di vincere pur non sapendo giocare.

Si diceva, in gergo, che il tizio o il caio erano “zellùse” e l’atteggiamento posto in essere veniva denominato “a zèlle”,

Insomma “u zellùse” voleva vincere sempre, a tutti i costi, e non era capace di accettare sconfitte; in ogni circostanza la voleva vinta lui e pretendeva di avere sempre ragione su tutti e sopra ogni cosa. Si sentiva apparentemente superiore agli altri, ma era solitamente un soggetto mediocre ed irascibile che serbava rancore, odio e invidia verso il prossimo, senza neanche sforzarsi di nascondere pubblicamente le sue sciocche peculiarità: aveva la capacità di trasformare le competizioni in rivalità ed era particolarmente abile nell’approfittare di situazioni delicate per suscitare litigi altrui, mettendo i malcapitati gli uni contro gli altri.

Molto più in generale, “a zèlle” indicava quell’improvviso pretesto con cui una persona, nutrendo una sorta di antipatia o astio personali verso un altro, e non avendo motivi validi per aprire un contenzioso giustificabile e razionale, al fine di giustificare la dichiarazione di rivalità, si impuntava su qualche cavillo che cavalcava a dismisura in modo irragionevole.

Quel cavillo o pretesto, appunto, era “a zèlle” e, naturalmente “u zellùse” era il soggetto che con disinvoltura la praticava.

“U zellùse” manifestava la sua contrarietà in tutti i campi, cominciando dal nutrimento; infatti non gli andava bene mai niente di quello che era stato preparato per pranzo o per cena e anche per colazione o merenda.

Così dicasi per l’abbigliamento, vestiti, camicie, calze, scarpe; l’arredo della casa, i viaggi, le vacanze, l’ombrellone, gli spettacoli e quant’altro potesse venirgli mai proposto.

In lingua italiana potrebbe definirsi il “bastian contrario” della situazione, espressione idiomatica che indica colui che assume per partito preso le opinioni e gli atteggiamenti contrari a quelli della maggioranza.

E col tempo i due termini sono entrati nel linguaggio corrente dei Terranovesi, affievolendone il significato in maniera scherzosa e con toni divertenti soprattutto con i bambini capricciosi o in genere nelle contrattazioni.

Proviamo ora a vedere, per quanto possibile, la sua derivazione etimologica.

Nell’area del Cilento (1), “zella” indica più specificatamente la lite, l’ira, e “zelluso” è dunque l’attaccabrighe, la persona facile all’ira, pronto a “spaccare il capello in quattro” nella misurazione del torto che assume di aver subito, facile alla reazione e permaloso.

E, sulla loro origine (2), l’ipotesi più accreditata è quella di una derivazione dal greco “zelos” che tra i molteplici significati contempla anche quello di ira, rivalità, animosità; e da “zelos” viene anche la parola “gelosia”.

Nella storia di Tarranòve si rinviene una nutrita mescolanza di idiomi provenienti da varie località della Campania, della Puglia centrale e meridionale, della Basilicata (un tempo denominata Lucania) e della Calabria, nonché del Molise e dell’Abruzzo, ragione per cui i termini “zèlle” e “zellùse” potrebbero essere stati importati proprio dal Cilento, peraltro maggiormente influenzato dalla cultura greca, con il trasferimento in paese di famiglie provenienti da quei luoghi, che vennero a popolare questo nuovo insediamento (terra nuova: Tarranòve) in Capitanata voluto dal Principe Placido Imperiale, verso la metà del 1700.

Come ultima notazione, si evidenzia anche il fatto che a Tarranòve il termine “zèlle” – ma solo al plurale (i zèlle) era sinonimo di “debiti”, ed è così che si diceva ad esempio: “Quillullà sta chine chine de zèlle” (quello là è pieno pieno di debiti) …ma questa è un’altra storia!

(1) Il Cilento è un’area territoriale della provincia di Salerno, nella Campania meridionale. Unitamente al Vallo di Diano, in epoca romana il Cilento era parte della Lucania; a decorrere dal medioevo appartenne al Principato Citeriore, definito anche “Lucania occidentale” ma facente capo a Salerno.

(2)L’interessante materiale di ricerca, riportato nell’articolo, è stato reperito sul sito internet Cilento Reporter l’Altra Informazione https://cilentoreporter.itAccademia della Vrenna al quale vanno i ringraziamenti di paginedipoggio.

10
Mar

La Russia ha invaso l’Ucraina: l’atrocità della guerra e la sofferenza umana che ne consegue

Dopo ben settantasette anni di tregua e di apparente pacifica convivenza tra i popoli europei, eccoci catapultati all’indietro nel tempo in un conflitto bellico e sull’orlo di sfociare nella Terza Guerra Mondiale.

La Russia ha militarmente invaso l’Ucraina, uno Stato sovrano con un Presidente ed un Parlamento democraticamente eletti dal popolo.

Carri armati, artiglieria pesante, bombardamenti aerei, palazzi sventrati, morti e feriti; e  la coraggiosa resistenza degli ucraini.

Donne e bambini sfollati che scappano inermi verso il confine con la Polonia e la Romania, e cordoni umanitari per l’accoglienza da parte dei Paesi dell’Unione Europea che si prodigano in uno sforzo di grande solidarietà. Ed echeggiano, ancora una volta, parole come esodo, genocidio, olocausto.

Le immagini che passano attraverso gli schermi televisivi ci mostrano in tempo reale l’atrocità della guerra in atto e la sofferenza umana che ne consegue, lasciandoci profondamente sconvolti dallo sgomento e dall’orrore.

Solo nei film e nei vecchi documentari della Seconda Guerra Mondiale avevamo visto cose del genere.

Ed ora, strabiliati ed inorriditi, siamo tutti a domandarci del perché di tanta violenza e crudeltà nel Terzo Millennio.

Vladimir Putin, l’attuale Presidente della Federazione Russa, sembrerebbe – secondo alcuni osservatori internazionali  –  ossessionato dal confronto con il  passato ed in questo senso vorrebbe riscrivere la Storia deviandone il corso, cancellando di fatto  la caduta del Muro di Berlino, la fine del Comunismo e la debacle  dell’Unione Sovietica: eventi che negli anni novanta del secolo scorso hanno segnato non solo la Storia, ma anche la Geografia politica di quella parte del Mondo.

Inoltre, la Russia di Putin sarebbe convinta (e pare anche la Cina di Xi Jinping) che l’Occidente sia in una fase di decadenza irreversibile e che sia necessario ridisegnare gli equilibri internazionali. Tuttavia, in questo particolare frangente Putin ha ottenuto il risultato opposto a quello sperato: pensava di dividerci e invece ha risvegliato  davvero l’unità dell’Occidente, il nostro amor proprio e la volontà di difendere la democrazia. La coesione fra Europa e Stati Uniti ha sorpreso tutti, con la netta presa di posizione del Presidente USA Biden, dopo l’innegabile  periodo di affievolimento dei rapporti della precedente amministrazione Trump. Le sanzioni economiche nei confronti della Russia messe in campo sono senza precedenti e nell’Unione Europea iniziano a parlare in termini di  difesa con un esercito comune europeo e di una svolta energetica drastica per ridurre la dipendenza insostenibile di gas dalla Russia. Insomma, se si guarda in positivo, l’aggressione  all’Ucraina è stata l’inizio di una presa di coscienza, perfino di una rinascita.

Ad ogni buon conto, per comprendere meglio la situazione forse un po’ di ripasso di Storia non farebbe male, a cominciare da Jalta.

La Conferenza di Vertice tenutosi nell’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale, dal 4 all’11 febbraio 1945, a Jalta, in Crimea, tra i leader delle tre potenze alleate, W. Churchill (Gran Bretagna), F.D. Roosevelt (Stati Uniti) e I. Stalin (Russia), per discutere, in base al principio delle cosiddette sfere d’influenza, i piani per la conclusione della guerra contro le potenze dell’Asse, l’occupazione e la spartizione della Germania e il successivo assetto dell’Europa. In particolare, furono previsti lo smembramento della Germania in Stati indipendenti e lo spostamento a Ovest delle frontiere della Polonia e si toccarono i problemi della frontiera italiana con l’Austria e la Jugoslavia.

Si diffuse così l’espressione “cortina di ferro”, tradotta dall’inglese iron curtain, dopo il discorso del premier inglese W. Churchill del marzo 1946, per indicare la separazione, territoriale e ideologica, esistente fra i paesi dell’Europa orientale e quelli dell’Europa occidentale.

Ed anche l’espressione “guerra fredda” per indicare la contrapposizione politica, ideologica e militare che venne a crearsi intorno al 1947, tra le due potenze principali emerse vincitrici dalla Seconda Guerra Mondiale: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Ben presto divenne più concreta la divisione dell’Europa in sfere di influenza e la formazione di blocchi internazionali tra loro ostili, denominati comunemente come Occidente (gli Stati Uniti e gli altri membri della NATO),  Oriente (l’Unione Sovietica e i membri del Patto di Varsavia) e in seguito il terzo blocco dei Paesi non allineati.

Si trattò sostanzialmente della contrapposizione tra due grandi ideologie politico-economiche: la democrazia-capitalista da una parte e il socialismo reale-comunismo dall’altro.

Questa contrapposizione influenzò fortemente per decenni l’opinione pubblica mondiale ed ebbe il suo concreto emblema nella divisione della Germania, in Germania Ovest e Germania Est, con la città di Berlino divisa materialmente da un muro: il Muro di Berlino, figura retorica della cortina di ferro, volta a definire la netta distinzione territoriale e ideologica che si era venuta a creare tra i due blocchi socioeconomici dominanti. Un lungo sistema di recinzione in calcestruzzo armato, lungo 155 km e alto 3,6 metri, che circondò dal 1961 la parte occidentale della città di Berlino.

Furono anni difficili per le popolazioni orientali assoggettate all’influenza sovietica, nel mentre quelle occidentali progredivano notevolmente in economia e in democrazia. Il malcontento incalzava e i tentativi di rivolta venivano prontamente sedati dalle truppe sovietiche (dissidenti incarcerati, ecc.), finché i tempi maturarono per  una svolta democratica.

Il 9 novembre 1989, dopo diverse settimane di disordini pubblici, il governo della Germania Est annunciò finalmente che le visite (ai parenti) in Germania Ovest e a Berlino Ovest sarebbero state permesse: molti cittadini della Germania Est si arrampicarono sul muro e lo superarono per raggiungere gli abitanti della Germania Ovest dall’altro lato in un’atmosfera festosa.

Cominciò così la demolizione del muro con picconi e a mani nude e durante le settimane successive piccole parti del muro furono portate via dalla folla e dai cercatori di souvenir.

In seguito furono  usate attrezzature industriali per abbattere tutto quello che del muro era rimasto.

La caduta del Muro di Berlino aprì la strada per la riunificazione tedesca, che fu formalmente conclusa il 3 ottobre 1990.

Il fermento aveva indubbiamente contagiato anche gli altri Paesi orientali oltre cortina ed anche la stessa Russia, che cercò di correre ai ripari; ma il vento della democrazia soffiava oramai in maniera inarrestabile.

Il colpo di stato, fallito, che fece crollare l’Unione Sovietica fu tentato tra il 19 e il 21 agosto 1991, ben trent’anni fa, contro l’allora presidente Gorbaciov, ma non andò secondo i piani dei golpisti.

Il 18 agosto del 1991 Michail Gorbaciov, allora segretario generale del Partito Comunista sovietico e presidente dell’URSS, si trovava in vacanza con la famiglia a Foros, in Crimea. Nello stesso giorno, a Mosca, politici conservatori, vertici del KGB (i servizi segreti) e militari approfittarono della sua assenza e diedero inizio alle manovre di un colpo di stato progettato per conservare l’esistenza dell’Unione Sovietica, ma ottennero l’effetto contrario.

Da quando nel 1985 Gorbaciov era succeduto alla guida del Partito Comunista, si era imposto di cambiare le politiche e l’immagine dell’apparato statale. L’Unione Sovietica era finita in uno stato di immobilismo e da decenni era rappresentata da leader anziani e stanchi, come Leonid Brezhnev, Yuri Andropov e Konstantin Cernenko. A 53 anni, Gorbaciov divenne invece un valido interlocutore per l’Occidente e presentò un esteso piano di riforme per tentare di smuovere il paese.

Con i termini glasnostperestrojka e uskorenie  – diventati emblematici di quel periodo – Gorbaciov tentò di rendere l’Unione Sovietica più trasparente, moderna e competitiva: in sostanza cercava di avvicinarsi al mercato e alla comunità internazionale, come testimoniò l’importante accordo sul controllo dagli armamenti firmato al suo secondo anno in carica con gli Stati Uniti (Ronald Regan Presidente USA).

Il 18 agosto 1991, però, alla vigilia della firma di un trattato che avrebbe avvicinato l’istituzione di una Comunità di stati sovietici indipendenti, meno centralizzata rispetto al regime allora esistente, Gorbaciov venne isolato con la famiglia nella sua dacia di Foros. La residenza fu tagliata fuori dalle comunicazioni e i golpisti ne presero il controllo: chiesero a Gorbaciov di dichiarare lo stato di emergenza e di dimettersi, ma egli si rifiutò.

I carri armati usati per cercare di occupare militarmente Mosca vennero però letteralmente fermati da migliaia di persone scese in strada per bloccarli. Ci furono manifestazioni anche in altre grandi città russe, che i golpisti non vollero bloccare per timore delle pesanti conseguenze che gli interventi contro la popolazione avrebbero potuto provocare. Con Gorbaciov isolato in Crimea, chi sfruttò il momento per ottenere consensi fu Boris Eltsin, all’epoca Presidente della Repubblica Russa.

Eltsin e Gorbaciov erano avversari. Secondo il primo, l’economia di quegli anni era sempre più in crisi, le riforme non avevano portato nessun tipo di sollievo, e anzi, avevano peggiorato i problemi finanziari e la questione delle autonomie degli stati sovietici. Gorbaciov invece non si fidava di Eltsin, e successivamente si pentì di non averlo allontanato per tempo dai suoi incarichi.

Il colpo di stato sorprese anche lo stesso Eltsin, che però il 19 agosto si riunì con i suoi collaboratori e scrisse una dichiarazione per condannare il colpo di stato “anticostituzionale e reazionario” e con la quale invitava l’esercito a disertare e i cittadini a organizzarsi in uno sciopero generale. Raggiunse successivamente il Parlamento di Mosca dalla sua residenza fuori città, e una volta arrivato decise di uscire in piazza: una volta fuori, con grande preoccupazione delle sue guardie del corpo, saltò su un carro armato e si mise a leggere la dichiarazione. In quel momento in piazza c’erano 30mila persone e iniziarono ad applaudire. I flash delle macchine fotografiche iniziarono a lampeggiare. Il giorno dopo la foto di Eltsin sul carro armato era sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo: Eltsin e il popolo russo avevano vinto.

Gorbaciov tornò a Mosca nella notte tra il 21 e il 22 agosto. Il colpo di stato era fallito ma aveva in qualche modo accelerato la disgregazione dell’Unione Sovietica, visti i risultati. Gli stati baltici avevano già dichiarato la propria indipendenza e Eltsin, con il favore del momento, spingeva per l’istituzione di una Federazione russa indipendente. Nelle settimane successive il Parlamento di Mosca (la Duma di Stato) abolì il Partito Comunista.

L’8 dicembre dello stesso anno Russia, Ucraina e Bielorussia si riunirono in segreto senza Gorbaciov in una foresta al confine tra Bielorussia e Polonia per pianificare la disgregazione dell’Unione Sovietica. Pochi giorni dopo, il 26 dicembre, Eltsin e i capi di stato di tutte le altre Repubbliche sovietiche si riunirono ad Almaty, in Kazakistan, per completare la separazione, sancendo di fatto la fine dell’URSS. Gorbaciov, che il 24 agosto si era già dimesso da segretario del Partito Comunista, si dimise anche da presidente dell’Unione Sovietica, di cui fu l’ottavo e ultimo leader.

Il presidente Boris Eltsin ha poi rimosso il Capo del Governo in carica Sergej Stepashin nominando Vladimir Putin nuovo premier e, durante il messaggio televisivo alla nazione, tenuto in occasione del terzo anniversario del suo secondo insediamento, ha indicato lo stesso Putin come suo candidato alle elezioni presidenziali dell’anno successivo.

Nel frattempo, gli Stati legati all’ex Unione Sovietica dal Patto di Varsavia hanno chiesto di entrare a far parte dell’Unione Europea e della Nato (Alleanza Atlantica), compresi gli Stati dell’ex Jugoslavia, dopo i cruenti eventi bellici – seguiti alla morte del Maresciallo Tito – che hanno portato all’attuale assetto territoriale e politico. Alcuni di essi sono già entrati e per altri le procedure sono ancora in corso per via della formale verifica del possesso dei requisiti richiesti, come per l’Ucraina.

Inevitabilmente, l’espansione a Est dell’UE e soprattutto della Nato è stata ed è tuttora una fonte di preoccupazione per la Russia, che – a differenza dei tempi della guerra fredda – si trova ora a confinare direttamente con paesi legati a un’alleanza militare (la NATO) nata proprio per contrapporsi a Mosca; e l’Ucraina, guarda caso, è uno degli Stati cuscinetto tra la Russia e i Paesi dell’UE che aderiscono alla NATO.

La Russia è passata quindi alle vie di fatto, tant’è che prima dell’Ucraina ha occupato la Cecenia, la Georgia, la Crimea e già dal 2014 appoggia i movimenti separatisti degli ucraini/russofoni del Donbass che si sono autoproclamati Repubbliche popolari autonome  del Donetsk e del Luhansk, che Putin ha naturalmente già riconosciuto (un teatro di guerra civile che dal 2014 ad oggi ha fatto 14mila morti).

E vi è anche il sospetto che Putin non voglia fermarsi all’Ucraina, ma che pensi anche alla riconquista delle Repubbliche Baltiche ed anche degli Stati dell’ex Jugoslavia.

E pensare che a cominciare da Gorbaciov e poi con Eltsin, fino al Putin di qualche anno fa, i rapporti con i Paesi occidentali avevano assunto un clima di distensione e di grande collaborazione, con la presenza della Russia nel G7 (Il Gruppo dei 7 – abbreviato in G7 –  che riunisce i Capi di Stato e di Governo delle 7 nazioni più industrializzate del mondo. Ne fanno parte: Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti. Nella sua forma allargata alla Russia, il gruppo prendeva il nome di G8),  e nel G20 (Il Gruppo dei 20 – G20 – che è un forum creato nel 1999 dopo una serie di crisi finanziarie, allo scopo di favorire il dialogo e la concertazione tra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo. Ne fanno parte: Arabia Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, Giappone, India, Indonesia, Italia, Messico, Regno Unito, Russia [ora non più], Stati Uniti, Sud Africa, Sud Corea, Turchia, Unione Europea). I rappresentanti dei Paesi membri sono i Ministri delle Finanze e i direttori o governatori delle banche centrali).

Al momento, nonostante i combattimenti siano ancora in corso, continuano le trattative tra la Russia e l’Ucraina per la ricerca di una via d’uscita onorevole per entrambe le parti in conflitto, con gli incessanti appelli al cessate il fuoco da parte di importanti autorità religiose, della politica e della società civile di tutto il mondo.

L’Italia ripudia la guerra!

Articolo 11 della nostra Costituzione Italiana:

“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Per la guerra in Ucraina, abbiamo condiviso e sottoscritto le Sanzioni inflitte alla Russia e, d’intesa con gli altri Stati, stiamo sostenendo il popolo ucraino con aiuti di natura economica e con equipaggiamenti militari per la loro difesa in armi;  partecipiamo inoltre alla costituzione e realizzazione di cordoni umanitari per l’accoglienza e l’inserimento nel nostro Paese dei rifugiati civili che scappano dalla guerra, con uno spirito di solidarietà esemplare.

Confidiamo nel buon senso dei popoli in guerra e auspichiamo la pace di tutti i popoli della terra.


16
Gen

Don Tonino Bello Venerabile

Ieri sera, sabato 15 gennaio 2022,  alle ore 18, nella Cattedrale di Molfetta, nel corso della Messa solenne celebrata dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi della Santa Sede, è stata data formale lettura del decreto di venerabilità di don Tonino Bello.

Evviva: ancora un figlio della terra pugliese agli onori degli altari … in cammino verso le successive tappe per divenire Beato e, ci auguriamo di cuore, presto anche Santo.

Ho assistito con molta devozione alla  straordinaria ed esaltante cerimonia religiosa  in diretta televisiva di Tele Padre Pio, non solo come corregionale ma soprattutto per reverenziale rispetto verso un nostro contemporaneo, un sacerdote, un vescovo che si è distinto durante la propria vita terrena per le sue doti di eccezionale virtù, in un’epoca complicata e  difficile come questa.

Antonio Bello, meglio conosciuto come don Tonino è nato ad Alessano (Lecce) il 18 marzo 1935 ed è morto a Molfetta il 20 aprile 1993.

Figlio di una famiglia del Salento, trascorse l’infanzia in Alessano in provincia di Lecce, un paese prevalentemente a economia agricola.

Dopo gli studi presso i seminari di Ugento e di Molfetta, don Tonino venne ordinato presbitero l’8 dicembre 1957 e incardinato nella diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca. Due anni dopo conseguì la licenza in Sacra Teologia presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale a Venegono Inferiore e nel 1965 discusse presso la Pontificia Universityà Lateranense la tesi dottorale intitolata I congressi eucaristici e i loro significati teologici e pastorali.

Nel frattempo, gli era stata affidata la formazione dei giovani presso il seminario diocesano di Ugento, del quale fu per 22 anni vice-rettore. Dal 1969 fu anche assistente dell’Azione Cattolica e quindi vicario episcopalee per la pastorale diocesana.

Nel 1978 il vescovo Michele Mincuzzi lo nominò amministratore della parrocchia del Sacro Cuore di Ugento, e l’anno successivo parroco della Chiesa Matrice di Tricase. Qui avrebbe mostrato una particolare attenzione nei confronti degli indigenti, sia con l’istituzione della Caritass sia con la promozione di un osservatorio delle povertà.

Il 10 agosto 1982 fu nominato vescovo delle diocesi di Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi e, il 30 settembre dello stesso anno, vescovo della diocesi di Ruvo. Ricevette l’ordinazione episcopale il 30 ottobre 1982 dalle mani di monsignor Michele Minguzzi, arcivescovo di Lecce e già vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, co-consacranti il vescovo Aldo Garzia, che aveva lasciato pochi mesi prima la cattedra di Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi, e l’arcivescovo Mario Migliettaa, della diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca.

Sin dagli esordi, il ministero episcopale fu caratterizzato dalla rinuncia a quelli che considerava segni di potere (per questa ragione si faceva chiamare semplicemente don Tonino) e da una costante attenzione agli ultimi: promosse la costituzione di gruppi Caritas in tutte le parrocchie della diocesi, fondò una comunità per la cura delle tossicodipendenzee, lasciò sempre aperti gli uffici dell’episcopio per chiunque volesse parlargli e spesso anche per i bisognosi che chiedevano di passarvi la notte. Sua la definizione di “Chiesa del grembiule” per indicare la necessità di farsi umili e contemporaneamente agire sulle cause dell’emarginazione.

Fu terziario francescano.

Nel 1985 venne indicato dalla presidenza della Conferenza Episcopale Italiana a succedere a monsignor Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, nel ruolo di guida di Pax Christi, il movimento cattolico internazionale per la pacee. In questa veste si ricordano diversi duri interventi: tra i più significativi quelli contro il potenziamento dei poli militari di Crotone e Gioia del Colle, e contro l’intervento bellico nella Guerra del Golfoo, quando manifestò un’opposizione così radicale da attirarsi l’accusa di istigare alla diserzione.

A seguito dell’unificazione delle diocesi di Molfetta, Giovinazzo, Terlizzi e Ruvo, disposta dalla Congregazione per i Vescovi il 30 settembre 1986, viene nominato primo vescovo della nuovaa circoscrizione ecclesiastica pugliese.

Nel settembre 1990 fondò a Molfetta, coadiuvato dal movimento Pax Christi, la rivista mensile Mosaico di Pacee.

Tra il 1990 e il 1992 ha scritto alcuni articoli sul quotidiano il manifesto.

Benché già operato di tumore allo stomaco, il 7 dicembre 1992 partì insieme a circa cinquecento volontari da Ancona verso la costa dalmata dalla quale iniziò una marcia a piedi che lo avrebbe condotto dentro la città di Sarajevo, da diversi mesi sotto assedio serbo a causa della guerra civile. L’arrivo nella città assediata, tenuta sotto tiro da cecchinii serbi che potevano rappresentare un pericolo per i manifestanti, fu caratterizzato da maltempo e nebbia. Don Tonino parlò di “nebbia della Madonna” (celebrata, appunto, in data 8 dicembre).

Morì a Molfetta il 20 aprile 1993, e l’anno successivo gli fu conferito il Premio Nazionale Cultura della Pace alla memoriaa.

Il 27 novembre 2007 la Congregazione delle cause dei santi ne ha avviato il processo di beatificazione. Il 30 aprile 2010 si è tenuta la prima seduta pubblica nella cattedrale di Molfettaa alla presenza di autorità religiose e civili.

Il 25 aprile 2014 il presidente della CEI Angelo Bagnasco ha inaugurato ad Alessanoo la “Casa della Convivialità” a lui dedicata.

Il 18 marzo 2015 i frati minori cappuccini, nel convento di Giovinazzoo, in provincia di Bari, hanno inaugurato, alla presenza di autorità civili e religiose e del fratello di don Tonino, Marcello, una statua raffigurante don Tonino.

Il 20 aprile 2018 nel giorno del suo 25º anniversario di morte, papa Francesco si è recato alla sua tomba per poi celebrare a Molfetta una Messa.

Il 25 novembre 2021 papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto sulle virtù eroiche; è diventato così Venerabile.

Ecco, qui di seguito, il commosso ricordo del presidente della Fondazione Giancarlo Piccinni (Avvenire del 15 gennaio 2022:

”Ha fatto camminare Gesù nelle strade delle nostre città.

 Venerabile oggi, ma da sempre venerato. Don Tonino mi emoziona, e non solo oggi, per quello che stiamo vivendo. Mi emozionano i ricordi, nitidi, di un passato condiviso, mi emoziona la prospettiva di un futuro, gravido di attese. Mi emoziona anche solo pronunciare il suo nome. La Chiesa oggi e tutti fedeli aspettano il riconoscimento di un miracolo per la proclamazione della beatificazione e poi della santità. Chi lo ha conosciuto sa che lui stesso è stato un miracolo!

Con Don Tonino Gesù di Nazaret è passato per le nostre strade, per le nostre case, per le nostre chiese. Siamo stati generati alla fede: per questo lo abbiamo sentito e lo sentiamo nostro padre. Siamo stati rapiti dalle sue parole, ma anche dai suoi silenzi. Perché anche nel silenzio ci ha parlato. Il silenzio è la lingua di Dio e delle persone sagge e don Tonino, come tutti i santi, ha profondamente amato il silenzio perché il silenzio dona uno sguardo nuovo su tutte le cose. Il silenzio genera sapienza. Ma ci mancano anche le sue parole! A scuola, in piazza, nei convegni, ma soprattutto in chiesa: qui raggiungevano significati altissimi perché parlare in un quadro liturgico non ha lo stesso valore che parlare in un altro contesto: «È collocarsi in un luogo dove affluiscono i silenziosi apporti sapienziali dell’assemblea, che in quel momento non è un pubblico, è un soggetto attivo e creativo».

Gli apporti sapienziali dell’assemblea, del popolo, del suo popolo, sono stati sempre preziosi per l’amato pastore. «Grazie Chiesa di Alessano, che mi hai fatto entrare nell’anima il senso del mistero con la tua religiosità popolare», così disse nella sua prima omelia da vescovo. Per don Tonino il popolo è «soggetto di riflessione teologica» e il rapporto tra i saperi del popolo e quelli dei teologi non deve essere unidirezionale, devono invece necessariamente integrarsi. Ognuno di questi saperi ha una sua funzione insostituibile perché specifici, diversi, ne aveva tanta consapevolezza don Tonino che volle ed attuò una pastorale che non solo era per il popolo, ma soprattutto partiva dal popolo.

Quella del popolo è stata sempre una categoria privilegiata per don Tonino e all’interno di essa in particolare i poveri: per la loro fragilità, per la loro universalità, per la loro naturale appartenenza al Vangelo. Don Tonino ha amato il popolo e i poveri al punto tale da superare ogni barriera sino ad ospitarli prima nel suo cuore poi anche nella sua casa. L’ospitalità non è stata vissuta come un rimedio da offrire per risolvere un’emergenza sociale ma come una forma di elaborazione della teologia richiesta dai segni dei tempi che viviamo, una categoria eucaristica ed ermeneutica. Nessuno è stato straniero ai suoi occhi! Aveva intuito la centralità di questo problema, prima che altri affermassero che «il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo», don Tonino aveva già con i fatti superato l’idea dello straniero e invitato il suo popolo a passare dalla ostilità alla ospitalità!

Forte è il fascino che questo pastore ha esercitato ed esercita ancora oggi nella Chiesa e nel mondo. Oggi celebriamo la sua venerabilità: il popolo lo ha sempre venerato! Non solo nella sua terra, ma anche e soprattutto lontano dalla sua terra. Infatti non possiamo dimenticare la sua appartenenza e la sua anima salentina ma è giusto al tempo stesso sottolineare la portata universale del suo messaggio, al punto tale che se ci chiedessimo a chi appartiene oggi il profeta dovremmo dire: a Dio e a tutti!”.

Alla imponente cerimonia di ieri sera nella diocesi di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi è seguita oggi alle ore 9,30 la celebrazione di una Messa solenne nella chiesa collegiata Santissimo Salvatore ad Alessano, paese natale di don Tonino Bello, presieduta dallo stesso cardinale Marcello Semeraro ed in serata, alle ore 17,30 sarà il vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, Vito Angiuli a presiedere la Messa celebrata in Cattedrale a Ugento.


Foto di repertorio e informazioni tratte da siti Internet

12
Nov

Tarranòve tra gli anni 40 e 60 del secolo scorso – Storie di guerra e di vita che continua

Documenti, foto, corrispondenza, attestati di riconoscimento al merito, fogli matricolari, medaglie e carteggi vari; una documentazione che parla di un periodo storico importante per la nostra nazione ma anche per il mondo intero, quello del secondo conflitto mondiale. Ed ancora, appunti con specifiche ricerche eseguite intorno alla tragica fine del Cacciatorpediniere italiano “Espero”, affondato sulla rotta da Taranto per Tobruk nel 1940, nel quale trovarono la morte tanti giovani connazionali tra cui anche un sottufficiale terranovese della Regia Marina Italiana.

Materiale sufficiente per un libro di memorie di fatti, episodi, avvenimenti riguardanti la Seconda Guerra Mondiale vissuta e combattuta anche da persone di un paesino in terra di Capitanata, ma pure di ricordi di infanzia e prima giovinezza, trascorse in spensieratezza a Tarranòve, Poggio Imperiale, in provincia di Foggia, nell’immediato dopoguerra, da persone ormai avanti con gli anni, che la guerra non l’hanno affatto veduta, ma che sicuramente ne hanno subito le conseguenze, in un  Paese ove regnavano macerie, reduci, vedove, orfani, mutilati e mutilatini, prima ancora che la luce si rischiarisse con l’avvento del cosiddetto boom economico che ha visto poi  l’Italia rinascere fino a raggiungere livelli di benessere apprezzabili.

L’occasione per raccontare, soprattutto ai più giovani  perché abbiano memoria del passato, alcune storie che si intrecciano tra loro;  storie che parlano di luoghi e persone, ma che esprimono concetti di portata universale per la loro trasversalità di relazione, svelando il naturale trasporto affettivo dell’uomo alla ricerca di un punto di riferimento che gli dia sicurezza: la famiglia, l’appartenenza, l’amore per la propria Terra.

E prevale la passione per la cultura, la storia, le tradizioni; un sentimento che deve dimorare sempre ad un livello più elevato e nobile rispetto al comune vedere delle cose e, dunque, al di sopra di ogni sospetto di autoreferenzialità, piaggeria o autocompiacimento, per contribuire a mantenere nel tempo gli occhi puntati sul passato, al fine di comprenderne meglio tutti gli aspetti, quelli belli e quelli brutti, quelli piacevoli e quelli meno piacevoli, cercando di costruire tutti assieme, specialmente con le nuove generazioni, un futuro migliore, scevro per quanto possibile degli errori del passato.

Lorenzo Bove
Tarranòve
tra gli anni 40 e 60 del secolo scorso
Storie di guerra e di vita che continua
Edizioni del Poggio
2021

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27
Ago

Termoli: “ A Rejecelle”, il vicolo più stretto d’Italia e d’Europa

In visita nel Borgo Antico diTermoli, in Molise, ci si imbatte nel vicolo “Rejecelle”, considerato il più stretto d’Italia e d’Europa. La sua larghezza, nel punto più ridotto, è di soli 34 centimetri.

Tra i luoghi più singolari e caratteristici della città, l’esclusiva stradina è stata probabilmente concepita per permettere agli abitanti di percorrerla in caso di necessità, come guerre o carestie, evitando così le strade di comunicazione più importanti, tra cui via Duomo e i bastioni di via Montecastello, regolarmente presidiate dai soldati. La sua costruzione risale al primo agglomerato urbano del paese vecchio, mentre la denominazione dialettale “Rejecelle”, ossia “via stretta”, deriva dal termine francese “Rue” (strada), con cui venne battezzato il vicolo nel 1799.

“A Rejecelle”chiamata così affettuosamente dai termolesi, è dunque la viuzza più contenuta di Termoli; si trova nel cuore del Borgo Antico ed è una sorpresa, oltre che una piacevole scoperta, trovarsela davanti, attraversarla fino in fondo ed esplorare i segreti dell’antico borgo marinaro.

L’esclusiva stradina molisana ha strappato il primato alla marchigiana Ripatransone, sita in provincia di Ascoli Piceno, per una questione di soli due centimetri.

La pavimentazione attuale, a schiena d’asino, è formata da basole in pietra bianca proveniente dalle cave di Apricena – Poggio Imperiale ed originariamente era fatta con ciottoli e pietre grezze. Le pareti che la delimitano si presentano ancora integre, a parte i punti dove i muri sono stati riempiti con intonaco.

Si racconta che, anticamente, i plebei dovevano cedere il passo alla nobiltà e quando nella viuzza si incontravano due gentiluomini, uno di fronte all’altro, dovendo stabilire chi dei due dovesse procedere in avanti, e data l’impossibilità di girarsi, essi ricorrevano a regole molto rigide: il meno nobile indietreggiava e lasciava il passo a quello più altolocato. In caso di pari lignaggio, sorgevano dispute che a volte conducevano al duello tra i due contendenti per lavare l’onta dell’affronto.

Oggi, invece, soprattutto i turisti, ci vanno per fare la prova pancia … poiché nella strettoia ci passano solo le persone magre!

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Termoli, “a Rejecelle”

Dal Libro ”25°Festival internazionale del folklore” (http://www.prolocotermoli.it/a-rejecelle.html):

“’A Rejecelle’, piccola stradina situata nel cuore del borgo antico di Termoli, ricavata tra i fabbricati, contrassegnati dai numeri civici 6 dal lato vico 2° castello e dai  numeri civici 21 e 38 del lato di via Campolieti Nicola Maria e via Salvatore Marinucci, è considerata non a torto uno dei luoghi più singolari e caratteristici della città di Termoli.

La sua costruzione risale certamente al primo agglomerato urbano del Borgo, come si evince dal materiale impiegato per la costruzione delle pareti dei due fabbricati che la delimitano e per il materiale posto a copertura: ciottoli, pietre arenarie, mattoni, travi….

La stradina, nel corso dei secoli, ha subito varie trasformazioni, specialmente nella parte superiore che doveva essere originariamente tutta coperta con tavole e tegole, sostenute da archetti di mattoni e travi in parte ancora visibili.

Sicuramente fu realizzata per far muovere indisturbati gli abitanti del borgo, specialmente in caso di necessità derivante da eventi di varia natura, come guerre, dominazioni e carestie, evitando così il percorso delle strade di comunicazione più importanti, quali l’attuale via Federico 2° di Svevia, via Duomo, via San Pietro e i bastioni di via Montecastello, regolarmente presidiate  dai soldati.

Fu con la denominazione francese del 1799 che si cominciò ad indicarla con l’attuale nome: infatti i francesi la chiamavano “Rue” che, nella loro lingua significa Strada e solo successivamente il termine, con il passare del tempo fu distorto dai termolesi con il maccheronico francesismo “Rejecelle”  ,  cioè strada piccola e stretta. E’ lunga appena mt. 7,88 è coperta per mt. 3,30 dal lato di via Campolieti, mentre la restante parte è a cielo aperto ed ha le pareti storte e curvilinee, che si restringono nella parte superiore, rispetto alla base, specialmente nella zona centrale. L’ingresso di via Campolieti si presenta con un apertura a rientrare, alta mt. 1,77 con la parte superiore completamente chiusa, riempita con pietre, mattoni  e calce ed è sorretta da tavole e travi, unitamente ad un manufatto di mattoni poco visibile. La larghezza alla base è di mt. 0.59 mentre al centro misura mt. 0,50, la parte al centro della strada ha la base di mt. 0,60, quella di centro mt. 0,40 con punti a salire a mt. 1,80 da terra, di mt. 0,34 e 0,35 per terminare, nella parte  superiore, con una larghezza di molto inferiore  a mt. 0,30. L’ingresso  di vico 2° castello ha un’apertura alta mt. 2,52, sormontata da un muro di mattoni e pietre di mt 1,40, sostenuto da un archetto di mattoni; a poca distanza dall’archetto d’ingresso c’è un primo e un secondo manufatto in mattoni che serviva a sorreggere la copertura e a tenere uniti i muri perimetrali della strada. Vicino alle due pareti d’ingresso di vico 2° castello ci sono due aperture di mt. 0,25 x 0,30, realizzate abusivamente, evidentemente per arieggiare  i locali di due fabbricati adiacenti; inoltre al centro della strada e, precisamente sulla parete sinistra, si notano i resti di una canna fumaria che sbuca verso l’alto, chiusa alla base da un pezzo di tavola che a suo tempo raccordava la parete per poi rientrare nell’abitazione del civico 21 sicuramente un camino. La pavimentazione attuale,  a schiena d’asino, è formata da marmette di pietra bianca d’Apricena; originariamente era fatta da ciottoli e pietre. Sostanzialmente integre si presentano le pareti che la delimitano,  a parte i punti dove i muri sono stati riempiti con intonaco,  e nella parte dove si alza la canna fumaria dove sono state realizzate  le due piccole aperture; quello che preoccupa maggiormente è la parte che sorregge la copertura della strada con l’archetto  d’ingresso del lato vico 2° castello con manufatti di mattoni, tra i muri perimetrali, adibiti a sostegno delle abitazioni, poiché in mancanza di cura e di manutenzione si notano segni di indubbia staticità. Per le sue caratteristiche e le sue architettoniche ‘a Rejecelle’   rappresenta  un grande pregio artistico-culturale e un inestimabile valore storico-architettonico”.

Ma Termoli non è solo la “Rejecelle”; Termoli è una città veramente interessante e qualche anno fa, con precisione il 30 luglio 2011, pubblicai su questo stesso Sito/Blog www.paginedipoggio.com un articolo dal titolo “Termoli … mare, sole e il Borgo vecchio!”, alla pagina http://www.paginedipoggio.com/?p=3034, che riporto qui di seguito:

Termoli, la spiaggia

Termoli … mare, sole e il Borgo vecchio!

Una zuppa di pesce in uno dei suoi caratteristici ristoranti marinari o semplicemente una  passeggiata nei vicoli del Borgo vecchio tra locali e negozietti aperti fino a tardi, assaporando magari un gustoso gelato; questo (ed altro ancora) offre Termoli nelle sere d’estate, dopo una giornata di mare e di sole.

Termoli, veduta del Borgo Antico

Arroccato su un piccolo promontorio roccioso, il Borgo vecchio di Termoli, che molti dicono ricordi la forma di un cuore ed altri di un pugno, si protende verso il mare Adriatico, dove verso est si intravede, nelle giornate limpide, il profilo dell’arcipelago delle isole Tremiti, raggiungibili in motonave o in aliscafo dal porto di Termoli.

Il Borgo vecchio risale al V secolo: la città visse tra le mura che recintano il Borgo vecchio fino al 1847, quando re Ferdinando Il di Borbone autorizzò i termolesi a costruire fuori dalle mura.

Il Borgo appare come un intricato labirinto di stradine strette e tortuose, tra cui il celebre Vico II Castello [n.d.A.: in dialetto denominato “a Rejecelle”],  – tra i più stretti d’Europa – che si stringono attorno al Duomo (Cattedrale di San Basso patrono di Termoli), quasi a voler sfruttare ogni metro quadrato disponibile dell’esiguo spazio, ove l’azzurro del mare riempie di colore ogni suo scorcio.

La chiesa principale di Termoli è un insigne monumento di arte romanica con oltre 800 anni di storia, che ha mantenuto immutato nei secoli il suo splendore con i colori della pietra chiara con cui è stato costruito; ancora prima nello stesso posto sorgeva un’altra cattedrale piena di mosaici, presumibilmente costruita sulle rovine di un tempio romano.

Nel tempo, molte cose sono cambiate, soprattutto dopo che – ormai da diversi anni – è iniziato il recupero architettonico e la valorizzazione del Borgo vecchio, che appare oggi come uno scrigno in cui le casette rimodernate, ma (quasi) sempre in perfetto stile con l’originario impianto architettonico , custodiscono la storia di secoli.

Per entrare nel Borgo vecchio ci sono due ingressi, uno sul lato nord, ai piedi del Castello, e uno sul lato del porto, caratterizzato da una porta ad arco e dalla torretta del Belvedere dalla quale si ammira il panorama del porto gremito di colorate barche dondolanti e della spiaggia a sud di Termoli.

Dentro le mura del Borgo vecchio di Termoli le casette dei pescatori lasciano poco spazio alle stradine strette e attorcigliate, come si conviene a una cittadella fortificata che subiva l’assalto dei Turchi (e altri invasori) e doveva fare di ogni angolo un punto di difesa e di ogni strettoia un mortale agguato.

Fra scorci incantevoli e sprazzi di mare che guizzano sullo sfondo di un vicoletto, di tanto in tanto si schiudono piccole e graziose piazzette.

Nel dedalo di viuzze e stradine si apre inaspettata, quasi a sorpresa, una piazza più ampia, recintata da case basse colorate di bianco e d’ocra, e lì ad un angolo la Cattedrale di San Basso.

Continuando a passeggiare lungo il perimetro della cinta muraria si arriva al Faro che dialoga in silenzio con la luce del corrispondente Faro di Punta Penna sul promontorio di Vasto; a questo punto del percorso si staglia netta l’immagine del Castello Svevo, dal suo ingresso fino alla cima dove si trova la torretta meteorologica costruita dall’Aeronautica militare.

Il Castello caratterizza con il suo profilo l’immagine del Borgo vecchio. La sua struttura è semplice ed è costituita da una base tronco-piramidale munita di torrette cilindriche agli spigoli e sormontata da una torre parallelepipeda di minori dimensioni. Sul lato nord è visibile l’avancorpo dell’antico ponte levatoio, che fungeva da ingresso. La semplicità della struttura e le sue caratteristiche difensive fanno pensare che sia stato costruito in epoca normanna (XI secolo), nel luogo ove già esisteva un torrione di epoca longobarda.

Il Castello è comunemente definito Svevo, probabilmente in seguito alla ristrutturazione, databile intorno al 1247, che Federico II fece eseguire, come testimonia una lapide ritrovata all’interno di una delle torrette angolari. Tale intervento sarebbe stato attuato nel 1240, successivamente alla distruzione delle difese esistenti per opera della flotta veneziana, alleata di Papa Gregorio IX.

Nel corso dei secoli il Castello ha subito varie modifiche soprattutto dopo l’avvento delle armi da fuoco. Durante i recenti restauri sono stati ritrovati dei graffiti databili al secolo XVI, ed alcuni disegni al carbone lasciati sulle pareti della cisterna inferiore nel periodo in cui questa era adibita a carcere borbonico.

Dal 1885 il Castello di Termoli è stato annoverato tra i monumenti nazionali e designato quale museo storico regionale.

La festa di San Basso patrono di Termoli

La festa religiosa di San Basso ricorre il 5 dicembre, giorno in cui nella cattedrale romanica, dove sono conservate le reliquie, il vescovo celebra una solenne Messa in onore del Santo alla presenza di autorità, associazioni, marinai e gente devota. Ma i festeggiamenti veri e propri si tengono in estate tra il 3 ed il 4 agosto. La mattina del 3 agosto, dopo la S. Messa in cattedrale, si procede con la tipica e suggestiva “processione per mare”, durante la quale la statua di San Basso viene portata a bordo del motopeschereccio della flotta termolese, estratto a sorte giorni prima, addobbato per l’occasione. Le altre imbarcazioni seguono l’imbarcazione del Santo cariche di gente, formando così un corteo molto suggestivo. A metà percorso, dal battello col Santo viene gettata in acqua una corona di fiori in onore del protettore ed in segno di legame con il mare: un’antica leggenda narra, infatti, che furono proprio dei pescatori termolesi a ritrovare a largo il sarcofago con le reliquie del vescovo San Basso. A mezzogiorno circa il corteo rientra in porto e la festa prosegue in serata quando la statua viene portata a spalla in processione per le stradine del Borgo fino al mercato ittico dove viene venerata fino al mattino successivo. Alle 6 del mattino del 4 agosto, dopo la veglia notturna, viene celebrata una Messa dinanzi allo stesso mercato che conclude la permanenza della statua del santo negli ambienti dei marinai. La sera alle 19,00 viene celebrata un’altra Messa, stavolta nella piazza antistante la Cattedrale, e a seguire l’ultima processione, la più partecipata, stavolta per le vie cittadine. La festa prosegue poi tra bancarelle, noccioline, giostre e gli immancabili spettacolari fuochi pirotecnici che salutano rimandando l’appuntamento all’anno successivo.


15
Lug

Al via il Green Pass

Green Pass (1) per accedere ad aerei, treni, cinema, ristoranti, bar, ecc.

L’annuncio del Presidente francese Macron dei giorni scorsi ha fatto schizzare di oltre due milioni in Francia il numero delle prenotazioni per farsi vaccinare.

E, nel nostro Paese, favorevoli o contrari?

E’ costituzionale o incostituzionale?

Si è aperto  anche in Italia il dibattito che, come sempre, riempie spazi televisivi, giornali, reti sociali, salotti, piazze, spiagge, navi da crociera, stadi di calcio, cinema, teatri, ristoranti, discoteche, bar, eccetera, con argomentazioni più disparate, senza mai venirne a capo e soprattutto ributtando il tutto in caciara, ma anche in politica (evidentemente ai soli fini di rendita elettorale), cosicché la Lega di Salvini e Fratelli d’Italia della Meloni definiscono aberrante tale ipotesi, mentre tutti gli altri –  in maniera ondivaga – si muovono in ordine sparso secondo come gira il vento.

Oltre quattromilioni di morti nel mondo e quasi centotrentamila solo in Italia rappresentano cifre da capogiro, e l’insorgenza di continue varianti che subdolamente  aggrediscono il genere umano in questa guerra senza frontiere, non ci lascia scampo: l’unica arma di difesa oggi disponibile, grazie all’immenso sforzo della Comunità scientifica, è il vaccino anti Covid-19. La Comunità scientifica che in soli otto mesi è riuscita a bruciare le tappe, ma anche grazie agli Stati che hanno messo in piedi una potente macchina logistica per la distribuzione e l’inoculazione del prodotto.

Come non mai, al netto delle prime, inevitabili complicazioni iniziali, è partito un sistema di prenotazione di una semplicità esemplare, Centri vaccinali organizzati alla perfezione, per ciascuno un medico a disposizione per il triage preventivo nel corso del quale rappresentare il proprio stato di salute e ricevere indicazioni qualificate circa il vaccino che verrà iniettato, rilascio immediato di certificazione con contestuale fissazione della data, ora e luogo per la seconda dose, fatta la quale ti arriva sul telefonino il Codice per scaricare il tuo “Green Pass”.

Su Marte?

No … qui da noi … in Italia!

E, allora, dov’è il problema?

Fake news e controinformazioni di ogni genere minano costantemente il faticoso lavoro degli scienziati, medici, operatori, volontari, ecc., mettendo i bastoni tra le ruote per scoraggiare la gente a vaccinarsi, ostacolando  o comunque rallentando i processi finalizzati al raggiungimento della cosiddetta “immunità di gregge”.

Un interessante articolo dal titolo, che riporto testualmente, “Oggi ‘raggelante’, nel 2018 ‘una conquista importante’: Meloni cambia idea sulla vaccinazione obbligatoria”, è stato pubblicato ieri su Huffington Post. Nell’articolo viene riportata anche la (vivace) reazione del noto virologo Roberto Burioni: “Meloni vuole garantire al virus la libertà di ucciderci e rovinarci la vita”, il quale ricorda altresì alla leader di FdI che “la prima vaccinazione moderna obbligatoria in Italia risale al 1939”. E, della Meloni, vengono riportati integralmente sia il Twitter del 2018  che quello dell’altro ieri.

“I vaccini sono una delle conquiste più importanti nella storia della medicina. Le vaccinazioni obbligatorie sono lo strumento che la Comunità scientifica ci consiglia per debellare patologie solo apparentemente sconfitte per sempre”. Era il 2018 e sono passati solo due anni, ma l’opinione di Meloni sulla vaccinazione obbligatoria è cambiata radicalmente. 

“L’idea di utilizzare il Green Pass per poter partecipare alla vita sociale è raggelante, è l’ultimo passo verso la realizzazione di una società orwelliana” ha scritto la leader di FdI su Twitter ieri l’altro, scagliandosi contro la decisione del presidente francese Macron di impedire l’ingresso nei locali al chiuso, agli eventi e sui mezzi pubblici alle persone che rifiutano di vaccinarsi e che quindi non possiedono il Green Pass, definendo la decisione di Macron “una follia anticostituzionale che Fratelli d’Italia respinge con forza”. Meloni ha poi spiegato che la vaccinazione deve avere a che fare con la libertà individuale, che per il suo partito è “sacra e inviolabile”. 

Eppure nel post di due anni prima Meloni spendeva parole d’elogio nei confronti della vaccinazione obbligatoria. E anzi, sottolineava l’importanza di non fornire messaggi contraddittori su questo aspetto. “Lanciare messaggi confusi e contraddittori, con il rischio di alimentare paure e notizie false, è un errore che la politica non deve commettere. La salute degli italiani, e in particolare dei nostri figli, non è argomento sul quale dividersi o dare giudizi sommari” scriveva nel post. 

È subito arrivata la reazione critica di Roberto Burioni alle parole di Meloni, il quale in un post sempre sullo stesso social network ha scritto: “La battaglia di Giorgia Meloni per garantire al virus la libertà di uccidere, rovinarci la vita, farci chiudere le scuole, distruggere l’economia non la capisco e non c’entra niente”. Il virologo, facendo riferimento ad alcuni accenni storici, ha poi ricordato alla leader di FdI che “la prima vaccinazione moderna obbligatori risale al 1939″. In quell’anno, quando come Presidente del Consiglio c’era Benito Mussolini, venne resa obbligatoria la vaccinazione antidifterica entro i primi due anni di vita. 

Ed ora torniamo ai nostri giorni.

Oggi si osanna la libertà individuale, “sacra e inviolabile”, in nome della quale tutto è possibile, omettendo tuttavia di soffermarsi su alcuni aspetti spesso trascurati.

Il principio di libertà acclamato e glorificato (a senso unico) solamente come “diritto sacro e inviolabile”, sottende il pieno rispetto di precisi obblighi da parte dei consociati, classificabili come sacrosanti “doveri” ai quali attenersi ineludibilmente. Infatti, soventemente, diciamo: ”la tua libertà finisce dove inizia la mia”.

Orbene, da queste semplici osservazioni, risulta del tutto evidente che in carenza del rispetto dei doveri da parte dei tanti non è assolutamente possibile garantire la libertà dei singoli. Sono libero di circolare, a condizione che il mio percorso non venga ostacolato da chicchessia; sono libero di godere della mia casa a condizione che altri non violino il mio domicilio. Ma non sempre è così, ragione per cui sono costretto a chiudermi in casa e mettermi la porta blindata.

La “salute” è un bene prezioso da tutelare sopra ogni cosa e per fare questo siamo chiamati ogni giorno, in ogni attimo della nostra vita, a sottoporci ad una infinità di doveri di natura personale, ma anche e soprattutto collettiva.

E allora occorre bilanciare il diritto alla salute con la libertà individuale, proprio quello che in questo catastrofico periodo di pandemia si stanno sforzando di fare tutti gli Stati, cercando per quanto più possibile e senza costrizioni di sorta, di contemperate i diritti con i doveri dei propri consociati.

Dice oggi Alessandro Sallusti su Libero “La libertà di vaccinarsi è inviolabile, ma c’è anche il diritto della maggioranza dei cittadini a non vedere vanificato il proprio senso di responsabilità: anche loro sarebbero vittime di nuove restrizioni se i casi gravi di non vaccinati da virus aumentassero significativamente”.

E, per finire, domenica scorsa la nazionale di calcio italiana è stata consacrata Campione d’Europa, per la seconda volta dopo ben 53 anni, ma la gloria calcistica (italiana) non può e non deve nascondere la vergogna (nazionale) dell’aggressione dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere. Così come non può giustificare neanche l’imbarazzo degli insensati assembramenti di Roma per osannare i nostri campioni, considerata la particolare situazione di allarme epidemico.

In medio stat virtus! (2)

Note

1. Green Pass (Certificazione verde Covid-19) rilasciata dal Ministero della Salute, in formato digitale e stampabile, attraverso la Piattaforma nazionale e sulla base dei dati trasmessi dalle Regioni e Province Autonome.

Per certificazione verde (Green Pass) si intende una certificazione comprovante uno dei seguenti stati:

  • l’avvenuta vaccinazione contro il COVID-19;
  • la guarigione dall’infezione COVID-19;
  • il risultato negativo del test molecolare o antigenico rapido (eseguito nelle 48 ore antecedenti).

2. In medio stat virtus. Dal latino “la virtù sta nel mezzo” – Sentenza della scolastica medievale che deriva da alcune frasi dell’Etica Nicomachea di Aristotele, esprimenti l’ideale greco della misura, della moderazione, dell’equilibrio: la virtù è nel mezzo, tra due estremi che sono ugualmente da evitare. È talvolta ripetuta per affermare la necessità o la convenienza della moderazione, dell’equilibrio, o come invito a evitare gli eccessi (Cfr. Treccani).

Fac simile di Green Pass


16
Giu

No-vax e Fake-news

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Bufale e disinformazione sono molto pericolose soprattutto quando riguardano la salute e spesso non è facile distinguerle tra milioni di informazioni diffuse a volte per meri interessi elettoralistici, altre per vere e proprie guerre commerciali o semplicemente per sfizio, lazzo, gusto sadico, incoscienza o pura imbecillità.

Cosa diversa è invece è la controinformazione, con la quale in genere si intende la diffusione, attraverso i mezzi di comunicazione di informazioni che si ritengono taciute o riportate in modo parziale e non obiettivo dagli organi di informazione ufficiali.

Ma sempre cum grano salis, nel senso che solitamente chi presenta il proprio annuncio come “controinformazione” implica che i media di un certo paese (o altro ambito sociale e culturale) siano, in parte o totalmente, asserviti a interessi politici o economici e quindi non siano in grado di rappresentare oggettivamente la realtà dei fatti; in questa logica la controinformazione è in genere associata a una denuncia di censure e di limiti alla libertà di informazione. Il termine disinformazione viene talvolta usato per enfatizzare l’idea che i mass media convenzionali facciano propaganda e che quindi l’informazione da essi fornita debba essere smantellata (dis-informando il pubblico per poterlo poi contro-informare).

Orbene, è sotto gli occhi di tutti la portata epocale della pandemia da Covid-19 che ha mietuto nell’ultimo anno e mezzo la vita di milioni di persone nel mondo intero (al momento: 177 milioni di contagiati e 3,82 milioni di decessi, di cui circa 130.000 in Italia) e gli sforzi della comunità scientifica internazionale profusi per contrastare la virulenza del Coronavirus; sforzi che hanno consentito in soli otto mesi di avviare un’opera di vaccinazione di massa, di cui non è cenno nella storia di tutti i tempi.

E allora … dov’è il problema?

Sicuramente non tutto ha funzionato o funziona alla perfezione, tuttavia in certi frangenti occorre andare per tentativi e vivere, per così dire, alla giornata.

Ed è troppo facile, ex post, dire la propria e soprattutto esprimere giudizi scontati e gratuiti.

Ma è soprattutto scorretto diffondere fake-news per gettare discredito e dissuadere la gente dal vaccinarsi, nella considerazione che – a tutt’oggi – il vaccino rappresenta il solo ed unico rimedio efficace per combattere questa guerra senza quartieri ingaggiata da un micidiale, insidioso e sconosciuto virus nei confronti di una popolazione inerme.

Atteniamoci quindi ai comunicati ufficiali delle autorità preposte e lasciamo lavorare gli addetti ai lavori, diffidando dei ciarlatani da strapazzo, gli stregoni di turno e i sapientoni dell’ultima ora.

Qui da noi, in Italia, tutte le informazioni sono verificate dagli esperti del Ministero della Salute e/o dell’Istituto superiore di sanità e sono basate su evidenze scientifiche, normative, documentazioni nazionali e internazionali disponibili alla data di pubblicazione di ogni notizia.

E’ sufficiente andare sull’apposito Sito ministeriale, dove viene fatta chiarezza sulle fake- news più diffuse, smentendole categoricamente alla luce delle evidenze disponibili.

Per esempio, è falso che i vaccini contro il Covid-19 siano pericolosi perché causano l’ADE.

E’ vero invece che non ci sono evidenze scientifiche che i vaccini anti Covid-19 inneschino l’ADE, cioè l’ “Antibody Dependent Enhancement”, reazione per cui alcuni anticorpi anziché bloccare un virus ne facilitano il suo ingresso nelle cellule. I vaccini autorizzati dalle autorità competenti – EMA e AIFA – che sono attualmente in corso di somministrazione, fanno produrre anticorpi in modo selettivo contro la proteina “Spike” presente sul Coronavirus e la loro azione è volta a bloccare l’ingresso del virus nelle cellule. I vaccini, quindi, non possono determinare l’ADE né in coloro che si vaccinano senza aver contratto l’infezione da nuovo Coronavirus, né nelle persone che si vaccinano dopo aver contratto l’infezione.

Non è una novità: esiste in Italia un nutrito  movimento no-vax contrario alle vaccinazioni, in parte sorretto esplicitamente da alcuni partiti politici o specifiche loro correnti interne, ed in parte di natura spontanea, implicitamente incoraggiato da altre formazioni politiche che si divertono a fare il doppio gioco per assecondare una popolazione (elettorato) provata dagli effetti della lunga fase pandemica sul piano economico, sociale e della salute.

Detto sodalizio si alimenta di dichiarazioni anti-scientifiche sui farmaci utilizzati contro il Covid-19, ove la disinformazione è la vera protagonista.

Si sono registrate manifestazioni, alcune delle quali purtroppo anche violente (lancio di bombe  molotov contro il centro vaccinale di Brescia lo scorso 3 aprile 2021), ed altre, come quella di Roma, che hanno visto sul palco anche alcuni onorevoli parlamentari della Repubblica Italiana, che hanno fatto proseliti contro l’obbligo vaccinale per via delle supposte reazioni avverse ai vaccini, non suffragate da alcun riscontro oggettivo, gettando tra l’altro anche ombre di complottismo, destituite di ogni fondamento.

Si continua con il mantra che i vaccini anti Covid-19 non funzionano e  con la teoria della terapia genica – cavalli di battaglia dei no-vax – descrivendo le istituzioni come corrotte e desiderose di far continuare l’emergenza sanitaria all’infinito (tesi del complottismo), invitando la popolazione alla disobbedienza civile.

Ed ora ancora una nuova bufala: i no-vax puntano su una nuova falsa teoria secondo la quale le varianti del Coronavirus, che in qualche caso hanno causato un aumento nel numero dei contagi, sono in realtà il risultato della campagna vaccinale messa in atto per cercare di combattere la pandemia. Tutto falso: le sperimentazioni cliniche hanno dimostrato che i vaccini sono sicuri per la maggior parte delle persone; non contengono un virus vivo e non possono conseguentemente replicare una nuova variante capace di infettare.

Tuttavia occorre comunque precisare che medici e politici, con pareri controversi e a volte contrastanti tra loro, hanno sicuramente contribuito a creare non poca confusione al riguardo.

Le vaccinazioni aumentano l’immunità contro il virus, il che significa che le varianti che mostrano una resistenza a quell’immunità potrebbero avere più successo nella diffusione. Ma questo non significa che il vaccino abbia creato quelle varianti.

La campagna vaccinale è fondamentale per porre fine alla pandemia e dobbiamo continuare a monitorare i tentativi di minarla.


23
Mag

Agricoltura biodinamica, superstizioni e le monete d’oro di Pinocchio

Carlo Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini, ci racconta, nel suo celebre romanzo “Le avventure di Pinocchio – Storia di un burattino”, che il burattinaio Mangiafoco aveva regalato cinque monete d’oro a Pinocchio perché le portasse al suo povero babbo Geppetto, ma Pinocchio si fece infinocchiare dal Gatto e la Volpe e se ne andò con loro invece di far ritorno a casa.

Cosa avevano promesso di tanto speciale all’incauto burattino i due vecchi marpioni?

Gli avevano detto di non dare un calcio alla fortuna, perché quei cinque zecchini – dall’oggi al domani – sarebbero diventati duemila.

“Ma com’è mai possibile che diventino tanti? – domandò Pinocchio, restando a bocca aperta dallo stupore. “Te lo spiego subito – disse la Volpe – Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c’è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro, per esempio, uno zecchino d’oro. Poi ricopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchi d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di buonora, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno”.

E sappiamo tutti com’è finita la storia delle cinque monete d’oro di Pinocchio, scritta da Collodi nel lontano 1883.

Ed ora, nel 2021, apprendiamo che l’Italia finanzia il cornoletame (corna riempite di letame) e le vesciche di cervo (riempite di fiori di achillea).

  1. Le corna di vacca catturano, quando la vacca è in vita, i raggi cosmici affinché, quando sarà morta o a corna espiantate, il letame in quei corni, seppelliti e diseppelliti in funzione di combinazioni astrali, riceverà le forze eteriche astrali catturate dalla punta del corno, aumentando così il potere di quel letame quando è disseminato sul campo. 
  2. La vescica di cervo maschio riempita di fiori di achillea, lasciata essiccare al sole per tutta l’estate, sotterrata a 30 centimetri di profondità in autunno e dissotterrata sempre nel periodo di Pasqua.

E’ tutto vero: il Senato della Repubblica Italiana ha approvato nei giorni scorsi, quasi all’unanimità, il disegno di legge sull’agricoltura biologica, con 195 voti a favore, uno contrario ed un astenuto, equiparando la cosiddetta agricoltura biodinamica a quella biologica, nonostante la senatrice a vita Elena Cattaneo avesse presentato due emendamenti, poi bocciati, per espungere (cancellare) tale equiparazione.

La Prof.ssa Elena Cattaneo è una farmacologa, biologa, accademica, nota per i suoi studi sulla malattia di Huntington e per le sue ricerche sulle cellule staminali, nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica il 30 agosto 2013.

Ella, da sempre sostenitrice dell’agricoltura integrata, ha criticato la scelta del disegno di legge in esame, definendo l’agricoltura biodinamica “una pratica esoterica e stregonesca” priva di basi scientifiche e votando conseguentemente contro il ddl stesso.

Il giornale HuffPost/Politica ha riportato il 20/05/2021 l’intervento integrale della senatrice sul sito:

https://www.huffingtonpost.it/entry/cosi-litalia-finanzia-cornoletame-e-vesciche-di-cervo_it_60a63b2ae4b0313547938583

Un intervento contro i fondi pubblici destinati alla “stregoneria dell’agricoltura biodinamica” che, come Stamina, è da ritenere una vera e propria truffa scientifica.

Questo l’intervento:

“Signor Presidente, gentili colleghi, membri del Governo, come primo commento generale mi viene da dire che forse ci si poteva o doveva aspettare una legge sull’agricoltura tutta, che coinvolge 500.000 aziende, e non su un’agricoltura di nicchia, i cui numeri andrebbero veramente spiegati in modo proprio, perché sostenere che il 16 per cento del terreno italiano è dedicato all’agricoltura biologica non spiega quanta di quella percentuale è dedicata a prati e pascoli, che ricevono sussidi, ma non producono nulla. Quindi bisogna veramente spiegare.

Torniamo alla legge. Noto con piacere – lo voglio riconoscere al relatore e alla Commissione – alcune migliorie al testo, che hanno almeno in parte recepito indicazioni e rilievi provenienti dal mondo produttivo e dagli studiosi in ambito agricolo. Sottolineo due migliorie: l’introduzione del nodo dei controlli all’articolo 19 e l’eliminazione del riferimento all’interesse nazionale dall’articolo 1. Rispetto a questo aspetto, ho espresso in più occasioni come non vi sia alcun interesse nazionale in un protocollo produttivo di nicchia i cui prodotti non offrono alcuna garanzia di maggiore salubrità e alcun maggiore apporto nutrizionale significativo, come è scientificamente accertato e come è anche indicato nelle linee guida alla ristorazione del nostro Ministero della salute. In sintesi, si tratta di prodotti che si trovano nei supermercati a prezzi doppi o tripli rispetto a quelli privi di certificazione biologica, ma che non hanno nulla di più se non il prezzo. Ecco perché mi spaventa, seguendo le parole del relatore, che si voglia incentivare il consumo del biologico. Perché?

Se anche viene ristabilito un principio di realtà, rimuovendo il riferimento all’interesse nazionale, ho comunque molti motivi di dissenso su questo disegno di legge. Oggi ne tratto uno, che reputo essere una abnormità normativa e che in primo luogo, se non affrontato da noi oggi con una meditata riduzione del danno, esporrà quest’Aula al ridicolo scientifico.

Ho presentato tre emendamenti volti a eliminare almeno il richiamo esplicito e il riconoscimento in via preferenziale a pratiche non solo antiscientifiche, ma schiettamente esoteriche e stregonesche.

Mi riferisco all’equiparazione, ai fini del presente provvedimento, tra l’agricoltura biologica e quella biodinamica, una pratica agricola i cui disciplinari internazionali comprendono l’uso di preparati a base – cito testualmente – di letame infilato nel cavo di un corno di una vacca che abbia partorito almeno una volta. (Applausi). Il corno, una volta riempito, viene sotterrato per fermentare durante l’inverno e recuperato nei giorni prossimi alla Pasqua per essere sottoposto alla – cito – fondamentale operazione di miscelazione e dinamizzazione con acqua tiepida di sorgente, pozzo o piovana, che ha una durata di circa un’ora e può essere effettuata manualmente, ma anche tramite macchine speciali.

Vi ricordo che i bovini non perdono le corna come i cervi; le corna vanno segate dai crani, ma il disegno di legge n. 988 (né – mi sembra – alcun disciplinare) non ci spiega purtroppo se si deve prima macellare l’animale e tagliare le corna, oppure se queste vanno potate dall’animale ancora vivo. (Applausi). Sarebbe meglio disciplinare questa pratica per evitare abusi.

Questo che vi ho appena segnalato si chiama preparato 500 dell’agricoltura biodinamica (detto anche cornoletame). Ascoltate come funziona. Secondo il disciplinare, le corna di vacca catturano, quando la vacca è in vita, i raggi cosmici affinché, quando sarà morta o a corna espiantate, il letame in quei corni, seppelliti e diseppelliti in funzione di combinazioni astrali, riceverà le forze eteriche astrali catturate dalla punta del corno, aumentando così il potere di quel letame quando è disseminato sul campo. (Applausi).

Mi sono sempre chiesta quale sarà la dose di raggi cosmici che le corna devono catturare (le vacche devono essere primipare) affinché tutto ciò risulti efficace.

Nei preparati dell’agricoltura biodinamica c’è anche il preparato 502, ossia una vescica di cervo maschio riempita di fiori di achillea, lasciata essiccare al sole per tutta l’estate, sotterrata a 30 centimetri di profondità (non un centimetro in più) in autunno e dissotterrata sempre nel periodo di Pasqua.

Nello stesso disciplinare del marchio registrato Demeter, una multinazionale con sede all’estero alla quale si pagano royalty, si specifica che ogni preparato biodinamico sviluppa una forza potente e sottile, il cui effetto può essere comparato con quello dei rimedi omeopatici, ossia è assolutamente nullo e indimostrabile dal punto di vista scientifico. (Applausi).

Anche qui mi pongo delle domande. Delle vesciche di quanti cervi maschi ci sarà bisogno? Una vescica per ogni azienda biodinamica? Esiste una deroga alla pratica venatoria che consenta l’abbattimento di tanti splendidi animali dai nostri parchi nazionali, oppure si pensa di importare dall’estero vesciche urinarie estirpate in altre Nazioni o continenti?

Colleghi, rimuovere la parola biodinamica dal disegno di legge, come chiedono i miei emendamenti, non impedisce ai produttori di perseguire queste pratiche e ottenere la certificazione di prodotto biologico (per averla basta rispettare i protocolli), ma esplicitare il riferimento al biodinamico in questo testo di legge avrà l’effetto di dare dignità al cornoletame. Aggiungo anche che si tratta non di equiparazioni tra biologico e biodinamico solo per la parte nella quale il biodinamico mima le pratiche biologiche, ma di una totale equivalenza, al punto che il disegno di legge in discussione prevede che una quota di fondi pubblici venga dedicata specificamente alla ricerca scientifica, alla formazione nel settore biologico e, quindi, all’equiparato biodinamico.

Se quest’equiparazione restasse esplicita (non ci può essere alcun fraintendimento sul suo significato), enti e portatori di interesse potrebbero organizzare corsi e progetti incentrati sull’esoterismo biodinamico con i soldi dei cittadini italiani. Grazie ai fondi previsti dalla legge si potrebbero creare attività e istituire insegnamenti, con tanto di crediti formativi, sulla profondità migliore a cui sotterrare le vesciche di cervo, sulla direzione giusta con cui mescolare il letame o su come meglio orientare la vacca al pascolo perché catturi raggi cosmici. (Applausi).

Credo che l’errore nel sostenere tutto ciò derivi da una cattiva lettura di un regolamento UE del 2018, relativo alla produzione biologica, dove compare la parola «biodinamica», ma non per un’equiparazione. È una mera citazione. Due citazioni danno la definizione di preparati biodinamici come miscele tradizionalmente utilizzate nell’agricoltura biodinamica. La terza citazione si limita a dire che è consentito l’uso dei preparati biodinamici. Questa citazione è sufficiente a sdoganare l’esoteria biodinamica nelle leggi italiane.

Naturalmente il fine ultimo è creare mercato per prodotti che non hanno alcuna caratteristica superiore scientificamente accertata rispetto a quelli da agricoltura integrata, se non i costi. Continuerò, pertanto, a fare la mia doverosa parte per segnalare in ogni occasione che i prodotti biodinamici, come i prodotti da agricoltura biologica che si trovano nella grande distribuzione, non hanno migliori caratteristiche nutrizionale, né hanno miglior cura dell’ambiente, prevedendo entrambi i disciplinari biologico e biodinamico ampie deroghe che consente loro di utilizzare pesticidi di sintesi, che salvano le nostre colture dagli attacchi dei parassiti, consentendo a tutti di avere buoni e salutari prodotti.

Presidente, rimarco che abbiamo bisogno di prodotti sani per tutti e di fatto li abbiamo. Lo certificano la European food safety authority (ESFA). I nostri prodotti integrati bioconvenzionali sono tra i più sicuri al mondo ed è questo il messaggio di interesse nazionale che vorrei tutelato da una politica basata sulle evidenze.

Concludo senza nascondervi che da cittadina, prima ancora che da studiosa di scienze della vita, con esperienza ormai trentennale, provo sconcerto, sconforto e, quindi, dissento di fronte alla legittimazione per via parlamentare nell’ordinamento di uno dei Paesi più avanzati al mondo di pratiche antiscientifiche, esoteriche e stregonesche, specialmente se penso che, a sancire la superiorità del cornoletame sulle evidenze scientifiche, è la Camera alta del Paese che guida il G20, proprio nell’anno in cui per combattere la pandemia da Covid-19 il ruolo indispensabile della scienza è stato universalmente riconosciuto, celebrato e, anche in quest’Aula, osannato. (Applausi).

Tutto ciò premesso, mi pare che il confronto tra la favola delle cinque monete d’oro di Pinocchio sotterrate nel Campo dei miracoli e la favola del cornoletame e delle vesciche sotterrati nei campi degli agricoltori “biodinamici”, non faccia una piega: la prima è tutta da ridere, ma con una morale ineccepibile, che tutti riconosciamo a Collodi; la seconda fa solo ridere e basta!

Auguriamoci solo che alla Camera dei Deputati, ove il ddl è ora passato per la definitiva approvazione, venga espunta (cancellata) almeno questa bizzarra equiparazione.

Da quello che si capta in giro, attraverso gli organi di informazione, la legge che dà fondi all’agricoltura biodinamica fa letteralmente infuriare gli scienziati: “Il Paese di Galileo può finanziare pratiche magiche?”

A questo punto – visto che ci siamo – perché non suggerire al Presidente del Consiglio Mario Draghi di sotterrare nel Campo dei miracoli del paese dei Barbagianni un bel po’ di monete, annaffiare ben bene e aspettare il mattino seguente per raccogliere tutti i soldi necessari per fare un Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) senza mendicare risorse in giro e indebitare i cittadini italiani e le future generazioni per gli anni a venire?


agricoltura biodinamica: cornoletame
https://www.huffingtonpost.it/entry/cosi-litalia-finanzia-cornoletame-e-vesciche-di-cervo_it_60a63b2ae4b0313547938583
5
Mag

Ei fu … Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza

Oggi 5 maggio 2021 ricorrono i duecento anni  della morte di Napoleone Bonaparte.

Sono i versi di Alessandro Manzoni a rendere indimenticabile la data del 5 maggio 1821, giorno della scomparsa del condottiero e uomo politico Napoleone Bonaparte, figura controversa: eroe o tiranno, sprezzante o appassionato, artefice del proprio destino o fautore di storia. Su Napoleone Bonaparte non è mai stato formulato un giudizio univoco e definitivo.

Ei fu. Siccome immobile,
Dato il mortal sospiro,
Stette la spoglia immemore
Orba di tanto spiro,
Così percossa, attònita
La terra al nunzio sta,
Muta pensando all’ultima
Ora dell’uom fatale;
Né sa quando una simile
Orma di piè mortale
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.

Così inizia l’ode che Manzoni ha dedicato a Napoleone, Il cinque maggio, senza alcuna pretesa di glorificare la sua figura, né di muovere a pietà il lettore per il suo trapasso, bensì illustrare il ruolo salvifico della Grazia divina, offrendo al contempo uno spaccato esistenziale della vita dell’ex imperatore: le battaglie, le imprese ma anche la fragilità umana e la misericordia di Dio.

Ma oggigiorno la figura di Napoleone Bonaparte è messa in discussione: un bicentenario non proprio in sintonia con la storia e con il mito che egli ha rappresentato.

La Francia si è preparata per tempo a commemorare il bicentenario della morte di Napoleone Bonaparte e la sua tomba, situata all’interno del Dôme des Invalides a Parigi, è stata opportunamente restaurata. Ma l’idea di celebrare uno dei personaggi più famosi della storia non piace a tutti. Come per altre figure storiche recentemente criticate e rimosse dai loro piedistalli in varie parti del modo (clamorose le ultime prese di posizione nei riguardi di Cristoforo Colombo additato di schiavismo, razzismo e genocidio), alcune delle sue azioni sono controverse.

E’ molto di moda di questi tempi rimettere in discussione il nostro passato e soprattutto i personaggi che ne hanno caratterizzato il destino. Avviene dappertutto, senza eccezioni di sorta. Forse esageratamente.

E come tutte le mode, l’immaginario collettivo è pronto a seguirle in fretta senza soffermarsi un attimo sui tempi, le circostanze, il livello culturale delle epoche cui i fatti si riferiscono.

Si finisce così per fare di tutta l’erba un fascio frammischiando il sacro con il profano, fino a sostenere che lo stesso Iddio Nostro Signore fosse violento, razzista, guerrafondaio, maschilista od altro, con espresso riferimento a quanto riportato nelle Sacre Scritture.

Un vecchio sacerdote della mia parrocchia iniziava sempre le sue prediche contestualizzando i fatti nelle epoche in cui si erano verificati, senza voler giustificare nessuno, ma solo per far capire che  le condizioni, le circostanze, le occasioni e le situazioni  erano  lontane anni luce da quelle nelle quali oggi noi viviamo. E solo immergendoci per un instante in quel contesto potevamo comprendere la sostanza e i significati degli avvenimenti e dei fenomeni accaduti. 

Pensiamo solo che ancora nella seconda metà del secolo scorso (fino al 1975) sussisteva la potestà maritale (l’uomo assumeva in una famiglia oltre alla patria potestà, anche un ruolo predominante rispetto a quello della moglie e quindi l’uomo aveva il diritto di impartire ordini e divieti alla moglie), così come c’era ancora  il delitto d’onore e il cosiddetto matrimonio riparatore a seguito di ratto per fine di libidine o violenza carnale, aboliti solamente  il 5 agosto 1981 con la legge 442.

E, dunque, di cosa stiamo parlando!

La critica forse più feroce nei confronti delle commemorazioni  di Napoleone viene dagli Stati Uniti. In un articolo pubblicato sul New York Times, una professoressa universitaria americana di origine haitiana sostiene che “Napoleone non è un eroe da celebrare”. Marlene L. Daut, questo il suo nome, descrive Napoleone come “il più grande tiranno di Francia”, un “architetto dei genocidi moderni”, “un guerrafondaio razzista e genocida” e una “icona della supremazia bianca”. Gli rimprovera in particolare di aver ristabilito la schiavitù nelle Antille francesi.

Anche in Francia si è discusso molto sull’opportunità di commemorare questo bicentenario. Diverse associazioni e personalità politiche hanno contestato il fatto che si celebri un personaggio storico percepito come dispotico, misogino e sanguinario.

Come si vede, i grandi personaggi e i grandi eventi sono tutti rimessi in discussione; è qualcosa di ricorrente in questo periodo. Passeremo presto dal politicamente corretto allo storicamente corretto.

Ma, se vogliamo, anche Manzoni nella sua ode lasciò un giudizio sospeso su Napoleone:

Fu vera gloria? Ai posteri

L’ardua sentenza: nui

Chiniam la fronte al Massimo

Fattor, che volle in lui

Del creator suo spirito

Più vasta orma stampar.

Tuttavia questi versi rappresentano un’interrogativa retorica, nel senso che al Manzoni cattolico non interessavano le glorie terrene di Napoleone, bensì le sue vittorie spirituali, che riconosceva essere l’unico mezzo per raggiungere una gloria vera e autentica: convertendosi prima di morire, infatti, il condottiero corso (originario della Corsica) ha dato una ulteriore prova della grandezza di Dio, che si è servito di lui per imprimere sulla Terra un sigillo più forte della sua potenza creatrice.

Napoleone Bonaparte, nato ad Ajaccio (Corsica) nel 1769  e morto a Sant’Elena, un’isoletta nell’Atlantico meridionale, il 5 maggio 1821, fu un genio militare salito al trono imperiale.

Nella storia del mondo occidentale la figura di Napoleone Bonaparte, imperatore dei Francesi e re d’Italia, è paragonabile solo a quella di Giulio Cesare. Come questi, Napoleone fu un genio militare senza pari e un grande e illuminato legislatore in un momento di trapasso da un’epoca storica a un’altra profondamente segnata dagli sconvolgimenti della Rivoluzione francese. Ma Napoleone fu anche l’artefice, nell’Europa continentale, tra Settecento e Ottocento, della definitiva trasformazione della società di antico regime in società borghese.

In Italia, Napoleone Bonaparte fece il suo ingresso per la prima volta nel 1796, quando comandò un’armata incaricata di effettuare un attacco diversivo nella penisola durante una guerra di conquista del territorio tedesco e austriaco, guidata da Lazare Carnot, membro del Comitato di Salute Pubblica che all’epoca governava la Francia. Nonostante l’esercito fosse poco numeroso e male equipaggiato, l’armata napoleonica fu l’unica ad ottenere risultati, grazie all’abilità militare e strategica del suo condottiero.

Egli sconfisse prima i piemontesi, poi gli austriaci a Lodi aprendosi l’ingresso a Milano. Successivamente fu la volta di Venezia, Genova, le legazioni pontificie e parte della Toscana. Stabilì l’assetto italiano firmando il 18 ottobre 1797 con gli austriaci il trattato di Campoformio.

In Italia furono varate importanti riforme, che modernizzarono la società lasciando un segno che dopo la caduta di Napoleone non si cancellò. Venne razionalizzata la pubblica amministrazione e rinnovata l’economia, con la promozione del capitalismo nel nord, la concentrazione della proprietà e l’ampliamento del ceto borghese di funzionari amministrativi e statali. Un taglio netto con l’antico regime venne soprattutto inflitto dai Codici francesi (cosiddetti codici napoleonici), sui quali si basano anche le leggi odierne, e dalla legge del 2 agosto 1806 che aboliva la feudalità, nonostante essa fosse sparita solo come realtà giuridica. Infatti i baroni diventarono legittimi proprietari dei terreni di cui erano feudatari e mantennero un’ampia gamma di diritti, conservando quindi il loro potere, radicato particolarmente al sud.

29
Apr

Covid-19 … non sparare sulla Croce Rossa!

In Senato bocciata ieri pomeriggio la mozione di sfiducia di Fratelli d’Italia al Ministro della salute Roberto Speranza, per la gestione dell’emergenza pandemica Covid-19.

Una sfiducia il cui esito appariva scontato sin dalla sua enunciazione, tenuto conto dei numeri che il Partito di opposizione proponente rappresenta in Parlamento.

Infatti, la mozione è stata respinta con 221 voti contrari e solo 29 favorevoli (e pare che i proponenti fossero 33).

Ma forse l’intento della mozione da parte di Fratelli d’Italia aveva una finalità esclusivamente politica: il fine (subdolo!) non era quello di arrivare ad un’improbabile sfiducia di Speranza, ma quello di mettere alle corde Forza Italia e, soprattutto, Lega (suoi partner della coalizione di centrodestra, ma al momento sostenitori del Governo Draghi di cui Speranza è Ministro) ritrovatesi nella difficile posizione di dover difendere (obtorto collo) l’operato del loro ministro.

E la contromossa non si è fatta attendere: i sodali del centrodestra al governo infatti,  pur confermando la loro fiducia in Mario Draghi [Presidente del Consiglio dei Ministri] e conseguentemente nel Ministro Speranza, hanno proposto una Commissione di inchiesta sulla gestione della pandemia da parte dello stesso Ministero della Salute, ritenendo improduttivo il ricorso a mozioni di sfiducia individuali, peraltro senza alcuna possibilità di successo, con l’auspicio che, attorno ad una proposta seria, si possa trovare la convergenza della stragrande maggioranza delle forze parlamentari.

Un giochino alquanto ambiguo, per non utilizzare altri termini più appropriati e congrui alla circostanza: un po’ come sparare sulla Croce Rossa!

Sparare sulla Croce Rossa è un noto modo di dire che può assumere più sfumature di significato.

Si deve partire dalla premessa che i trattati internazionali vietavano (e vietano tuttora), durante le battaglie o scontri a fuoco, di sparare su coloro che soccorrevano i feriti (e che erano ben identificabili dall’emblema della Croce Rossa) così come vietavano bombardamenti su ospedali o su mezzi di soccorso.

Sparare sulla Croce Rossa era quindi un modo di dire utilizzato in passato per indicare l’indegno comportamento di coloro che si approfittavano della loro forza per sopraffare i più deboli e, più in generale, un comportamento biasimevole.

Oggi, nel nostro caso, la frase è del tutto azzeccata, se riferita a coloro che sfruttano la debolezza degli altri per vincere una competizione (meramente politica e di pura rendita elettorale, a dir poco squallida!), e sovrastarli in una discussione inutile e pretestuosa.

C’è un po’ da vergognarsi, in verità, in questi frangenti con oltre centoventimila morti di Covid-19 e una situazione pandemica mondiale ancora in grande evoluzione (attualmente la variante indiana sta falcidiando l’intera popolazione e molti casi sono presenti già anche  in altri Stati, Italia compresa).

Sul Piano pandemico, di cui tanto si è discusso in questi ultimi tempi, Speranza ha chiarito in Senato che il mancato aggiornamento è da farsi risalire ad un periodo temporale molto lungo, che passa attraverso i sette precedenti Governi.

E’ inutile quindi continuare con le polemiche: ora il Piano pandemico c’è ed è aggiornato.

“Non si fa politica su un’epidemia” ha precisato Speranza, il quale non è certamente indenne da errori, sviste, inesattezze, censurabili quanto vogliamo, ma umanamente ammissibili in una situazione di particolare gravità che ha colpito il Paese e il mondo intero. Una pandemia dagli effetti colossali, con un nemico ignoto, subdolo e aggressivo, che ha spiazzato non solo i governi delle nazioni ma anche la comunità scientifica, che si sono trovati nell’esigenza di affrontare il grave contesto, giorno per giorno, con tentativi e sperimentazioni di vario genere, fino ad imbroccare la strada giusta che è quella della vaccinazione di massa attualmente in corso. Con uno sforzo sovrumano e con un tempismo straordinario, per la prima volta nella storia la comunità scientifica ha prodotto vaccini anti Covid-19 in meno di un anno. E a soli quattro mesi dalla loro approvazione da parte degli Organismi competenti, in Italia risulta già vaccinata buona parte della popolazione con gravi fragilità o comunque più esposta al rischio di maggiori conseguenze in caso di contagio.

E, dunque, sparare sulla Croce Rossa in questo frangente con una mozione di sfiducia individuale non solo è criticabile per i motivi già espressi, ma è un po’ come prendersi in giro da soli, poiché le mozioni prodotte dalle minoranze parlamentari sono destinate sempre (matematicamente) ad essere bocciate, com’è del resto costantemente avvenuto nella nostra storia repubblicana degli ultimi oltre settanta anni.

C’è un solo caso, l’unico in assoluto, avvenuto nel 1975 quando venne “licenziato” il Ministro della Giustizia Filippo Mancuso del Governo di Lamberto Dini.

Ma in quel caso la mozione venne promossa dalla maggioranza parlamentare che reggeva il governo, che aveva i numeri necessari per farlo (i numeri ma non la competenza!).

Una storia rocambolesca, quella di Mancuso. Era stato nominato Ministro della Giustizia per le sue riconosciute competenze giuridiche. Quando però cominciò a prendere di mira (secondo alcuni giustizialisti o presunti tali) il pool mani pulite di Milano mandando in Procura gli ispettori ministeriali, la maggioranza percepì che Mancuso era animato da furore antigiustizialista (com’era giusto che fosse un Ministro della Giustizia). Dini provò a convincerlo ad ammorbidire la sua battaglia contro il pool (ma anche il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro ci mise del suo … e neanche tanto sotto metafora) ma Mancuso tirò dritto per la sua strada. I gruppi di maggioranza presero allora la decisione di sfiduciarlo al Senato con 173 voti a favore, 3 contrari e 8 astenuti. Mancuso però non si dimise: fece ricorso alla Corte Costituzionale, che gli diede torto, argomentando che le mozioni di sfiducia individuali sono perfettamente legittime anche se non espressamente previste dalla Costituzione ( … e quindi … si è forzata la Costituzione con un atto arbitrario?).

Da allora un caso simile non si è mai ripetuto.

Ma la storia della sfiducia individuale del  Guardasigilli Mancuso, pace all’anima sua, è comunque una brutta storia, che solo chi ha vissuto quel drammatico periodo denominato Tangentopoli può ben ricordare.


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